Luca Ariano: ‘Contratto a termine’ – nota di G. Di Biase

di Gennaro Di Biase

contrattoa termine arianoLa pulsione più forte della scrittura di Luca Ariano è il desiderio di fare resistenza alla paura di dimenticare le cose: volti, strade, aneddoti, nomi che il verso ha (aveva, avrà o avrebbe avuto) la commissione proverbiale di mettere in cassaforte.
Contratto a termine è un romanzo in versi (situato nella tradizione poetico-narrativa di certo Zanzotto, di Pasolini, ma soprattutto vicina alle voci di Sinisgalli e Bertolucci) in cui la vocazione civile non è mai separabile dalla vocazione alla memoria. Un atto di redenzione, quasi di backup lirico dei fatti, che avviene nella coscienza di parlare di fatti epigoni, di cose che accadono fuori tempo massimo. Il metodo con cui Ariano si stacca dal suo personaggio somiglia a un’ironia seria. L’Emilio (“professore precario”), il Vito (“ex partigiano”, che “vive col respiratore dieci ore al giorno”), l’Enrico (“che la sua storia sembra uscita da un film di Almodovar”) possono essere scritti e ricordati esattamente a patto del loro essere tranquillamente dimenticabili.
Questo nesso di ricordabilità e smarrimento è forse il senso definitivo del “Contratto” che Ariano stipula col linguaggio. E la sua scrittura si eleva nei momenti in cui si fa più evidente la somiglianza tra narrazione e fragilità del narrato: “E’ dura riempire ogni giorno pagine locali \ quando scende un delitto è manna dal cielo”; cioè nel momento in cui si sintetizzano all’osso i motivi stessi della scrittura, e si sorride del lutto, del ricordo, della pianura, come di tutto ciò che appartiene all’intempestivo.
Le due ricorrenti opzioni narrative di “Contratto a termine” sono in questo senso decisamente originali: deragliamento narrativo e liste liriche di oggetti. La struttura di andamento umorale (cito da “Lei con semplice candore”) procede nel sorvegliato deragliamento dall’immagine iniziale; sarà che l’alfabeto nasce da deviazioni primordiali, ma dalla delusione nella fissazione dell’oggetto scaturisce “che i tuoi pensieri stanno lì ad ascoltarsi”, e spuntano “le storie che ti bevi nella calura d’un passatempo estivo”. La trama narrativa è sempre svuotata di contenuto metaforico, le parole diventano pretesto di un raccontare annalistico, gratuito e senza scopo. “Mercoledì è giorno di pulizie” è invece un caso della lista lirica di cose da fare e di oggetti da elencare: “capelli da raccogliere”, “un doccia schiuma rosa cacao per ammorbidire la pelle”. La parola poetica, semplicemente designandolo, astrae il seriale quotidiano. Il componimento, che racconta di una partenza verso Parigi, è la cartolina imparziale di un turismo “piccolo borghese”, semplicemente annotato, certificato, verificato (per usare termini sanguinetiani) nel “non si sta poi male nella copia carbone di Parigi”.
Facendo un discorso di genere, si tratta di una poetica postmoderna che sorveglia uno slancio ideologico, come dimostra l’uso narrativo del “tu”, che designa nel soggetto evocato la facoltà di parola e di ricordo; è questo il caso di “Trent’anni dopo”, in memoria di Pasolini: “Trent’anni dopo non puoi non pensare \ a quel cuore scoppiato, spappolato fegato \ nella cassa schiacciata, negli istanti fracassati del corsaro \ all’Idroscalo di Ostia: \ le parole non erano ancora profezie \ solo per i ciechi \ ogni giorno muore un poeta”.
A livello linguistico, il pastiche di dialetto, pop, la mescolanza di liste liriche di oggetti e tonalità colloquiali sono il segno di un’ansiosa eterogeneità che confina con lo spaesamento linguistico e sociale. Le scansioni linguistiche e ritmiche, il tentativo di lasciare la lirica per arrivare all’epica del romanzo in versi, i personaggi fotografati, consacrati e descritti nel tempo attraverso particolari fisici; Ariano mette in scena una narrazione novellistica, che procede per balzi umorali e deragliamenti; è una poesia che non narra ma evoca: in altre parole, l’impulso è quello del realismo poetico, del bisogno di partire dal “veramente vissuto” per attivare l’emotività da cui nascono i versi.
Chiudo con un’osservazione sul burocratese del titolo della raccolta: “Contratto a termine”, in altre parole “patto” con la funzionale tristezza del mondo civile, da un lato; ma anche patto con la precarietà della lingua, nel momento della scrittura, precario per definizione. Niente di più precario che iniziare o continuare a scrivere. Ma a ben vedere, il precariato della scrittura non è un mulino contro cui lottare, né un demiurgo maligno a cui opporre parole e azioni; anzi, il precariato è il solo stato sociale e linguistico in cui si possono situare parole, azioni e mulini. Dopotutto, scrivere versi oggi significa ancora concentrarsi, gioire e immalinconirsi del tempo in una lingua moritura. Fare senso equivale ad essere dispensati dal senso: ed è questo il contratto che la cultura, la lingua e la poesia non possono non firmare.
(già su argo)
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