Lenzini e Linguaglossa su De Signoribus

trinita dell esodo de signoribusSulla poesia di Eugenio De Signoribus, che Giorgio Linguaglossa liquida come «intarsio di pseudocitazioni» ( pag. 131 “Dopo il Novecento” Società Editrice Fiorentina, 2013), di cui dice in un recente commento apparso sul blog moltinpoesia.wordpress.com:

«in proposito mi viene in mente la poesia di un De Signoribus, che è la tipica poesia di chi vuole prendere le distanze da tutto, che vuole eccedere in zelo, nello zelo profumato del manierismo e dell’eufuismo. C’è molto profumo in questo tipo di poesia. Con il che questa poesia corre il rischio di diventare un esercizio di stile, magari ben cucito e confezionato ma di stile. È una nuova forma di retorica che qui ha luogo, con tutto l’appannaggio di retorismi e di preziosismi e di inversioni sintattiche e semantiche. La poesia diventa così una particolare confezione di retorismi e di barocchismi».

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Eugenio De Signoribus Trinità dell’esodo (Garzanti, 2011): saggio di Luca Lenzini con commento di Giorgio Linguaglossa

Scritto di Lenzini:

Oltre il dopo s’intitola una sezione dell’ultima raccolta di Eugenio De Signoribus, Trinità dell’esodo (Garzanti, 2011): libro che sull’argomento ora evocato, riportato ai suoi cardini etici, ha qualcosa di pertinente da dirci. La figura di un viandante-bambino affronta infatti in Oltre il dopo, che nella raccolta occupa una posizione centrale (in senso architettonico e semantico), un percorso di nitido stampo allegorico, il cui fulcro è il tema del rinnovamento (o meglio, della sua difficile conquista), inscindibile da quello dell’onnipresenza del negativo, assunto nei suoi termini più assoluti e deflagranti. Paradigmatica la stanza d’avvio (I):

Lo svelamento del male cancella via via ogni certezza.
Produce una cenere che soffoca e induce a morire.
Se una parola di verità concede la grazia di resistere,
essa, allo stesso tempo, è una semina.
Pur restando gli stessi, si è nuovi. Più radicalmente
nuovi tanto più radicale è stato il pensiero del morire.

Il registro non è lirico bensì gnomico: nei primi due versi l’unità metrica e quella sintattica coincidono; una ferma assertività governa il testo, in tono grave e asciutto. Il discorso si prende subito il primo piano senza margini effusivi o ambigui, in uno scenario privo di speranza: «male», «cenere», «morte». Dunque una rivelazione, ma senza scampo, letale, quella che il male procura e sancisce: sottrazione di senso, soffocamento, quasi un assedio che è preludio alla morte. Tale è la premessa del viaggio, e nient’altro. Il terzo verso introduce però un’ipotesi di segno opposto, che si condensa nella triade «verità», «grazia», «semina»: dalla resistenza al male può nascere il rinnovamento, a patto che lo sprofondamento nel negativo non sia dissimulato o rimosso, bensì vissuto «radicalmente». Si noti il tono impersonale («si è nuovi»), che in chiave con l’argomentare dei versi si muove in una dimensione ultra-soggettiva, esemplare; e l’incipit vita nova implica un germogliare della «parola» che mira ad una storia plurale.
L’apertura di Oltre il dopo pone il tema della sezione, formata da dodici stanze. I termini del poemetto sono squadernati nella loro amplissima portata, in un recitativo tutto all’indicativo ed entro un nesso apocalisse/utopia che sarà poi declinato, lungo le stanze successive, in una serie di passaggi o «stazioni» dominate dall’incertezza, dalla sofferenza e dal confronto con uno sfondo aspro e desolato: «rovi» e rovine (la «casa diruta», II), un «luogo senza contorni» (II).

Commento di Linguaglossa:

riprendo le considerazioni di Luca Lenzini per svolgerle in un’altra direzione: sì «Il registro non è lirico bensì gnomico: una ferma assertività governa il testo». Bene, non vedo quale sia il problema per il fatto che il registro non è «lirico» ma «gnomico», non vedo il discrimine, la differenza assiologica, o almeno il quid non è spiegato al lettore, lo si dà per scontato: forse che il «registro gnomico» è di per sé superiore al «registro lirico»?- In questi versi, a mio avviso, c’è un ricordo trinitario già richiamato nel titolo, un recitativo con tanto di enfasi su «male», «cenere», «morte», una retorica ben guidata e orchestrata dal tono assertorio e ragionante il quale ci informa, come dalla bocca di un oracolo, che il «male» campeggia, che gli uomini sono i suoi trastulli, che la «cenere» invade ogni meandro, che la «morte» impera etc.; direi una retorica non riesce a dissimulare il velame clericale, che punta sull’emozione della connotazione significante dei sinonimi del «male» per fare pressione sul lettore, ottundere la sua resistenza critica e soggiogarlo con una elencazione di negatività tale da circuire e disarmare il lettore di ogni filtro critico; il terzo verso è rivelatore della filosofia di De Signoribus: «una parola di verità concede la grazia di resistere»; ovviamente, la«parola di verità» è il poeta a pronunciarla, è  lui che «salva» il lettore concedendogli «la grazia di resistere», è lui il poeta l’erede legittimo della religione rivelata che annuncia la «grazia» a chi pronuncia la parola «verità» (esprimo qui la mia sorpresa e la mia personale perplessità su come le cose siano dette in modo così spicciolo e frontale).

Lenzini commenta:  «dalla resistenza al male può nascere il rinnovamento, a patto che lo sprofondamento nel negativo non sia dissimulato o rimosso, bensì vissuto “radicalmente”»; ma è un commento apologetico, cioè ideologico, un fiancheggiamento dato a una visione di matrice teologica che si appoggia all’albero teologico cattolico secondo il quale il «male» deve essere «vissuto radicalmente»  per poter in seguito aderire al Bene. Insomma, il tono liturgico, asseverativo assertorio della poesia, parente stretto del tono dei sermoni religiosi, ci informa che questa è la parola dell’oracolo, una parola ecclesiale, che la sua parola è vincolante per il lettore, che il suo tono e il suo lessico sono entità giudicanti, sono volte verso il Bene e contro il Male. C’è qui mal celata tutta una rete di concetti utilizzati dalla poesia in modo strumentale e surrettizio: si vuole disarmare il lettore delle sue facoltà critiche: perché la poesia è dalla parte del Bene; chi sta nel Male si trova nel negativo, nella «cenere», ergo, il «male» dovrà essere vissuto radicalmente,  etc.

Infine, mediante un collegamento dei concetti trinitari “positivi” tra «verità», «grazia» e «semina» di matrice neotestamentaria e teologica, si arriva alla opposizione di quei medesimi concetti a quelli “negativi” di «morte», «cenere» etc.; qui si ha chiara la visione di come lo scontro tra gli elementi del Bene e quelli del Male sia sfruttato chimicamente dal tono assertorio oracolare dell’autore per intimidire e spaesare il lettore il quale non può, tra le due alternative, che scegliere la via del Bene contro la via del Male. Ma è un trucco, è il frutto di espedienti retorici facilmente individuabili; De Signoribus utilizza l’arma della retorica dei sermoni ecclesiali, il loro lessico e la loro iconologia per veicolare un messaggio quantomeno reazionario. C’è nella poesia dell’autore un afflato ecclesiale, assertorio, monitorio, monologale che non ammette repliche, deroghe o diversificazioni del pensiero o diversificazioni di posizioni; si parla infatti di «verità»; e chi osa criticare chi parla a nome della «verità»?, si parla di «svelamento del male»; e chi di fronte a tali parole ha il coraggio di porsi dalla parte della «non verità» o, ancor peggio, del «male»? – È chiaro che qui siamo in presenza di una mistificazione del messaggio poetico, di una aperta lacerazione del patto di libertà e di criticità che lega l’autore al lettore di un’opera di letteratura. De Signoribus si è fatto prendere la mano, recita a fare il poeta teologale che dichiara le virtù cardinali e teologali del Bene contro il Male… ma, in fin dei conti, è un predicatore, fa la predica, pronuncia un messaggio imbonitorio che sarebbe preferibile lascarlo alla Chiesa cattolica e ai suoi teologi ben più dotati di capziosità e intelligenza dialettica che non il nostro.

Scritto di Lenzini:

Il sonno del bambino-viandante a sua volta è come un franare e scivolare in «gole di neve» e «cupole di vetro» (III): tutto al di qua del possibile risveglio. La «neve» – leit-motiv che ricorre in altre parti del libro – è un gelido coperchio che tutto nasconde e immobilizza: una dimensione senza qualità, propria del tempo attuale, estensivo e totalizzante ma senza progetto. Di seguito, ecco «un deserto infinito di templi» che non reca tracce «delle folle che vi confluirono» (IV), finché si giunge al «padiglione “Dopo il tempo”» di una «Esposizione Universale del tempo a venire» (IV-V), in cui incontriamo «barcollanti disorientati», «volti / di sopravvissuti e inermi», «ma anche piccole schiere / di strafottenti guasconi o annoiati studenti» (V). Il viaggio del bambino continua, forzato il portone impenetrabile che accoglie «dispersi» e «rinascenti», diventando discesa e nekuya, odissea archeologica nel tempo (VII):

Passo su passo, il padiglione serpeggia in pareti
stratificate  e trasparenti. Più impervie dei sette
strati sotto cui fu ritrovato il cimiero di Ettore.
Forse settanta i territori riconoscibili come evi diversi,
eppure eguali le tracce domestiche… A separarli,
densi bordi di polvere nera, dove sono mostrati,
in bacheche inespugnabili, resti umani, piccole ossa
scheggiate, anelli oculari, punte di lance o frecce
in sé ritorte, libri e pergamene con sangue raggrumato, che,
a fissarlo, pare ancora sciogliersi e scolarti incontro…
e specchietti rotti, effigi di sacrifici cruenti o di visi
sorridenti, sempre più sgraniti nel progressivo scendere
sui fronti…
Le cosiddette civiltà si distinguono non per le forme
di vita ma per gli strumenti di morte.

La conclusione della stanza sigilla con una sentenza dolente e senza appello la ricognizione sull’eredità del passato, sviluppando un tema annunciato in Ronda dei conversi («dell’ignobile secolo dei secoli….»), la raccolta del 2005 che precede Trinità. Proseguendo, il viandante ascolta le voci dei seppelliti negli strati del tempo, segnati dalla violenza, dall’orrore: «Dove sei madre? Dove sei salvatore?» (VIII) Scenario da ora nona, da notte del Calvario; ma, avverte una parentesi, «più che un grido, è una controvoce proveniente / da un margine di sé, un’eco dispersa sotto la pelle» (VIII). Non s’incontrano, in questa waste land che sembra presentarsi come una scena-sequenza di Tarkovsky, tracce di speranza né riflessi di futuro; solo un presente che coincide con la «immobilità del nulla» (IX). Poi avviene l’incontro con altri bambini (X), che «hanno in mano niente altro che piccoli / ritratti domestici» (XI). Un pensiero attraversa loro la mente:

– Tutto il buono che ho ricevuto è dentro di me.
È il seme, incancellabile  –

Commento di Linguaglossa:

provo un po’ di sgomento dinanzi a questa sequela di proposizioni apotropaiche e giudicanti (vedi la sprezzante dizione «le cosiddette civiltà») della poesia che vogliono mettere il lettore sulla difensiva, vogliono soggiogarlo con l’enfasi e la retorica di un affastellamento di enunciati di condanna teologica verso gli uomini della «cosiddetta civiltà» colpevoli di «sacrifici cruenti o di visi sorridenti» che «con sangue raggrumato» abitano «il padiglione» di chi ha errato, etc. – C’è poi l’invenzione di un truismo ecclesiale: un «bambino-viandante» per il quale, chiosa Lenzini “è come un franare e scivolare in «gole di neve» e «cupole di vetro»”, con un incremento del tasso di radioattività teologale tale da far impallidire il comune lettore.  Anche qui c’è il solito leitmotiv di una parola di condanna senza appello (non si capisce neanche con chi ce l’abbia la voce teologale che pronuncia la condanna), con un affastellamento di immagini caricate di negatività: «Forse settanta i territori riconoscibili come evi diversi, eppure eguali le tracce domestiche», con un accumulo di connotazioni di frasari pseudo biblici che lascia imbarazzato e immobilizzato il lettore che abbia una qualche residuale cognizione di cultura critica; anche qui procede inarrestabile la logorrea maledicente dell’autore verso gli uomini della «cosiddetta civiltà» colpevoli di aver subito e fatto la storia del «male» in un crescendo generico e genericizzante che non distingue, che non fa distinzioni ma che vuole mettere tutti gli uomini nella zavorra del «male», tutti colpevoli… tranne la parola del poeta il quale, lui solo, conserva ancora la parola buona del Bene dentro di sé: «Tutto il buono che ho ricevuto è dentro di me. È il seme, incancellabile». Ecco svelata la retorica della «parola buona» di cui è portavoce il poeta dinanzi alla parola fallace degli uomini colpevoli di abitare il male delle «cosiddette civiltà». Beh, a me sembra che si tratti di una visione manichea e semplicistica della storia delle «cosidette civiltà»; anche il tono liturgico e il lessico sono insopportabilmente assertori, imbonitori, parenti più del sermone che del discorso poetico, frutto quest’ultimo della civiltà laica e loica del pensiero critico della filosofia classica tedesca, nonché delle democrazie parlamentari occidentali (con tutti i loro limiti e difetti).

Scritto di Lenzini:

Con l’incontro, quindi, riemerge nel poemetto il tema della semina: il bene esiste. Siamo alla svolta, forse, di un rito di passaggio. Passato e futuro confliggono in una battaglia silenziosa e incerta, che offre lo spunto ad un passaggio di rara compiutezza stilistica e immaginativa, conclusa da un soprassalto memoriale che affonda nel dolore individuale ed ha anch’esso valore paradigmatico (XII):

Guardandosi, avvertono che sanno di più delle loro
sembianze. Essi hanno ripercorso tutto il male
del genere adulto. E ora lo lasciano come un abito
da smettere per sempre.
Se lo avvolgi a una pietra, questa sanguina.
Come si può fare perché non abbia radici?
Qualcuno ha brividi, qualcuno vomita ancora al solo
pensiero di ciò che è stato. Qualcuno piange
in silenzio: sa che ci furono vite esemplari,
minime e massime, nei mancanti all’appello della propria
coscienza… ma non sono bastate a fermare i crescenti
barbari e la pronta moltitudine degli asserviti, i draghi
delle finanze e i nuovi capi incarniti in quei corpi
numerici, indifferenti vaticini di morte…
(All’improvviso, egli rivede il bianco lenzuolo coprire
il volto di suo padre e pare di colpo un albero scosso
da un’interna bufera: il pianto dirotto fatto persona)

Il dolore «resta sopra ogni cosa. Regna.», ribadisce la brevissima penultima stanza (XIII), ma il poemetto si chiude, dialetticamente, su un’immagine di ricominciamento, di nuovo inizio:

Con le mani in tasca, i bambini si muovono in una
direzione. Sono solidali nel ripartire. Camminano liberati
sulla cresta dei colli e osservano l’intorno, il di là.
Decidono infine di scendere verso una valle a forma
di nave.
Quando la neve sarà sciolta, chiaramente si vedrà ciò
che è rimasto.
Ma nessuna cosa sarà ricostruita com’era.
Nessuna legge sarà più la legge.
Tutto sarà immaginato di nuovo.
Inizio del 22° secolo dopo Cristo.

Commento di Linguaglossa:

Il verso di chiusura è un monumento che De Signoribus si è costruito come un sepolcro a futura memoria: quello di voler apparire come il poeta giudicante del nostro tempo, del secolo 22°: la sua condanna del genere umano è senza appello, peccato però che tutto il pezzo non è altro che un severo monito in gergo teologale morale lanciato contro le «cosiddette civiltà». Francamente, non capisco che cosa c’entrino «i bambini (i quali) con le mani in tasca si muovono in una direzione» (quale?); forse che sono responsabili anche i bambini? – In realtà, è che la voce di condanna teologale di De Signoribus vuole andare oltre, oltre la condanna degli uomini per colpire anche «i bambini», colpevoli anch’essi delle stoltezze umane. A me sembra davvero troppo. De Signoribus si lascia prendere la mano, parla (e scrive) come un invasato sacerdote del Dio del Bene contro «le cosiddette civiltà» del Male, parla come un fondamentalista, per lampeggiamenti apotropaici ed ecclesiali contro coloro i quali scendono «verso una valle a forma di nave» (perché poi in forma proprio di «nave»?); lancia una interdizione dopo l’altra in un crescendo che ha del ridicolo: «Quando la neve sarà sciolta, chiaramente si vedrà ciò che è rimasto», per poi finire con un apoftegma di filosofia apotropaica: «Ma nessuna cosa sarà ricostruita com’era», e rimarcare in un crescendo che lascia sbigottito il lettore: « Nessuna legge sarà più la legge», in un furor poeticus che gli annebbia la ragione e il buon senso fino al finale che vuole essere una condanna senza appello: « Tutto sarà immaginato di nuovo». Un crescendo abilmente orchestrato di apoftegmi teologali e morali che francamente fanno sorridere. Questa non è poesia, è sfogo retorico.

Scritto di Lenzini:

Ricapitoliamo, a mo’ di largo commento: moto solidale, liberazione, ripartenza, svelamento. Rinnovamento e attraversamento del dolore, necessari entrambe. Un Dopo che non sia più la mera estensione del presente, il quale nega qualsiasi risposta alle richieste della «controvoce» che è in noi. Una visione tratteggiata senza fumi surrealistici né concilianti elegie, ma in ogni momento cosciente della signoria del male: un male non astratto, bensì incarnato in «crescenti barbari», «moltitudine di asserviti», «draghi delle finanze», «corpi numerici». Una scrittura discorsiva e ragionante, perciò, che narrativamente si sporge dall’oggi sull’orlo di un «di là» tanto inesplorato, quanto insopprimibile per l’esistenza di ognuno, dove conta la finalità condivisa («una / direzione»); ed una poesia che non si arrende agli stereotipi e rischia se stessa, assumendo nella lettera tanto il didascalico, quanto il non detto. Non rinchiudendosi nella confortevole gabbia dell’io, nella contemplazione del proprio tormento o dissoluzione, o in facili speranze.
In Trinità dell’esodo c’è tutto questo, a dare sostanza ad una parola, esodo, di per sé inflazionata e ambivalente, la cui radice biblica torna ora a essere vitale, a sollecitare domande ultimative, esigenti. Così il significato trova la sua forma e la forma accoglie la sfida di una denotazione che mostra, che sospende la parabola in un futuro ulteriore ma, chissà, già in cammino (non per noi: per chi verrà, risvegliato e nuovo come non sappiamo essere). Nel finale verso e periodo tornano a coincidere: l’istanza affermativa è lasciata libera di dire la mutazione, l’utopia dimenticata che chiama dagli strati del tempo. Essa è nominata nell’ultimo testo del libro, come in epigrafe:

ecco, utopia, nel quotidiano stento
il tuo volto nell’oltre mi traduce

in quel corso ogni vero ritraluce
prima del chiaro o prima che sia spento

Commento di Linguaglossa:

lasciamo da parte questo gioco di parole del finale fine a se stesso, lasciamo da parte le frasi di circostanza del critico buone per tutti gli usi, molto generiche e rassicuranti, tuttavia una cosa voglio dirla: l’affermazione di Lenzini che il testo sia privo di «fumi surrealistici e concilianti elegie», non è un discrimine, si possono scrivere ottime poesie in gergo surrealistico come anche in gergo elegiaco, non è questo il punto; che la «scrittura sia discorsiva e ragionante» lo dice Lenzini, io la trovo teologale e ammonitoria; Lenzini dichiara che l’autore non si «rinchiude nella confortevole gabbia dell’io, nella contemplazione del proprio tormento o dissoluzione, o in facili speranze», io trovo invece che De Signoribus si abbandona in modo acritico alla piena esondazione dell’Io teologale che pronuncia la Parola di definitiva condanna del genere umano della «cosiddetta civiltà». È evidente che qui l’autore abbia perso il lume della ragione e confonde il genere poesia con quello del sermone e dell’invettiva moraleggiante. È bene dirlo invece con la massima chiarezza: il genere poesia non ha nulla da spartire con il genere subletterario del sermone e dell’invettiva teologale, è bene dirlo con la massima chiarezza: non siamo più ai tempi del Savonarola, dei predicatori e dei fustigatori dei costumi corrotti degli umani, la funzione della poesia non può essere confusa con quella dei fustigatori dei costumi degli umani. Trovo che De Signoribus sia stato attinto da un raptus come dire, teologale, da un raptus di moralizzazione del peccaminoso consorzio umano; peccato però che questo uffizio non sia propriamente il compito del «genere poesia». Ma c’è un equivoco di fondo: De Signoribus vuole presentarsi al pubblico come il poeta sacerdotale, colui che detiene il potere della parola numinosa, che detiene il «sacro», in nome del quale ha il diritto di lanciare anatemi e sermoni agli umani della «cosiddetta civiltà», rea di avere intrapreso la via del male, etc etc. Pronuncia la parola del «sacro».

Scritto di Lenzini:

 «Non c’è contraddizione tra le stanze allegoriche di Oltre il dopo e le loro sobrie cadenze, e il lavoro sulla lingua che, da sempre, caratterizza i versi di De Signoribus, e su cui la critica ha molto insistito. Tra le torsioni linguistiche e le modulazioni metriche catturate e insieme straniate, per via di ellissi e di mimesi, dalla tradizione, e le parti più discorsive, oggettivanti e prosastiche (ma di lega nobile e non senza interne tangenze)»

Commento di Linguaglossa:

mi chiedo che cosa significhino questi frasari pseudo critici generici e genericizzanti che possono valere per il 90% degli autori di «poesia». Non intendo in questa sede fare le pulci al linguaggio critico di Lenzini il quale dovrebbe però quantomeno indicare e spiegare il perché siano proprio «le torsioni linguistiche e le modulazioni metriche» a rendere superiore la poesia di un De Signoribus rispetto a quella di altri poeti; qui il giudizio critico diventa soggettivo, arbitrario, nel senso che non è spiegato e ragionato ma dato come un che di indiscusso e di evidente, quando invece per un altro critico o per un semplice lettore potrebbe accadere che siano proprio le qualità opposte (cioè la directdness linguistica e la rettilineità metrica) a far preferire un altro tipo di poesia. Lenzini accenna al quid del «lavoro sulla lingua» della poesia di De Signoribus, ma non spiega affatto in cosa consista questo «lavoro sulla lingua», in quali tropi, quali siano questi espedienti linguistici e stilistici. Lenzini dà per scontate cose che scontate non sono affatto, grave pecca in un saggio critico che dovrebbe tentare di spiegare quanto in esso si viene dicendo. Lenzini poi accenna alla «lega nobile» di cui sarebbe fatto il metallo della poesia in esame, ma anche qui non spiega di quali metalli sia fatta questa «lega», lo dà per scontato; e anche l’altra dizione: «interne tangenze», mi riesce oscura (certo per miei limiti) ma non capisco a che cosa si riferiscano queste «tangenze», per di più «interne»; e perché non «esterne»? – E così via. Ma è tutto il frasario critico di Lenzini che mi sembra incompiuto, approssimativo, impreciso, non argomentato, non giustificato, con qualcosa di gratuito: un atto di fiancheggiamento alla poesia di De Signoribus che finisce invece per danneggiarla.

Scritto di Lenzini:

 rapporto prosa/poesia «di Trinità dell’esodo il tratto di continuità, a livello superiore (quale organizza il senso, nell’articolazione del libro), è da ravvisare nell’idea-immagine della «controvoce», il sostrato impastato di suoni informi, invocazione e silenzio di chi è esposto al male ed è cancellato dall’ordine del giorno stilato dai vincitori di sempre, grido inespresso di cui la poesia si fa carico. Qui individuale e plurale, esistenziale e sociale, infanzia e maturità s’incontrano. Il male patito riecheggia con un accento collettivo, penetra la musica franta dei testi, dettando la pronuncia dei distici e delle altre brevi sequenze che s’impuntano sulle rime e sono pronti a vibrare al primo passaggio, a inquietare il lettore perché s’arresti sulla pagina, provi ad essere altro. Ogni litania è una intimazione a vigilare, un appello a non farsi catturare: da chi? Da legioni in marcia a ritmo incalzante, di armata notturna, giù lungo i secoli, inneggianti “così è”? Dai fantasmi di noi stessi, o dai simulacri che ci occupano la mente? Comunque sia, Oltre il dopo interviene a designare un orizzonte comune, una direzione. C’è bisogno di un futuro diverso, tocca a quei bambini ricordarlo. …»

Commento di Linguaglossa:

confesso che mi trovo a disagio e un po’ confuso per l’afflato persuasorio e pedagogico del gergo critico di Lenzini, il quale ovviamente ha perduto la bussola della misura e del pondus critico. A proposito di «grido inespresso di cui la poesia si fa carico», ecco, io ritengo che il critico dovrebbe portare degli esempi a giustificazione della sua affermazione; ma poi io faccio fatica a capire che cosa sia e cosa significhi quel «grido inespresso di cui la poesia si fa carico». Chiedo: ma se non è espresso, come fa la poesia a farsi carico di un qualcosa che non viene espresso? – Lenzini continua con «il male patito riecheggia con un accento collettivo», ed io mi chiedo: «male patito» da chi?, dall’autore, dal lettore o dalla sua poesia?; e mi chiedo ancora: e perché mai il «male patito» dovrebbe essere assiologicamente superiore al «male non patito»?   Insomma, potrei continuare sintagma per sintagma ma diventerebbe un gioco troppo facile e mi fermo qui. Lo potrà fare, se lo vorrà, il lettore per proprio conto.

Però vorrei stigmatizzare il finale buonista e vezzeggiativo del pezzo di Lenzini: «Oltre il dopo interviene a designare un orizzonte comune, una direzione. C’è bisogno di un futuro diverso, tocca a quei bambini ricordarlo».

Ovviamente questo gergo non appartiene propriamente al linguaggio critico, è un’altra cosa.

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Giorgio Linguaglossa
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6 Comments

  • Secondo una volgare vulgata che puzza di sagrestia e di incenso valgono come pensieri profondi quelli votati alla teodicea di sciagura e morte. Tale aspetto di sciagura e maledizione è talmente presente nei testi del Nostro da apparire manifesti della vuota trascendenza, vuota in quanto falsa; tutta quell’enfasi sul turpe destino degli umani cade come pioggia sul Pineto, getta un fascio di involontaria ironia sul lessico che vuole far mostra della «bella interiorità». È un modo di atteggiarsi di fronte agli uomini fasullo, da falsario, nella misura in cui lo stile falsifica le carte (cioè le parole) rendendole soverchie e saturnine.

    • Effettivamente certe scelte ctonie di De Signoribus lasciano perplessi perché la produzione di senso si inceppa , si incarta , si offre alla nostra interpretrazione come un rebus di entropia linguistica . Questo al di là di una poetica che può risultare più o meno condivisibile , ma che comunque va accolta . In fondo si scrive così come si vive e non credo che D.S. sia un baro .
      leopoldo attolico –

  • dalla lettura degli articoli dei due critici appare evidente che lo scritto di Lenzini sia appiattito a supporto, a sostegno della poesia di De Signoribus, l’altro, quello di Linguaglossa, sia invece uno scritto di scavo e di approfondimento che non bada all’etichetta dell’editore o alle ragioni di convenienza letteraria.

  • alcuni versi del De Signoribus (come quelli del De Angelis, Cucchi e tutta la cricca milanese, tranne Marini e Valduga: migliori di loro) non sono versi, ma sono schifezze prosastiche; questo poeta, ma non Poeta, farà la fine di quei poeti dell’8oo inutili e sconosciuti come quelli che Silvio Ramat nella rivista POESIA vuole risuscitare a forza! Linguaglossa fa male a sprecare il suo talento per un poetastro; Lenzini non so chi sia ma dichiara sciocchezze.

    • trascrivo un commento inviato da Rossella Cerniglia:

      Caro prof. Giorgio Linguaglossa,

      condivido perfettamente le sue parole. Perseguire la chiarezza nel linguaggio è una scelta etica che ho sempre ammirato di contro agli artifici che, fin troppo spesso, mascherano il vuoto. Essere il più possibile chiari per l’interlocutore è un principio di onestà che rispetta se stessi e gli altri. Si può essere, talvolta, oscuri – come molti filosofi lo furono – perché un pensiero è troppo “carico” di pensiero. Non credo, tuttavia, che un Eraclito si proponesse di essere tale. Invece, molto spesso, si assiste, come lei ben dice, a un niente di contenuti, di idea, travestito di belle, colte, – all’apparenza – suadenti espressioni. Ma ci si accorge che questo sfoggio ipocrita ha la consistenza di un guscio vuoto, è l’imbellettatura di una miseria. Produce, infine, in chi assiste, la stessa rabbia che ha l’onesto di fronte alla disonestà e l’uomo che pensa di fronte alla pochezza spocchiosa.

      La saluto cordialmente

      rossella cerniglia

  • Luca Lenzini, analizzando un passo di Trinità dell’esodo di Eugenio De Signoribus, fa una semplice, oggettiva costatazione: “Il registro non è lirico bensì gnomico”. Giorgio Linguaglossa replica con una domanda illattiva: “forse che il “registro gnomico” è di per sé superiore al registro lirico?”. Il quesito appare fuori contesto, cioè fuori dall’analisi del testo poetico preso in esame e tuttavia, volendo rispondere, si potrebbe dire, contrariamente alle sottintese aspettative del critico, che sì, il registro gnomico può aprire orizzonti, se non superiori, certo più vasti soprattutto se si riescisse, come accade solo in rarissimi casi, nei veri capolavori, – negli ultimi due secoli di letteratura italiana non saprei indicare molti altri esempi oltre La Ginestra di Leopardi -, a far convivere, in sintesi suprema, il registro “gnomico” e quello “lirico”, filosofia, politica e idillio. Ma non è questo il punto. Qui la domanda sembra fatta solo per allontanare l’attenzione del lettore dai versi, che pure vengono citati, di De Signoribus, accusati di “enfasi”, di “retorica ben guidata e orchestrata”, incapaci di “dissimulare il velame clericale”, di “fare pressione sul lettore” e, addirittura, di “ottundere la sua resistenza critica e soggiogarlo”. Le accuse non vengono però sufficientemente provate. Si commette invece un falso palese. Si trasforma un periodo ipotetico “Se una parola di verità concede la grazia di resistere…” in una affermazione perentoria, “spicciola e frontale”: “una parola di verità concede la grazia di resistere”. Infine si attribuisce allo stesso poeta, forzando arbitrariamente il testo, quella che è stata fatta diventare, nell’incontrollato crescendo polemico, la parola di verità: “ovviamente…è il poeta a pronunciarla”. Eppure, nonostante queste forzature e mistificazioni, l’intento di Linguaglossa è assai nobile e condivisibile. Si tratta di ricucire lo strappo “di una aperta lacerazione del patto di libertà e criticità che lega l’autore al lettore di un’opera di letteratura”. Solo che qui, ammesso per assurdo che un autore, nella solitudine della sua scrittura, abbia mai il potere di ottundere l’intelligenza altrui e di vanificarne l’eventuale spirito critico – assurdità intellettuale alla quale Linguaglossa sembra sorprendentemente autoesporsi – non vi è stata alcuna rottura dei nobilissimi, inviolabili patti non scritti tra autore e lettore. Devo dire che, se può valere una esperienza personale, dopo aver letto e riletto Trinità dell’esodo (come pure tutta l’opera precedente del poeta di Cupra Marittima), le mie capacità critiche non hanno subito danni, la mia laicità è rimasta intatta ed anzi si è rafforzata. Le “superbe fole” dello spiritualismo teologico, o per dirla con Linguaglossa, del truismo ecclesiale, rimangono tali, destinate cioè ad estinguersi per autoconsunzione. Perché allora tanta vis polemica contro di loro fino a combatterle, assestando colpi alla cieca, anche là dove esse sono già morte? Perché non vedere nel bambino-viandante una futura umanità tutta umana, una giovane materia pensante? “Camminano liberati / sulla cresta dei colli e osservano l’intorno, il di là”. I versi aprono a un nuovo futuro, ignoto allo stesso poeta. Non dovrebbe la critica aiutare a percorrere un nuovo cammino liberandoci e liberandosi, essa sì, dalla pedagogia dei sermoni e dalle invettive?

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