Beppe Salvia per Elisa Sansovino

prato pagano sansovino

«Asciugo il viso con un panno / che di resèda profuma, guardo / la luna dalla finestra tonda, / termina l’anno ». «La vela il mare dipinge, lontana / col suo acceso colore, e sulla riva // un’atteggiata bambina prende / la vana malìa del sole // sotto un cappello di paglia».

Queste, che sembrano scritte da un antico poeta cinese, qualche saggio vecchio un po’ ebbro, « mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore» (Bertolucci), sono due brevi poesie tratte da Estate (Il Melagrano – Abete Edizioni, nuova ed. a cura di Beppe Salvia, allegato a «Prato Pagano », 2, 1985) di Elisa Sansovino. Una nota del curatore informa che già nel 1949 fu stampata, in «cinquecento copie, legate in brossura e con la copertina di colore grigio », un’edizione privata di queste poesie; dell’autrice, niente. Ma una foto (che, con una poesia ritrovata, chiude il libretto) ne rivela la fisionomia. In primo piano, una motoretta con quattro ragazze sedute sul sellino, in posa, quattro liceali sorridenti; sullo sfondo, un prato d’una probabile periferia urbana, altre moto, altri ragazzi. «Elisa ha il vestito bianco», è scritto a mano sotto la foto. È bruttina, magra, viso scavato ma simpatico, e sorride timidamente. Il «quadernetto» è un diario delle vacanze pieno di malìe, che racchiude e testimonia i primi moti del cuore, le segrete confidenze di un’anima che s’apre alla vita imparando a guardare e a guardarsi, «tutto un pensiero fondo / di fiorita sapienza dopo amore» .

Poesia incolta e naïf, il cui fascino si deve alla spontaneità e alla leggerezza? «La sdraio a strisce piane / è accanto alla vetrata // e a quelle vane bande / colorate posa accanto // smesso un abito sgargiante / bianco ». La grazia, la semplice chiarezza, il suono limpido con cui i versi s’impongono all’attenzione e alla memoria non sono, certo, frutto di sola spontaneità. C’è, è vero, a momenti, qualche ingenuità, qualche nota stonata («m’ha giunta »: pag. 24; «tinna »: pag. 33; «lappa» e «molce »: pag. 38), ma, sostanzialmente, c’è consapevolezza («S’apre leggera gonfiandosi la tenda, / pare che tenda un attimo a volare… ») e capacità tecnica («e m’accade di lagrimare miti / singhiozzi, non più l’odore bello / in quelle stanze, mai chiuse al vento, / del vento di mare e non le danze / al vento dei mustacchi di palme / non le calme ore al meriggio, / leggera leggere un libro di Kormendy, / e il pelo tuo di lendini vispo e d’allegrezza… »); c’è finezza nell’accostare le parole («Seguita la motoretta il suo riottoso / strèpere… ») e attenzione ai risultati che gli accostamenti generano («ho provato a disegnare un gas / volatile a fame l’abile / simile visibile…»).

Come si spiegano allora tanta precisione ed acutezza tecnica, tanta scaltrezza, da poeta consumato, in quella ragazzina? È il momento di dirlo: si spiegano con un gioco. Un gioco che anch’io ho voluto giocare, ritardandone lo svelamento, in ricordo di Beppe Salvia, il giovane poeta morto poco più di un anno fa, che del librino si dice curatore, mentre ne è l’autore vero.

A Beppe piaceva «l’immodesta arte di troppe vite vivere », inventarsi altre identità lo stimolava. Dal suo gusto per il gioco nascono Elisa Sansovino e le poesie del suo bel canzoniere estivo. Ma, in virtù dei risultati, il gioco è presto trasceso e la raccolta si anima di vita propria, diventa una bella riuscita nata dalla felicità espressiva di cui Salvia, forse più d’ogni altro della nostra generazione, era naturalmente dotato. Sicché, pur conoscendone il segreto («ombra d’un dolo»?), pur ammirando la calibratura dell’artificio, il suo perfetto funzionamento, non si possono non sentire questi versi come veri. E in realtà lo sono, perché Elisa non è solo un personaggio della fantasia, bensì parte cospicua della personalità di Beppe, anch’egli, spesso, liceale candido e incantato, ma, prima di tutto, il poeta consapevole che i suoi versi (in cui le stesse ingenuità figurano per esigenze di finzione), con la loro riuscita, rivelano. C’è in essi (al di là, ripeto, dell’intenzione ludica) la naturale bravura che lo faceva essere sempre più esigente verso se stesso e la propria poesia, senza per ciò sentirsi mai veramente poeta, anzi con timidezza, naturalmente schivo, e alla «vana ricerca d’un lavoro» estraneo alla letteratura.

Estate termina, come dicevo, con una poesia mancante nella « prima edizione », che in extremis duplica il gioco, e lo rovescia: Elisa dedica i suoi ultimi versi a un interlocutore lontano, qualcuno che non c’è più – e sembrano diretti ora proprio a lui, all’autore segreto che, con la maschera di Elisa, rivolga parole presaghe a un se stesso post mortem: «vorrei darti conforto, // ma mi mancasti prima e spesso io / ti cerco invano… ».

Francesco Dalessandro
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