Sensi imperiali. Dialogo con Massimo Sannelli

A cura di Elisa Valeria Nissim

ELISABETTA D'AUSTRIAIl libro che hai curato con Vittorio Laura (Una rapida ebbrezza. I giorni genovesi di Elisabetta d’Austria, GMT, Genova 2013) tocca questioni importanti, soprattutto se si conosce il tuo lavoro. Questo libro sull’Imperatrice è marginale, per te? È un’opera di storico locale? Che cosa è, all’interno della tua ricerca?

Non è marginale, perché sta in un percorso, privato e non privato. Non è un’opera di storico locale, dal mio punto di vista: ho solo allineato testi, disponibili per chiunque, e l’interprete del contesto sarà veramente lo storico. Non io. Ho scritto un testo preliminare, non da storico, e lì ho descritto l’elemento glorioso di una trama responsabile. Questa trama è personale e comunitaria, genovese e impersonale, nello stesso tempo. E ho trovato – reale, nei giornali del 1893, al livello più semplice dell’informazione – l’«orgoglio della propria originale magnicenza», come ha scritto Alfredo Oriani: la persona, il personaggio, il modello stilizzato. E l’«originale magnificenza» è venuta qui, «arrivò tra noi l’Imperatrice Elisabetta d’Austria», come scrisse «Il Secolo XIX». La persona è un mistero; il personaggio può essere descritto: è teatro, letteratura, anche cronaca; e il modello è anche imitabile, perché è Stile. Viene tra noi, e noi possiamo essere sedotti.

Ci può essere identificazione? Che cosa c’entra il precario di oggi con un’Imperatrice che ha «69 colli di bagagli»?

Il corredo è inimitabile. Imitabile è il comportamento, non a caso ce ne sono manuali e testimoni. Non c’è identificazione, al nostro livello: nessuno di noi può proteggere la propria solitudine come l’Imperatrice. Noi viviamo nella mediazione, di volta in volta buona o untuosa. La nostra solitudine è fatta di momenti di solitudine. Ma l’Imperatrice ha solo momenti di compagnia: allora «si mostra affabilissima con tutti», «si fermava sovente a conversare con operai o con lattivendole, e per tutti aveva sempre una parola gentile».

Se non c’è identificazione, ci può essere il fascino.

Va bene: in principio c’è il fascino. Come se uno pensasse: non ti conosco, ma cerco di riconoscerti. E non so chi sei, ma lo ammetto: tu mi piaci. Il giornalista dice: «La sua persona sottile e slanciata, destava l’ammirazione dei passanti, i quali pur non conoscendola, la giudicavano senza errore, per una persona d’alto grado». Vedi: l’«alto grado» non è mostrato dall’abito, ma dal corpo. Qual è il rapporto tra «persona sottile» e «alto grado»? In realtà, chiunque può essere una «persona sottile», anche se è di basso grado. Ma qui il discorso è implicito: la sottigliezza ha il suo portamento e l’«ammirazione dei passanti» lo vede.

Per te lo Stile non è retorico. Deve essere sempre lo stile di qualcuno, e possibilmente essere manifestato da un’icona, ed essere il più pubblico possibile. Per te l’informazione è tutto.

È chiaro, perché è vitale. In questo caso, lo Stile marca l’«alto grado», «pur non conoscendola». E amo l’informazione, è vero.

Che cosa è l’Italia per Elisabetta d’Austria?

L’Imperatrice non è una Dolce Maestà fiabesca. Non è Sissi. Non è la Reginotta di Capuana. In Italia deve aver colto un fondale per la liturgia della rapida ebbrezza; niente di meno, ma niente di più. Non ha sentito gli italiani, né la loro lingua. La cortesia «con operai o con lattivendole» è quello che è, cortesia. Christomanos registra le sue parole: «Anch’io ho dovuto imparare l’italiano, ma è una lingua con cui non sono riuscita a familiarizzarmi. Del resto, sarebbe stata fatica sprecata». E Oriani, nel 1901: «Amava il mare, ma non amava il popolo che gli somiglia».

La tua abitudine è mescolare e contraddire: D’Annunzio e Simone Weil, Cioran e Bousquet, ironia e disperazione. Non hai mai pace. Di solito ti difendi con il bon mot: «tutto è in tutto». Ho sempre avuto l’impressione che tu sia un attore, soprattutto un attore.

Tutto è in tutto. Ma tutto non è per tutti. Ci sono cose non comunitarie, né comunicabili. Allora: avendone la possibilità – che è un vero Potere economico – si può vivere totalmente sul piano dell’estetica: il viaggio, la Grecia, il greco, Heine, la pettinatura, bere a qualsiasi fonte, le passeggiate; a scapito di qualsiasi utile. Tutto questo non ha niente a che vedere con la felicità. Non è nemmeno la libertà assoluta. È solo la libertà di non essere in quel particolare luogo in cui non ti riconosci. Tutto qui. L’Imperatrice non ha funzioni e non fa funzioni. È un simbolo vivente, ma troppo inquieto per essere stabile: è un simbolo vivo, e inquieto perché è vivo. E dico simbolo vivo, per non dire simbolo umano. L’umano puro e semplice non è dell’Imperatrice: nessuno sforzo è troppo, per ridurlo ad uno zero ridicolo, ad un fatto altrui.

Leggendo, si vede l’amore per Genova. Ma non solo. È come se Genova fosse una specie di habitat ebbro, rapidissimo. Ho sempre la sensazione che tu ti riveli in queste figure e nella tua città. So quanto la ami, perché ci torni sempre, da distanze sempre più diverse…

Si parla sempre di sé. Tutte le interposte persone sono simboli e sostituti. Sono stili. Chi li contempla può essere parlante come autore, e allora sarà un po’ registico; oppure sarà afasico, come il mistico ideale. Ora: Genova è una città tra Vita e Morte, grandioso passato, futuro incerto, invecchiamento veloce, ecc. E ha due enormi monumenti orizzontali: il Cimitero di Staglieno e il Centro Storico. L’Imperatrice li attraversa. In particolare, Staglieno la seduce; e ci va a piedi come se dovesse meritarselo.

E a che serve meritarsi Genova? Meritarsi di vedere Staglieno?

C’è una sintonia marina e funeraria tra la Signora e la Città. È chiaro: qui la Signora non ha fatto nulla di eroico, se non in sé. Salire in cima al Monte Gazzo non è la gloria, ma è l’azione, ed è una bella azione. A che cosa serve? A niente. Per questo è una bella azione. La solitudine in cui la compi – e la solitudine imperiale in cui torni, dopo averla compiuta – accentua la bellezza: non ci sarà molto contatto umano, dopo la discesa. Non ci sono confidenti da appagare. Ci può essere – al limite – una devozione che ascolta, come quella di Christomanos. Più probabilmente, non ci sarà nessun dialogo umano, e solo silenzio. A questo punto non si fa più sesso del corpo, ma il corpo si impone un sesso: il taglio latino. Secāre. E non si fa più sexus con altri: si è un sexus, un vivente-sexus, tagliato fuori. Irrelato e senza casa: si vorrebbe morire in mare. E Christomanos prende nota: «Ai nostri occhi la sua vita è un non vivere: si potrebbe dire che, ancora da viva, si trova in uno stato che esclude la vita».

Inevitabilmente: il tuo interesse è politico?

Lavoro per lo CSAO, che ha curato le Opere complete di Cesare Battisti, il martire. Ho fatto una performance di ore per Battisti: il patriota, il socialista, il soldato, ecc. Il problema può diventare politico, ma ora non mi interessa. Voglio dire: non credo di avere nostalgie austriacanti, e nemmeno retoriche superitaliane. Ma l’umano – i fatti umani – è inesauribile; e anche le negazioni dell’umano sono inesauribili, di volta in volta eroiche, snobistiche, vili, grandi, mostruose, estetiche. «Dolce fino allo spasimo l’umano», secondo Mario Luzi, ed è vero. Ma anche: lancinante e incredibile l’atto che vuole uscire dall’umano, e la stessa uscita è fino allo spasimo. Non è detto che ci sia dolcezza. Le azioni di una Signora sono comunque signorili. Nulla di politico. E c’è ancora chi ama questo Galateo e questo Convivio signorile. È solo il continuo – lo sai – e spasmodico, anche retorico, e barbaro, interesse per le arti estreme della vita. Christomanos scrive: «“Ciò che portiamo dentro di noi vale più di tutti i titoli e gli onori” ha detto l’Imperatrice. “Quelli sono stracci colorati di cui ci si ammanta credendo di coprire chissà quale nudità. Ma non mutano la nostra sostanza”».

Nulla di politico. Fai fatica a credere a risorse comuni. E sul piano individuale? In te?

Lo ha detto Lei: «Quando si confrontano i nostri rapporti umani con queste cose eterne, con i fiori o i calabroni, si vede quanto sia ridicola la nostra umanità». A me interessa il carisma sostanziale, inesauribile, di chi ha secato un ruolo. Cioè i rapporti: perché quello che pesa in un ruolo non è la funzione, ma il contatto.

Trento, estate 2013

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