OPERA PRIMA 2013: I vincitori – Mario Campanino

Fresco di stampa, è da poco uscita la raccolta di Mario Campanino L’angelo morto, vincitrice del premio Opera Prima 2013 (qui tutte le info per la partecipazione all’edizione 2014), di cui proponiamo di seguito la premessa a firma di Flavio Ermini e la postfazione di Carla De Bellis.

Per richiedere una o più copie de “L’angelo morto” scrivere a [email protected]

campanino 2013
PremessaIl disvelamento dell’essere è determinato unicamente dall’iniziativa dell’essere. Il vivente linguistico ha una sola possibilità: porre la parola nelle condizioni di accogliere questa iniziativa.

Mario Campanino ne è cosciente e con L’angelo morto dispone il proprio testo ad aprirsi all’essere e lo rende disponibile a esso. Lo fa spogliando il linguaggio da ogni invadenza del soggetto. Questo perché una poesia che si proponga di rivelare il mistero della vita dell’essere non può costituirsi come l’espressione angusta di un io particolare, così come non può essere considerata un riflesso del mondo sulla nostra mente.
All’io Campanino affida l’apertura e la chiusura dell’opera. Nella prima poesia l’io scrive: «Ho visto un angelo sul marciapiede / in mezzo a tante irrilevanti cose». Nell’ultima poesia l’io scrive: «Ho visto l’angelo e non avevo tempo / solo poco più di un istante». All’io Campanino affida il ruolo del tecnico che alza e cala il sipario. Non è un ruolo secondario, beninteso. È il consentire un’apertura; il predisporre il testo a un dono, a una rivelazione. In quell’apertura, che durerà «poco più di un istante», c’è il dovere di dire la verità dell’essere, l’indivisibile che ci accomuna al di là delle differenze – uomini e donne, viventi dotati di linguaggio e angeli morti, realtà visibile e realtà invisibile – dalle quali siamo identificati e con le quali ci riconosciamo e chiediamo di essere riconosciuti. Fino al momento in cui l’io riappare e sullo svelamento calerà il sipario.
Con L’angelo morto Campanino ci indica che il pensiero interrogante porta la parola poetica – interrogandola – alla sua dimensione essenziale, dimensione che fa esperienza della prossimità e della lontananza che si succedono nel rapporto con la verità delle cose. Ciò avviene nell’emergenza della verità dell’essere, quando ogni nozione implica l’altra, e nessuna può essere pensata da sola.
Campanino evidenzia questo concetto legando tra loro le singole poesie attraverso agganci semantici o lessicali. Per esempio, la poesia XIII chiude con «non aveva neanche la linea della vita», mentre la poesia successiva apre con: «Era un corpo senza storia». Allo stesso modo, gli ultimi due versi della poesia XX, «se fosse stato un uomo sarebbe apparso / uno che non si era mai comunicato», vengono ripresi dalla successiva: «Chiaramente non era un uomo / anche se poteva trarre in inganno».
Ma un altro dato emerge dall’opera di Campanino: la rivelazione dell’essere non è diretta, perché avviene attraverso le cose. A differenza dell’essere, le cose si avvicinano e si annunciano. Per colui che ne è toccato si tratta di saperle nominare. Come per quell’«angelo sul marciapiede / […] / apparso lì semplicemente / come in un’epifania / non di cosa violata / ma di cosa che si svela».
Insomma, ciò che noi vediamo è la cosa che si manifesta in se stessa, ma non ciò che fa sì che essa si manifesti – l’essere – il quale resta perlopiù nascosto. Il movimento di manifestazione della cosa è duplice e, in qualche modo, ambiguo, in quanto innesca una differenza che è difficile da cogliere.
A questo proposito va sottolineato un dato importante nella ricerca di Campanino: il suo procedere per negazione nel dare parola all’essere. Scrive: «ma non come un ricordo / o una dimenticanza», «non era affatto distinguibile», «e certo non come un velo / e neanche come un sudario», «e non era neanche una metafora dell’uomo / e men che meno della vita». Questo avviene per assecondare l’essere nel suo sottrarsi alla nominazione e giungere a coglierlo, appunto, per negazione.
Questi movimenti verso la cosa e verso l’essere ci segnalano che il linguaggio poetico ha due proprietà: cogliere il ritrarsi della presenza e l’emergere di un’assenza. Questi movimenti rinviano alla profondità dell’essere esperita poeticamente. Non sono la garanzia dell’essere, né tanto meno possono dire cosa significhi “essere”, ma permettono di intendere e di porre la domanda intorno all’essere, questo sì.
Campanino richiede, con L’angelo morto, di partecipare a una poesia che abbandoni la soggettività e sperimenti la facoltà di contemplare il prodursi storico dell’essere nella prospettiva del poetico.
Flavio Ermini

La morte dell’angelo e il corpo della scrittura
Postfazione di Carla De Bellis 

La scrittura poetica invita ogni volta a decifrare il senso del sistema simbolico che sempre va tessendo e chiede all’occhio di chi la osserva di penetrare ciò che non è altro che un corpo fatto di un velo di figure. Quando la scrittura di Mario Campanino mostra di indicare quale suo oggetto proprio un «corpo» offrendolo nella sua natura di simbolico traslato, l’occhio altrui è allora indotto a riconoscere, in quella liscia «pelle» tesa sulla caducità e l’inerzia, l’immagine figurata di un tessuto contesto di parole, quindi della poesia stessa.
Appartiene, il «corpo», a un «angelo morto» e quella sua «pelle» è ciò che lo rende visibile: il linguaggio dalla figurale visibilità è ora annuncio muto, esanime messaggio che descrive la propria contraddizione. Al corpo dell’angelo mancano infatti le «ali», ed esso non è nemmeno una «metafora dell’uomo» (Stanza XXI): non possiede il verbo della compiutezza, o non possiede più alcun verbo; non è nemmeno «un sogno» né un’«allucinazione»; ma è ancora un «corpo», simile a quello dell’uomo. Mimesi sempre imperfetta, e ora estenuata.
La geometria del pensiero, l’immagine dei concetti che nella sua forma più astratta ed essenziale abita la mente, prova a prender corpo nella parola, ed ecco che la parola sempre la sporca di sensibile corporeità, perché essa sia sensibilmente figurabile. Le strutture della scrittura non sono i purissimi schemi articolati nel pensiero: e ancor più qui le loro suture appaiono accidentate convenzioni, non snodi cristallini ma sfregi di «cicatrici», che sigillano un «involucro» inoltre alienato. La forma che, per darsi, cerca compattezza e coerenza – la saldezza della perfezione – non fa altro, alla fine, che richiudersi in sé: sigilla la voce in un paradossale silenzio e si tende come refrattaria superficie (perché il «corpo» è «senza perfezione», nella Stanza XV).
Nell’alienazione del senso che va svuotando le vicende umane, la forma regolata da un’arte appare schema deprivato e abbandona una scoria dove il suo corpo, quello che vivo dovrebbe perennemente annunciarsi, si espone soltanto accennato e ormai esanime. Nella seconda stanza della raccolta che cos’altro se non la forma è l’implicito soggetto che si abbozza in «qualcosa come un segno» e che non è «un annuncio o un messaggio» ma solo gli si assimila («Era qualcosa come un segno / come un annuncio o un messaggio…», Stanza II)? È infatti «qualcosa soltanto da vedere»: solo parvenza di forma, svuotata speranza di voce. È questo il secondo suo indizio, che dice anche la natura ostensiva della forma, il suo mostrarsi; il terzo è il dirla appunto «corpo», quel «corpo angelico», che, se non annuncia a gran voce, giace come morta ostensione. Attorno a sé esso attrae «tracce» e «impronte», ancora «segni»,

lasciati da «altri uomini» e dal loro passaggio: la residua visibilità delle figure del linguaggio, che si dissipano nelle sue «alterazioni» (Stanza XXII).
Davanti al mostrarsi dell’«angelo» come cosa inerte ma visibile non può che profilarsi la sagoma di chi lo osserva: un occhio, uno sguardo. «Ho visto», dice lo spettatore all’inizio della prima e dell’ultima stanza. Il poeta annuncia alla prima persona la sua presenza solo nel gesto statico del vedere allontanato in un prossimo passato che gli aliena ogni possesso. Ma le tappe delle stanze hanno mosso una trasformazione: quello che appare all’inizio come un angelo («Ho visto un angelo…», Stanza I) in un’improvvisa «epifania», diventa alla fine, attraversando un tragitto, l’angelo («Ho visto l’angelo…», Stanza XXIV), quello impigliato nel suo esser morto e nel suo desolato mostrarsi.
Il vedere segna la distanza dal corpo alienantesi, che viene avvolto in un tempo imperfetto, inconcluso, e come trascinato nella sua inerzia. L’«era», ribattuto stanza dopo stanza nella scansione del tempo e del senso, è la descrizione di un non esser più: dove non agisce tras-formazione, non il volgersi di una forma in un’altra, ma solo sottrazione. La forma non conosce nemmeno la de-formazione, che pur sempre nuove forme produce, di una morte (quella «morte», infatti, è «immutante», nella Stanza XVII): l’angelo è solo «derubato» di «ogni segno vitale», impronta negativa di una perdita. La parola, specchio che con l’immagine coincide, procede appunto per continue sottrazioni, per negazioni e per similitudini che ripetono il movimento di un approssimarsi inibito, poiché continuamente corrette, mutilate, smentite, sicché immagine si sovrappone e si sostituisce a immagine, in un gioco di parziale cancellazione. La descrizione si mostra antagonista a sé stessa. La sintassi verbale, che lega la forma di quel corpo, in realtà intende dissiparla nella sottrazione indotta dai «non» e dai «senza», spesso incalzanti in successione: la sintassi del corpo si regge sul paragone senza referente, sui «come» (nella formula «non come… piuttosto come…»), i «non», i «senza», che dicono e disdicono, disseminando tracce dispersive.
L’angelo dalla pelle invano suturata cerca almeno di ricordare la corporeità materica della parola della poesia che ha dismesso speranza di messaggio, sporcandosi di «polveri» e «detriti», i minimi resti informi sola condizione della sua residua visibilità di trama di figure: perché quello che non ha «ali» né «scapole alate» è ormai «un corpo senza più pretese» (Stanza XV), e non è strano che in quel «niente» che gli abita la mano non ci sia «nemmeno […] un fiore da poeta» (Stanza XIII). Non è più nemmeno la «pelle» a essere visibile, ma a designare il corpo della parola poetica è solo la «polvere» che lo ricopre, e ben diverso ne appare l’aspetto da quello dei veli traslanti che sempre essa ha conosciuto. Se dunque è ancora possibile vedere l’angelo, è solo perché esso si sporca di infimi detriti, che sono segno di uno «sporco di abbandono» («A terra era così sporco / che anche l’asfalto non aveva colore / e non era uno sporco procurato / ma uno sporco di abbandono / con il tratto distintivo della noncuranza…», Stanza VI).
Così poco ne resta che l’angelo è residuo, «rimanenza», e il linguaggio che lo descrive è indotto a esplorare altri contesti d’uso della parola, tanto da incidere quel corpo almeno con i segni della quotidiana banalità e della convenzione

prosaica, se dati non sono i segni della presenza: la sua deprivazione diventa allora un «mancato approvvigionamento», il suo oscurarsi è «come una fine delle trasmissioni» (Stanza XIX).
Ciò che più decide le sorti della perdita è proprio quella mancanza di segni sul corpo, in grado di aprirlo al futuro e alla memoria («e nessun segno che avesse avuto un figlio / e un’apertura sul futuro / o almeno qualcuno a ricordarlo», Stanza XVIII), e le «firme» che pare qualcuno vi abbia lasciato sono, di un possibile «nome» e di un identificante possesso, marchi del tutto vani perché lo consegnano solo all’«altro mondo» ignoto della morte: nessuno ormai possiede la voce annunziante che viva acceda agli spazi futuri.
Ma se è un «corpo», e proprio quello della parola poetica, attraverso la parola a manifestarsi pur con la sua morte e il vuoto, non può qui non strutturarsi un’articolazione, una connessione di arti. La raccolta si scandisce in ventiquattro “stanze” di dieci versi, che, prive di segni di punteggiatura, hanno nell’unico punto posto oltre l’ultimo verso più il sigillo di una sutura che quello di una distinzione: e infatti spesso l’una si lega, appunto si sutura, all’altra attraverso richiami fra il penultimo verso di una e il primo della successiva. Nel corpo del testo la ferita che separa le membra accosta i lembi per rimarginarli, legarne i margini.
Anche la serie degli incipit allineati nell’Indice articola un insieme, perché i segmenti risultano suturabili, ricomponendo essi la forma di un corpo, in qualche modo, coeso. È, anzi, più visibile l’«angelo» col suo corpo frammentato e ricomposto, con le «cicatrici» e i loro margini legati, la sua imperfetta durata («aveva», «era»), le sue deprivazioni e le sue esclusioni («non aveva», «non era»), e l’occhio del poeta/spettatore che, sia all’inizio («Ho visto un angelo sul marciapiede») sia alla fine della serie segmentata («Ho visto l’angelo e non avevo tempo»), mostra di assumerlo con distacco nel suo sguardo come altro da sé, chiudendone col suo sguardo il perimetro, e, davanti alle sottrazioni del corpo, sottrarsi subito a sua volta, da lui distogliersi. Ognuno degli incipit, inoltre, risuonando del contenuto dell’intera stanza, condensa il proprio senso, come appare nel secondo, che già indica l’«angelo» come un «segno»: «Era qualcosa come un segno», e poi di seguito nel terzo, che lo mostra nel suo esanime reclinarsi: «Giaceva a capo chino».
La riflessione dell’occhio che sta osservando la poesia, quando l’occhio è quello dell’autore stesso, lo induce all’ingresso in un mondo parallelo, entro uno spazio speculare metapoetico. È da lì che il linguaggio espone l’apparente paradosso, e la fiducia, di farsi tuttavia, strutturandosi nei versi, specchio del «mondo» – è un mondo ormai «morto» (Stanza XXIV) –, quando delinea una forma che si dichiara priva di ogni «memoria di forma» e articola la propria stessa sorte nella figura di un angelico «corpo» inanimato.
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2 Comments

  • @Ermini: Molto Heidegger, indubbiamente. Ecco, forse un po’ troppo. “predisporre il testo a un dono”, “dovere di dire la verità dell’essere”: essere in rapporto con l’Essere non è programmare un’esperienza mistica, né si può dare un accantonamento dell’esserci.
    Esprimo una convinzione: se la poesia è un dire “originario” (tutto da discutere), lo è, al più, in virtù di una “suscitazione” sempre-già-accaduta rispetto al dire medesimo: questa suscitazione sempre-già-accaduta è, a ben vedere, una struttura dell’esistenza: la finitudine. E la finitudine, certo eco del passaggio dell’Essere, è sempre UN punto di vista.

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