Roberto Pagan su ‘L’osservatorio’ di Francesco Dalessandro

di Roberto Pagan

osservatorio dalessandroCon questa riedizione del suo L’osservatorio – in una nota l’autore registra con puntiglio variazioni e rifacimenti rispetto al precedente del 1998 – Francesco Dalessandro intona e inscena una vasta melopea che si caratterizza in primo luogo per una straordinaria tenuta ritmico-musicale e una omogeneità stilistica impeccabile. Nelle quattro parti in cui il libro è articolato (L’osservatorio, Stagioni del basso mondo, L’azzurro del cielo, Mare delle passioni) scorre un flusso ininterrotto di immagini, pensieri, visioni, in lunghe lasse libere e mobilissime, in apparente disordine, mentre resta sottesa una ben calibrata rete di rapporti e corrispondenze tra le parti e il tutto: una lucida architettura che impone anche rigorose simmetrie esterne: per esempio sono sempre dodici i brani che compongono almeno tre delle sezioni. E dovunque affiora o s’intuisce una profonda consapevolezza del proprio lavoro, un’attenzione quasi artigianale che sovrintende all’opera. Non di rado del resto l’autore si rappresenta a colloquio con la sua musa, la musa / dei poeti spendaccioni di sé: intento al suo scrittoio come disciplinato scriba al paziente / esercizio dei versi… il mio vizio solitario, parlandoci dell’ostinata pazienza dei versitutto il santo giorno battagliante in me col rinato rovelloE fin dall’inizio sa anche perfettamente definire le linee del suo gioco poetico: ho bisogno di un verso / liquido che fluisca naturale / […]che sia / ricco senza effusione e scarno senza / povertà… Questo verso assume sul piano tecnico le movenze sostanziali di un endecasillabo, spesso ipermetro, spesso tenuto in bilico su enjambements ben dosati, sorretto da rimalmezzo, assonanze e consonanze richiamate nel lago sonoro anche come echi lontani. Scarsa la punteggiatura, appena qualche punto e virgola, qualche trattino di sospensione a dividere le lasse tra loro, parecchi gli incisi e le parentesi che si intersecano e si accavallano ad assecondare lo svariare del pensiero, la labilità delle impressioni, il frantumarsi continuo del nostro mondo interiore. L’insieme è vigilato da un ritmo interno implacabile sullo spartito, ove la voce (decisamente raccomandabile una lettura non silenziosa di questi versi) ritrova da sola le sue pause naturali, i suoi riposi.

Ma qual è la materia su cui si esercita questo lussureggiante fluire di versi? Alla prima evidenza è il vivere quotidiano dell’uomo di oggi imprigionato nella ragnatela della grande città: in questo caso, inequivocabilmente, la città è Roma, odiosamata noverca, mortale / città, sull’acqua fosca dei suoi fiumi / letali, vista e goduta in infiniti fotogrammi, nelle sue vie, nei suoi rioni, richiamati da nomi precisi – Monte Mario, il Pineto, il Gianicolo, le luci del Forte, le finestre accese su Pineta Sacchetti, i tornanti della Via Trionfale, e Primavalle proletaria e il passeggio svagato verso Villa Borghese al Tritone, la bassura di Valle Aurelia, e lo sfondo dei suoi colli – dalle più varie angolature, in tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni: ma nella sommersione del traffico, nell’asfissia degli ingorghi inestricabili, assediata dalle teorie di luci cangianti dal bianco / al rosso […] dell’inversa corsia […] bava / brillante di lumaca, o nella sua vita notturna che, ancora, è marasma e frastuono… In questo quadro, a volte infernale e apocalittico, l’uomo smarrito, dal vetro della sua automobile, all’uscita dal tunnel della metropolitana, a tratti intravvede quasi con stupore squarci di paesaggio naturale, i filari verdecupi dei pini e le spente / acacie macchiaiole, i nuvoli assordanti degli storni… sui grandi platani o, vicino a casa, il giardino assolato dove rinverdiscono erba e fogliame, dove l’edera ha camminato verso il muro / di cinta, …  la lucertola che indugia pigra ai tepori del sole, osserva affascinato le tartarughe, i testardi animali che tentano / sempre la fuga con spirito indomito / di libertà […] (evasi anch’io una volta ma nessuno / mi riacciuffò, tornai spontaneamente). Ecco. Riconosciamo certamente il poeta in quell’uomo sperduto, con la sua ansia di libertà delusa, con i suoi dubbi e le sue irrisolutezze, l’incapacità a reagire, i suoi dilemmi sentimentali, il suo piegarsi malvolentieri alla vita borghese, i dissapori della vita domestica, i giorni sciupati  / inerti come le piantine del soggiorno, l’ansia […] nel ritorno / a casa dove in due si è più soli.

Ad ogni modo, è il ritmo del diario – e del calendario, con la vicenda assidua e mutevole delle ore e dei giorni, unico elemento a scandire il passare del tempo nel ripetersi così altrimenti monotono dei nostri gesti – quello che innerva le varie sequenze, assimilandole nella stessa cadenza monologante ove scene di vita reale si fondono e si confondono con il cangiare metamorfico dei pensieri e le suggestioni impalpabili del sentimento. Ma, come appunto nel ciclo inderogabile delle stagioni (le minuzie dei miei giorni, di giorni sempre uguali nel novero infinito / delle ore); così in questo tenace, ossessivo o estenuato, evocare rimane l’impressione di una mobilità immobile, di un fluire circolare, che rimanda all’immagine di un dramma non risolto, perché irresolubile. Questa strenua fatica del guardarsi vivere, nell’ambizione di registrare con precisione assoluta le scene della vita esterna, la varia presenza della natura, come l’agitarsi caotico della nostra interiorità emotiva, è il filo conduttore che ci accompagna lungo tutto il libro: il quale, come si è visto, è diventato davvero il libro di una vita, nel suo dipanarsi uguale e diverso negli anni dell’autore. Una tela di Penelope, che è, per sua natura, “infinita” nel senso che non può avere conclusione. Così, meticoloso amanuense di se stesso, scriba solitario dinanzi alla sua musa, l’autore tesse e ritesse i sogni sognati e le immagini impresse nella sua retina, viste e intraviste attraverso occhi di meraviglia o palpebre socchiuse.

“Ci sono immagini che non vengono mai tolte dal proiettore dell’anima, ma continuano a scorrere ininterrottamente per tutta la vita”: così avvertono  (nell’esergo alla quarta parte) le parole del regista Ingmar Bergman. Ed ecco allora che il libro, nato intimamente lirico, nella sua stessa dilatazione si fa poema, epicizza il nostro oscuro vivere quotidiano, scontento di sé fino alla nevrosi. Nell’inferno della sua sensibilità ferita, il solitario scriba che osserva lo scorrere di una vita senza perché, è a sua volta osservato dall’Osservatorio: quello reale di Monte Mario, più volte richiamato in questi versi, concreto e simbolico insieme, puntato verso l’irraggiungibile cielo, ma insieme eretto come ombra ammonitrice sulle “stagioni del basso mondo”.

Un’opera così fatta attraversa, com’è naturale, anche nel lessico tutta una gamma di sfumature, si adegua al linguaggio più frusto della quotidianità, irto di tecnicismi e di espressioni corrive, ma, nei momenti di maggiore tensione emotiva, s’impenna e rivisita tutte le forme più elette della tradizione, sia nelle linee più energiche dell’espressionismo dantesco sia in quelle più morbide e stilizzate che vanno da Petrarca a d’Annunzio. Tutta la classicità è certo filtrata dalla copiosa memoria del nostro scriba (per non parlare di echi e di spunti mutuati da altre culture, specie da quella anglosassone). E non è un caso che in Dalessandro da più parti si sia scorta la componente “classica”, ma insieme anche un’anima “barocca” per un bisogno di travalicare la misura; e si potrebbe parlare di una effusività “romantica” o di un’inquietudine “decadente” per qualcosa di monumentale, di ondivago, di struggente (penso alla musica di Bruckner o di Mahler, ma anche, perché no?, alle sottigliezze psicologiche di Proust – ma sarebbero tutte indicazioni assai vaghe). Si è guardato anche a più vicini modelli novecenteschi, si è fatto il nome di Bertolucci, un poeta certo caro a Dalessandro: ma, a parte qualche estrinseca analogia metrica, la dimensione di Bertolucci è prevalentemente narrativa, più intimamente riflessivo mi sembra Dalessandro, e, anche nel linguaggio, più proclive ad assaporare la parola preziosa. Convivono qui, nello stesso afflato polifonico, molte anime. Se ci fosse lo spazio, piacerebbe approfodire alcuni momenti di particolare efficacia, pur nella loro diversa tonalità: per esempio il n. 11 della prima parte, delicatissima cronaca di una gita fuori porta, che segue con sfumature psicologiche sempre cangianti una coppia rappacificata dopo uno screzio: rinati a una passione / postuma di se stessa che il miele / della tardiva fioritura addolcisce; mettendolo a confronto con l’amara autoironia delle sequenze 4 e 5 della quarta parte (Buon pensiero del mattino I e II), dove i versi, continuamente frammentati da lineette di sospensione, registrano in terza persona, come in un balletto meccanico, strawinskiano, un’intera giornata dell’uomo qualunque, dal risveglio al viaggio in macchina e in metropolitana, andata e ritorno, fino a riprender posto la sera al suo scrittoio, il solo / specchio dove specchiarsi […] anche se […] non misura / l’abiezione dei giorni che lui passa fuori / di sé…; per concludere con i “versi epici” (n. 11 della quarta sequenza): dove, sulla traccia di un oscuro poeta bizantino, risuona solenne e struggente l’elegia di una vita strozzata: …in una zona d’ombra che non è dei vivi / né dei morti cammino respiro e vedo l’aria e il sole […], solo per questo mi contano tra i vivi / ma per il resto rassomiglio ai morti.

(Pagine, Anno XXII, numero 66, gennaio-aprile 2012)

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