Poesia 2.0

La mano ozia nel nido delle tue cosce,
è sera, e la sera rinnova la pioggia,
mai cessata di fremere.
— Alessandro Ricci

Note universali dalla sarditudine. Studio di A. Ferramosca su ‘Il guado della neve’ di Luca Benassi

Benassi guado della neve

Insolita raccolta poetica, questa di Luca Benassi, poeta romano di ascendenze sarde, che assimila ed elabora in poesia quella indefinibile sarditudine, mix di cultura millenaria, lingua, mito, natura, per restituirla – comprendendovi anche le ombre di un recente passato – con le vibrazioni e l’efficacia incisiva della poesia.

Un guado che richiede di essere attraversato con estrema attenzione, fin dalle epigrafi; in genere trascurate, le epigrafi sono invece sempre segnali rivelatori di senso, anche quando scelte dall’autore inconsciamente. E qui il senso è nello straordinario legame delle tre citazioni con le precedenti raccolte poetiche dell’autore, con le loro sottili allusioni ai fuochi tematici del proprio percorso.

Nella prima epigrafe infatti, tratta dall’Aiace di Sofocle, che peraltro rimanda alla classicità, all’equilibrio versus la sua perdita nel nostro mondo che vacilla, vi è l’eterno richiamo al mito, che nella raccolta I fasti del grigio, 2005, si mescolava al quotidiano, con le visioni di un assedio di Troia contrapposto all’assedio-dolore personale e universale. Tema comune anche al libro L’onore della polvere, 2009. E in quel “Tu mi assilli, donna” già appare l’indicazione della centralità del femminile con cui confrontarsi, e nel secondo verso si allude all’artificiosità di una teologia irraggiungibile, da cui prendere le distanze per riportarsi ai valori sacri della fisicità e della terra, temi, questi comuni ad entrambi i libri.

E la seconda epigrafe, con i quattro versetti di Giobbe, è richiamo evidente alla plaquette Di me diranno, 2011, alla demistificazione di un’edulcorata teologia del Natale, con l’invito a misurare le giuste dimensioni di una terra davvero umana, fatta di dolore, corpi, fisicità, per poter accedere con verità alla rinascita.

Infine la terza citazione è un fulminante proverbio sardo, il cui senso è la constatazione di vivere in una società ingiusta, che dunque apre alle atmosfere di questo Guado della neve, che accoglie tutti questi temi e li addensa di nuove suggestioni. Un micromondo di terra-anima che si fa specchio del macro, dove bellezza e malessere dilatano in note universali.

Già il titolo, che è anche quello della prima sezione del libro, indica un attraversamento e fa del nome di Baunei (che significa appunto guado della neve nella lingua di questo paese dell’Ogliastra) la metafora del cammino umano, di questa nostra vita con le sue fredde asperità così difficili da valicare nel rigore delle nostre solitudini, nella distanza frapposta tra le nostre isole interiori, dovunque ci troviamo, per generale egoismo, irresponsabilità, irresolutezza. È il guado che Benassi indica ad una umanità sopraffatta dall’errore, che affronta ostacoli e vortici cercando i varchi benevoli lungo la corrente e la discesa nel pozzo sacro della purificazione, in una simbologia che conduce al possibile ritorno a un equilibrio oggi in dissoluzione. E in questa tensione è centrale il richiamo al principio fondante del femminile, a quella Grande Madre arcaica che in questa terra – e non solo nell’archeologia – e nell’anima della gente sarda si avverte palpabile, come profilo di donna ancora parlante, essenza ancestrale ancora viva; un archetipo fortemente collegato con l’elemento acqua, che consente la vita, la guarisce, la salva.

Vi sono almeno tre livelli di lettura di questo libro, che corrispondono ad altrettanti intenti evidenti dell’autore, con note di indiscutibile novità.

Il primo intento, che si evidenzia fin dal primo testo e diviene tratto unificante della raccolta, è quello di voler immergere subito il lettore in un “paesaggio totale”, un paese-anima che è compenetrazione di terra e vita che vi scorre, fusione di pensieri e suoni, di scena e lingua; una lingua sentita come parte integrante, fisica, che da questa terra promana, come visione del mondo che questa terra produce, sua profonda anima.

Trovo in questa scelta un primo elemento di forte novità in poesia; la volontà di versare in lingua di Baunei gran parte di questi testi (tutti i testi della prima sezione, quasi metà dalla raccolta) che in terra d’Ogliastra sono nati o comunque da questi luoghi sono stati ispirati, è un voler evidenziare l’adesione estrema di chi scrive al genius loci, alla vita che qui scorre in luci e ombre e chiede di rappresentarsi nella sua più autentica verità. E concordo con la prefatrice Erminia Passannanti quando parla del ricorso alla traduzione in lingua di Baunei (nella bella versione di Tiziana Orrù), come un voler compiere un processo inverso a quello consueto della traduzione dalla lingua regionale verso quella nazionale, quasi a voler offrire un dono di poesia totalmente comprensibile alla piccola comunità di Baunei. Ma credo pure che l’autore abbia di sicuro percepito l’addensarsi di significato, l’aggiungersi di quel di più di verità alla scrittura, che conseguono al passaggio nella lingua viva del luogo che ha ispirato i testi.

Un altro intento, come si è visto già premesso in epigrafe e che attraversa tutte le sezioni, anche se con intensità e suggestioni diverse, è quello di voler far emergere in modo nuovo la figura femminile. Questa tensione connota Benassi come l’unico, forse, tra i poeti italiani che riflette in poesia sulla necessità di rifondare una visione della donna anche nell’immaginario poetico oltre che nella generale ben nota distorsione cognitiva e culturale sessista. In questo superamento di ogni preconcetto, che qui si dimostra compiutamente elaborato dal poeta e chiaro di consapevolezza, Benassi attinge anche alla memoria di un passato arcaico, così che un profilo femminile di grande libertà e potenza prende corpo attorno alle sorgenti e ai pozzi della purificazione, e la donna appare la insostituibile compagna lungo il guado, la Facilitatrice nella ricerca di senso.

Questa visione è evidente nella raccolta fin dal primo testo, che si apre come una stanza sacra dell’accoglienza di grande suggestione. Dove una ninfa Camena si catapulta dal pantheon romano in terra sarda, legandosi-identificandosi nella sacerdotessa che compie il rito dell’acqua presso il pozzo-tempio, uno dei tanti disseminati sull’isola, relitti prenuragici di una devozione alle acque sorgive legata al ciclo fertile della donna e della terra. E il lessico pure sceglie qui le note del femminile materno, ventre di donna, culla sospesa, sul fondale di una natura pànica in quella tana di volpe sotto un lentischio. Una forma che deflagra subito nel testo a fronte, nella suggestione sonora della lingua di Baunei.

Una donna che viene descritta nella sua mutevolezza, nella gioia liberatoria e liberante (l’uomo) ne Il ballo tondo, nella costrizione obbediente alla religione nell’ Ave Maria dell’acqua, poi nel destino di lutto nei testi successivi della prima sezione. Nella seconda sezione il pensiero continua vorticare intorno all’asse unificante del femminile-acqua, dove il dovere dell’elemento liquido, espresso già nel titolo della sezione, è quello di dare luce (di senso). È la preghiera di un nuovo Adamo, che chiede aiuto nella ricerca di senso a una vera Eva , che l’uomo sta imparando a riconoscere, a decrittare, a onorare.

Si noti pure come nel testo ogni lemma è investito di un ruolo semantico preciso, fortemente evocativo, come quel fuoco di mirto che, lontano dal rischio di manierismo di cui si parla in prefazione, sta nel verso con giustezza e grazia a richiamare il ritmo – astorico – dello scorrere di una vita pastorale in un tempo arcaico, nel lento fluire delle consuetudini quotidiane.

E nel successivo ballo tondo, che ricorda un’altra arcaica danza mediterranea, quella taranta affondata nei lontanissimi riti dionisiaci, emerge il parallelismo di comuni percorsi collettivi di liberazione, con la notazione aggiuntiva che qui si sta evocando una storia semiaffondata nella leggenda: un’invocazione ad attraversare insieme il guado fatta da un uomo innamorato ad una fantasmatica donna sarda rapita dai mori. Pur restando nell’ambito metaforico della ricerca di senso, la particolarità è proprio nell’augurio che questa donna, divenuta straniera d’africa per effetto del rapimento, possa salvare se stessa e con lei l’amante solo se riuscirà a portarlo con sé nella sua nuova terra-letto di palme. Sembra che il canto voglia qui adombrare un possibile salvifico incontro tra culture, capace di portare entrambe alla originaria innocenza . Colpisce l’energia trasfigurante che questo testo opera sulla figura femminile, che qui appare come un ibrido di misteriosa vitalità, sospeso tra l’essenza divina di una madonna e quella terrestre, libera e sovversiva, di una baccante. E non sfugge a Benassi come l’energia liberatoria insita nella consuetudine della danza e del canto sia stata poi nella storia imbrigliata negli schemi della tradizione cattolica, evento sottolineato nel successivo canto, Ave Maria dell’acqua, questa volta in lingua originale, tradotto dal poeta in italiano. Un’operazione, credo, di chiarezza socio-antropologica, fatta con gli stilemi e gli esiti della poesia. La preghiera diviene nei testi successivi presa d’atto di una realtà sociale amara, con il ritorno ad una visione di lutto, una giovane uccisa, la processione, l’inumazione, un destino collettivo intriso di sangue, colto nella sua ineluttabilità. E il testo con dedica a Mario O. ha infatti proprio il profilo di un compianto, di un rito di sepoltura che rievoca la solennità dei rituali arcaici a cielo aperto della necropoli di Montessu, alta, affacciata sul mare, per alcune espressioni descrittive: mentre la sera chiude la faccia stralunata / al mare e pure: in una lingua senza scrittura, dove il rito non scritto era l’incisione nella pietra dei simboli della spirale eterna, dei denti di lupo a far da guardia alle tombe.

Segue, in Non c’è paura da queste parti, una scena-preludio di tragedia (sviluppata poi nell’ultima sezione), che descrive con grande incisività l’incubare sordo della decisione sciagurata di effettuare un sequestro, compreso il macabro taglio dell’orecchio. Una regia sapiente della parola fa qui emergere tutta la tristezza di questa ferita incomprensibile, un’ impotenza collettiva che si fa mutismo attonito eppure complice.E la paura che rende inerte la collettività viene fissata, nella mitopoiesi del poeta, in una scena tragica immobile, astorica, sospesa nel suo senso di scuro destino.

Il cammino prosegue poi verso il guado, tenendo per mano un’orfana – scegliendo il poeta una donna ancora come medium di senso – nel rito di gettare in acqua lo specchio del dolore. Ancora una volta l’acqua che salva, la limpidezza da bere per continuare a vivere, ma con la guardia da tenere alta, quella di un gatto selvatico pronto allo scatto. Stile e contenuto, forma e immaginario appaiono in questa scrittura strettamente legati, si intrecciano e fertilizzano a vicenda, producendo nuove visioni, inaspettate soluzioni.

Un altro tratto di novità di questa scrittura è infatti nella ricerca stilistica, che sempre continua all’interno di un artigianato già maturo della parola, ma evidentemente, come in ogni umile-grande- autore, mai sazio di sperimentarsi. In questa raccolta Benassi decide dunque di accostare la vena lirica alta, ma non tanto da non essere amata (cifra che già conosciamo dalle precedenti raccolte), a brani di prosa poetica, o meglio poesia in prosa, alla ricerca di un nuovo dettato melodico-ritmico. E la sua scrittura orizzontale appare spesso paradossalmente più incandescente e rarefatta di quella in versi, conservandone il canto, e rivelando una forza affabulatrice e straniante che la rende densa trascinatrice di senso. Tutta la seconda sezione Il dovere dell’acqua è scritta in prosa poetica. Ne riporto uno dei brani più intensi, da Il pozzo,V:

Questo è il vento del valico che ingravida le donne del villaggio di uno stesso seme impotente, maligno di tristezza, racconta le storie del mare, scava il granito in forma di tomba. Un vento pieno di luce che inchioda due grembi incollati allo stesso destino.

Questo è il vento del mare rosso di porfido, che abbarbaglia l’azzurro netto del ricordo, arruffa le penne ai gabbiani, scarnifica gli scogli, raccoglie i pezzi di un’infanzia liscia come una vela bianca tesa oltre l’orlo di Dio.

Sai cos’è che ci accomuna? Il profilo dei monti lontani affilati come denti di lupo.

Questo passaggio improvviso dalla pagina in versi a quella in prosa si configura come uno iato formale e dialettico, un voler sparigliare un ordine, mostrando la propria refrattarietà a qualsiasi imposizione di compattezza, obbedendo solo al proprio imperativo di affidarsi alla percezione. Impossibile qui non ricordare William Blake con la sua celebre frase: “Quando le porte della percezione sono spalancate, le cose appaiono come veramente sono: infinite”. Luca Benassi crea dunque un suo originale linguaggio dell’interiorità con cui riesce ad accendere l’immaginario e a fissare il dolore del tempo e lo fa con questo registro mobile verticale-orizzontale che traduce al meglio sia la dimensione sacrale che l’urto con la pura percezione e quello con la realtà. E questa sezione, centrale nel libro, rappresenta una rottura ma insieme anche un ponte concettuale tra la prima e l’ultima parte della raccolta.

In particolare la prima parte della sezione, Linea di luce, tutta giocata sulle suggestioni provocate da una foto d’arte di Valeria Floris, è “poesia in prosa” di grande freschezza espressiva, pura percezione versata in una scrittura febbrile di immagini, incandescente, quasi onirica, ma colma di senso. Brani visionari che hanno note di barocco, nel senso positivo di vitalità materica del barocco, dove si accampano e dominano immagini di luce sesso fuoco corpo brace acqua, mistero di donna fatta d’anima e insieme erma bifronte.

Colpiscono le iterazioni lessicali del crepitare e delle varianti espressive della luce o freccia di luce e infine, quella chiusa memorabile, con la preghiera che sia finalmente solo la fisicità, quella dei corpi al pari di quella dell’arte, entrambe capaci di governare la luce, e non qualunque logos, qualunque razionale parola, a darci l’ultimo senso.

Nella seconda parte Il Pozzo il guado si avvicina, si giunge al pozzo-tempio e in questa dimensione senza tempo emergono profili di donne che si muovono e parlano come sibille, nel fecondo linguaggio degli archetipi femminili: il pozzo-ventre, il dolore, l’offerta, il piacere, il pianto di bambino. Si rivolgono ad un uomo che ammutolisce, in preda a stupore. Ma ancora un altro sapiente scarto poetico sbalza improvvisamente il lettore in una dimensione di realtà che si consuma sull’asfalto, uno scontro mortale. Ancora un lutto, ancora il vento che soffia sulla sepoltura, ancora un ossimorico accavallarsi di metafore sulla finitudine e sul ciclo vitale perenne che si rinnova nel rito della sorgente: E già una donna si spoglia / per scendere nel pozzo. Ancora la Madre, la terra-corpo con la sua simbologia cosmica e teogonica. La forza unitaria di questo Guado nella neve promana da una visione di naturalità che si fonde con l’angoscia interiore e con il malessere di una società in declino. Benassi scava il suo percorso poetico laddove pullula un’acqua che continua a parlare di limpidezza, al termine di un viaggio carsico attraverso l’oscurità dell’errore, cercando di ricomporre, o almeno di indicare una direzione di ricomposizione. Appaiono assimilate le parole del poeta slavo Danilo Kis che definiva il poeta colui che di fronte al caos del mondo tende a rinsaldarne l’unità originaria.

Nella terza sezione Su logu su contu, di soli tre testi, Benassi ritorna alla poesia in versi raggiungendo il punto più alto dell’accensione lirica, quella capacità di spaesamento capace di trascinare il lettore in un territorio altro-alto. Nel primo testo si descrive un momento di pura contemplazione, quasi una trance per invasione del sacro. Lanusei blues è un umanissimo cantico d’amore, che ricorda quello biblico, pieno, vivo, di una carnalità che veste i simboli sacri – spirali – lunule – denti di lupo – della Grande Madre. E dove, nella chiusa, ritorna quel soffio di thanatos che sempre è in agguato sull’eros facendo balenare la sua ultima parola, in quegli uomini appostati in piazza come sacchi bucati di tristezza.

Vietato abbandonarla è il testo-consegna, con il suo monito etico di un uomo consapevole agli altri uomini. La poesia, che si apre con una scena di connubio dove terra-case-mare-luna sono fuse in una dimensione cosmica, mostra la sposa-madre che cammina a fianco del poeta come figura profondamente sacrale, pur straniera rispetto al paesaggio. E questa dimensione di sospensione è rotta a un tratto da un grido che emerge potente e necessario, questa volta direttamente dalla sfera razionale, sebbene messo sulle labbra del figlio come un sussurro: vietato abbandonarla. Un verso-gesto di grande valore etico oltre che estetico, che riguarda il femminile e riscatta in pieno il maschile.

Il tema dell’ultima sezione, Matteo Boe, che sembrerebbe di chiusura, in realtà si prepara e sembra pulsare in molte delle pagine precedenti. È qui una posizione dell’autore, di riflessione-denuncia del fenomeno del banditismo (oggi si spera ormai estinto), che testimonia un confronto – raro – della poesia con la storia, senza cedere alla retorica del grido civile: Per giudicare un taglio / bisogna conoscere le cicatrici della terra / l’albero mozzato, il grano estirpato / -il campo rappreso nel recinto di pietra /il destino del servo, la moneta di latte / della montagna, il pane di ghiande.

La tragedia è percepita come deriva dell’abbandono sociale, ma senza alcuna giustificazione di colpe e crudeltà inammissibili. È l’ultimo atto intenso di questa poesia che si fa scena del mondo, capace di trasmettere una sorta di autobiografia del bandito di Lula come fosse scritta di suo pugno (sappiamo dall’autore di una fiammeggiante corrispondenza intercorsa tra lui e Boe), da cui emerge una specie di pietas, una simpatia – nel senso etimologico di sun-pathos, un soffrire insieme – che accoglie il pentimento, quasi in una sospensione di giudizio. È una scrittura accorata, tra disperazione per una vita vista come destino senza varchi di salvezza e assunzione di ogni responsabilità personale, ma anche richiamo alla responsabilità collettiva di una società che trascura e abbandona, permettendo la crescita dell’humus da cui nasce l’errore. Come ancora oggi si vede accadere nel mondo, per violenze e stragi lasciate irresponsabilmente incubare nel tempo, senza prevenire, senza vigilare .

Resta dunque l’intensa indicazione di valore universale che Luca Benassi lancia in questo suo guado di poesia: una visione di grande spessore intuitivo ed etico tra passato e presente, tra simbolico e reale, tra scuri destini e chiari possibili orizzonti per uomini responsabili. Una ricerca poetica rigorosa, autonoma, di sicuro non epigonica, che indica un paradigma per la nuova poesia dei prossimi anni.

aprile 2013

Annamaria Ferramosca vive e lavora a Roma. Collabora con testi e note critiche a varie riviste, anche on line. E’ nella redazione di clepsydraedizioni.com, che seleziona in anonimo e promuove in e-book nuova poesia italiana. E’ cultrice di Lett.ra Italiana presso l’Università Roma Tre. Ha pubblicato in poesia il vol. antologico Other Signs, Other Circles, Chelsea Editions, N.Y., per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, 2009. Sue precedenti raccolte: Curve di livello, Marsilio, 2006; Paso Doble, Empiria, 2006; Porte/Doors, Ed.ni del Leone, 2002; Il versante Vero, Fermenti, 1999.

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