Vicolo Cieco n.33: 007 licenza di scrivere

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Non accontentarsi più dell’essere parlati, dell’essere scritti; al tu letterario che avanza si chiede di essere guardati, scrutati, sorvegliati.

Il luogo stesso della scrittura, essendo di per sé un luogo creaturale, si pone già come spazio abitato, come sede di ipostatizzazioni, perchè la creatura letteraria è sempre condannata o assolta dal divenire fisica, carnale, fosse pure carne smidollata.

Troppo, tutto si è detto dell’altro, ma poco, molto poco si è scritto in merito al delatore, a proposito di questo tu dei “servizi” che come un doppiogiochista prezzolato osserva e riferisce, così come se tornassimo indietro a frate mitra e a tutti gli infiltrati.

L’infiltrato si propone come noi, diventa come noi, ma di noi ci svende una parte, sacrifica la narrazione ai suoi occhi. La leggerezza di molta scrittura contemporanea sta nel credere che far parlare la spia e ascoltare il testimone sia qualcosa che si equivalga, ma è un errore imperdonabile e non soltanto per i fraintendimenti che genera.

Il tu osservatore al quale si chiederebbe solo di riferire lo strazio, non serve in realtà ad altro che far rientrare dalla finestra l’io che è uscito dalla porta. Curioso che non basti poeticamente la trasparenza per estirpare l’autoreferenza, quest’io che se è un altro non è mica interessante.

E allora eccola affiorare questa spia che ci amava, talmente tanto che però ci deve assomigliare, assumere i caratteri dell’infallibilità bondiana, esperto di tutto senza nessuna piega allo smoking, saccente e presuntuoso come solo certa poesia sa fare: il mio nome è Bond, James Bond.

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