Alessandro Ricci: ‘Le segnalazioni mediante i fuochi’ – nota di Fulvio Basteris

di Fulvio Basteris

le segnalazioni mediante i fuochi alessandro ricciGaressio è notoriamente il paese del vento. Certi giorni il marìn spruzza in faccia folate umidicce di salsedine, e corre nella piccola piana garessina, scavalca il Tanaro, allarga i suoi tentacoli bianchicci. Così lo introduce di sbieco in una sua poesia Alessandro Ricci, un garessino che vive e lavora a Roma: «Lo scivolo del vento / intera valle / sulle cime». Ma c’è un altro vento che scorre nei suoi versi di straordinario nitore, quasi alessandrini per sicurezza formale, per folgorazione di immagine e per asciuttezza di parole. Ed è il vento di una disperazione che pare quieta, ma è proprio come quell’aria marina che scende dai monti natali, fresca e noiosa insieme, testarda e insicura, salata e dolce come un miele in cui invischiarsi.

Il titolo della raccolta, pubblicata da Piovan editore, è lo stesso di una delle poesie più significative. «Le segnalazioni mediante i fuochi: L’accese la prima, fu pronta / la seconda sull’altra / torre, e poi la terza / e la quarta così / via, di torcia / in torcia e di vedetta / in vedetta fino all’ultimo / uomo / che non rispose».

La lirica ricorda l’atmosfera iniziale di una famosa tragedia di Eschilo (la poesia di Ricci ha echi classicheggianti, ma non come sfarzo di citazione, come rimando colto, piuttosto come ricerca di equilibrio, di esattezza,

quasi che a infliggerle negli spilli delle parole le emozioni, i dolori, le perplessità, le rare gioie, i momenti della memoria si bloccassero come gli insetti di una raccolta), ma chi è che lancia segnalazioni? E chi dovrebbe raccoglierle? Quelle torce e quelle vedette di quale enigmatico messaggio si fanno portatrici?

In molte poesie di Ricci cova una sorta di epicità rivisitata, e lo ricordano certi titoli, certi passaggi, certe similitudini. Ma non è più tempo di risposte assolute e totali sulla vita. Noi viviamo (e forse ci stiamo anche meglio) nell’inquietudine e nell’incertezza.

«Il dolore paga tre monete: / una di ferro, ed è il vuoto; / una d’argento, ed è la memoria, / atroce e cortese, della semplicità; / una d’oro, ed è il pensiero / della morte, bianco come Venere / al mattino, come il clamore / mancante che subissa / in una marina che / non si sa».

E ancora: «La nostalgia è una nave /di cui s’è perso il comando, / e poi è affondata.// Portandosi nel buio la linea / dello scafo, il valore / del carico, il libro / di bordo e le poesie / sul mare». E di nuovo: «Il cardo cresce nel vento aperto / che spazzola quest’altezza. / Sono qui / nuovamente, dove la nuvola. / L’erba va riscaldando, e secca è la terra / che la nutre. Un cumulo accecante martella / l’azzurro, esplode in volumi. Acque scivolano».

Ma ci sono anche poesie più distese, rievocazioni di luoghi e di miti, antichi e rinnovati. E c’è un nonno che appare e scompare fra le righe, dèmone ispiratore o da esorcizzare, un nonno avventuroso (e avventuriero) su cui modellarsi e poi averne paura. E c’è infine quell’altra paura che più spesso tocca le corde dei poeti, la paura della morte. Dice Teodoreto il Tessalico in una delle liriche più intense: «Ricorda pure la tua muta d’Assiria /e da’ a Cìpride le sue sembianze. // Ma non temere se per declino e morte / non le rivedi. Incidi il desiderio, / sopportane la perdita o il fuoco. In / questo è l’ultima e prima forza / degli uomini che periscono». Ma forse non dei veri poeti.

Provincia Granda”, venerdì 18 Settembre 1987

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