Alessandro Ricci: ‘Le segnalazioni mediante i fuochi’ – nota di Sandra Petrignani

di Sandra Petrignani

le segnalazioni mediante i fuochi alessandro ricciProiettati verso il futuro, ammutoliti di fronte alle macchine onnipotenti, pungolati alla corsa e all’accelerazione, raggelati dalla luce fredda del computer, i moderni con nostalgie di interezza, che non abdicano al cospetto dei propri fantasmi e non si lasciano abbindolare da chimere futuribili, si voltano e guardano indietro. Loro scienza è l’archeologia. In fondo la più moderna delle scienze, forse la sola necessaria a chi tenta di sapere qualcosa di sé. Il futuro non può rispondere perché non esiste e, chi vuole dissipare le tenebre a venire, non ha che da scrutare il passato fidando nella circolarità del tempo. Archeologia è scavo, e scavo può essere affondamento, perdita. «Fra la tecnica e il rito, / sull’esile frontiera / che divide presente / e passato l’esserci e /il venir meno, lei / da me, mi sono perso»: sono versi tratti da Le segnalazioni mediante i fuochi (Piovan, 1985) in cui il «werther leggero»  (così egli stesso si definisce in un altro verso) Alessandro Ricci compie un suo viaggio «archeologico» ricco di incontri e di esiti.

Solidamente questa poesia indica a ritroso la sua strada: Eliot, passando per fierezze trecentesche,  per arrivare alle origini, Omero. La solidità d’un universo riconoscibile è tanto più necessaria quanto più le «segnalazioni» sono incerte, fioche, elusive. Morti e sconfitte riverberano attraverso i secoli, le stesse di sempre. Sorge il dubbio che a segnalare ci siano solo fantasmi. «… Forse anche pensavo / nella luce odorosa in / cui è avvolta l’infanzia, / che una musica, un frullo, un /  pulviscolo nella stanza sempre / m’avrebbero guarito dalla / morte, quella stata / dei vecchi, la probabile dei / grandi, l’impossibile / mia. / E invece».

E invece la morte è l’unica certezza, anche la propria. Meglio prevenirla mediante il suicidio che restare in «vedetta, a quest’approdo / vano dove non so / che aspetto, / dal faro dominante, altissimo / del desiderio, che per / gioventù t’incanta / nel fuoco». La vita è un abbaglio e un inganno, teatro di vani eroismi e di amori in cui vibra la disperata consapevolezza della separazione e del fallimento. Costellata di echi letterari, la poesia di Ricci se ne alimenta come garanzia d’autorità nel dire qualcosa sul presente. L’«arcaicità» diventa possibilità di un discorso «morale»,  ma senza presunzioni «esemplari». Il fuoco, tante volte citato in questi versi, più che ardere, minaccia continuamente di estinguersi.

Arsenale”, Numero Tre-Quattro, Luglio-Dicembre 1985

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