Caterina Davinio: “Aspettando la fine del mondo” – una nota di Narda Fattori

di Narda Fattori

cop_Davinio_Aspettando_la_fine_del_mondo_prima di cop-LRLa poesia “civile” in questi ultimi anni ha trovato voci intense, poeticamente mature, per farsi parte non secondaria del panorama letterario. Figlia di grandi padri spesso era caduta nel cronachismo, nell’invettiva, nel sarcasmo, talora nel semplice dileggio. Vero è, tuttavia, che la poesia, soprattutto dal secondo novecento, si è emancipata dalla visione ombelicale dell’autore, per aprirsi al mondo, alle esperienze,  alla notazione di costume, alla descrizione di un’umanità ferita, dolente, marginale. I poeti, molti e spesso di gran pregio, hanno spalancato le finestre al mondo riconoscendosi essi stessi figli e complici loro malgrado della realtà non più annidata in una piega della loro sensibilità, ma globale e asservita a meccanismi di potere impietosi o essi stessi marginalizzati.

La poesia, musa inascoltata, ha saputo trovare in sé e nella sua storia la capacità di emanciparsi da ogni forma di sudditanza (e non per nulla pressoché tutti i poeti si pagano le loro opere, fenomeno che, se da una parte regola ad un’ulteriore marginalità la poesia, dall’altra gode della più ampia libertà del dire).

Caterina Davinio, alla terza opera di poesia, centra il bersaglio: se la fine del mondo è prossima, come vorrebbe un’antica leggenda Maia (per altro già smentita come fine, cioè distruzione), è giunto il tempo del redde rationem, della contabilità finale, dell’inventario. Chissà se questo è il motivo della traduzione a fronte in inglese delle poesie; l’inglese è la lingua più ampiamente diffusa e quindi allarga e coinvolge  quanti la conoscono. E’ come dire: “questa poesia ci riguarda tutti”.

Il libro è diviso in poemi, visioni esperite immagino attraverso viaggi, così troviamo l’Africa e altro, Sciamani (Goa, regione dell’India).

È il quarto mondo che abbiamo violato noi occidentali e derubato e quindi sollecitato a autodistruggersi in guerre fratricide che imperversano là dove è iniziata la nostra storia umana. L’Africa è un territorio mitico che ha una sua vita febbrile, notturna, invisibile ma udibile, e una diurna , di forza, di bellezza, di coraggio. La prima poesia è la visione di un’originaria donna che aspetta il ritorno del compagno e tutto intorno a  lei vibra “inspiegato” e l’uomo che torna è “piagato a sangue.” Il panorama originario dura con bellissime visioni e con forti sensazioni d’animale ancora perché è un uomo giovane. Ma la guerra è in lui.

Ecco come l’evoluzione ci ha trasformato l’animo:

“La realtà non è che polvere
e fatica;
me, vecchio arnese fra le ombre,
me scalpitante capra nel deserto,
me ultimo degli ultimi,
sfibrato nell’immenso.”

L’uomo non ha un suo posto per stare, va e nei suoi spostamenti è “reduce e messo al bando.”

Questo sentirsi sempre fuori tempo e fuori luogo fa l’uomo inquieto e prepotente: afferra, azzanna, uccide perché spera che il territorio dell’altro metta fine alla sua inquietudine, alla sua dannazione.

Ma lì, in Africa dove il sole è adorato, esso ti acceca e ferisce la  ragione che si avventa su una piuma con la spada.

Nelle radure dove si accostano le capanne per diventare villaggio, si penserebbe di trovare la pace, i tuoni di guerra hanno spazzato tutto lasciano “spazio abbandonato”.

L’amaro pervade la visione che vorrebbe farsi buona profezia; da questa amarezza provengono i versi: “Dimmi, dio,/ dimmi,/ ho orecchie per sentire/ cosa rumina l’ombra,/ e la disperazione dell’uomo/ corrotto  e infuriato”. Sono versi affermativi, non sono una domanda e dio non c’è e se c’è è occupato da altro. Questo primo poema (così come lo definisce la poetessa) di 20 poesie, rapsodiche e quasi primitive negli accostamenti lessicali come fossero medicine di stregone o ricordi visionari di antichi progenitori, si chiude con versi che vorrebbero essere propiziatori e invece si fanno lamento gridato dei vinti che però hanno nella visione l’incanto, la potenza, la forza, la bellezza.

“Sapere forse / e non arretrare di un passo. / / Come un proiettile nell’orizzonte nero.” Sono versi collocati all’inizio del secondo poema che riguarda l’India e, precisamente, la zona di Goa. Qui non c’è guerra, non c’è la visione dolente degli ultimi; c’è tuttavia lo stesso mistero, la stessa bellezza, la violenza che abita negli uomini e nelle cose.

In questo secondo poema l’io identitario del poeta è più riconoscibile: si comprende che parla di esperienze vissute, esplicita idee e inganni, sogni smarriti nel solco degli anni e la coriacità del suo linguaggio traduce la coriacità della sua visione del mondo.

Ma forse perché l’io viene esploso, come qualcosa che esce suo malgrado, così di frequente, leggiamo anche di tenerezza e di rimpianti, di come non si comprenda come si sia diventati così inetti.

Anche la presenza / assenza della divinità viene illuminata, ma nessuna luce ne esce e la poetessa può affermare con sicurezza di essere non credente: “Canto la mia non-fede/ la non-poesia/ fatta di cose dure/…”.

Anche in questo mondo di mare e di spiagge le rovine umane avanzano e deturpano ogni forma di bellezza.

Le poesie del secondo poema sono più disilluse e meno ieratiche; qui non si può tornare a pensare all’infanzia dell’uomo; qui l’uomo è già adulto e degradato.
Pur senza chiamare in causa persone e nazioni, la Davinio ci pone davanti al fallimento totale della creaturalità umana, alle sue miserie, alle sue colpe.
È un volume di poesie di denuncia che ci riguarda tutti e non fa sconti a nessuno come non ne fa a se stessa.
Per questo ci fa riflettere e provare vergogna. Il suo dettato non perdona, non stride, anzi, soprattutto nella seconda parte è lucido, ben servito.
Un’opera che lascia semi come segnali e non solo sulla pagina.

*

Tambureggiare, laggiù, l’energia fluttuò
come i nostri passi furiosi nell’erba,
le vie nella foresta
che cattura padroni e schiavi,
e guardai il babbuino negli occhi,
e accarezzai il bambino,
e feci elemosine codarde,
mi strappai gli occhi
per non vedere,
m’inginocchiai
all’alba
e sospesi l’intenzione,
fui grato
e desiderai ancora,
come un vigliacco
ti derubai.

*

Camminavamo nelle alte erbe della landa
come dei
arrabbiati,
inconsapevoli,
districando i ginocchi
e gettando lontano gli occhi
melanconici
e solenni,
come dio quando sussurra
preghiere all’orecchio
e segna il cammino.
Noi siamo i dannati,
disperati
corridori
delle distese.

*

La nostra furia come preghiera,
come silenzio;
m’inginocchiai,
milite sbaragliato
lacero di fronte al tramonto e
alle sue striature di luce,
al giallo e all’arancio
che straziano di bellezza
l’aria
e le albe,
la linfa tremula che raccoglievo nelle vene come un tossicomane,
gocce di piacere velenoso,
di anestesia e concupiscenza;
spegnimi,
dissi,
non ha senso questo chiarore,
l’alba infinita che illumina la morte,
la rabbia che ho seminato,
la guerra di noi uomini macchiati di morte.

*

C’era un tempo
forse,
ma non ricordo,
era quando l’amore
diceva cose benevole
che non ricordo.
E ridono e rimordono, ritornano
alcune e non tutte
e mi rammarico di quelle perse e mi rallegro della fonte inesauribile,
perché dio ci amò, donandoci
una fonte
dove la sete e il desiderio
premono sull’infinito
e spegniamo l’ardore,
resuscitiamo la fiducia,
e coniughiamo malintesi, le sviste, l’errore,
l’impreciso,
la pentita sequenza.

*

E batte il cuore
con cupo ritmo ossessionato
batte come il nucleo della terra
vomita lava dai vulcani
come brulica senza sosta il termitaio
come il vento ci assale con la polvere
come il tuo abbraccio gagliardo intorno alla vita
come le ciglia lunghe
come il pugno dell’assassino
e gli auspici mistici del santo
come una pia scrofa nella porcilaia allatta i piccoli
e l’erba si piega a giugno
come i sogni dirompono
nell’allucinazione
il cuore batte come i passi
risuonano sui sentieri terrosi
ed erbosi
come il bosco mi spaventa laggiù
prima della sera
batte come i pianeti rotolano per innumerevoli orbite
come esplodono soli e vorticano vie delle galassie
che sembrano aria e luce
e sono terra e pietre
esplosioni e detriti
gas asfissianti e dilaniate meteore,
come ci ammalano infinibili cose minime
cellule nemiche
batteri ostinati senza volto.
Batte il cuore
come il leopardo annusa il vento
come un’illusione di verità forse
mi ferisce
taglia l’eccitazione del sapere
<sapere forse>
e non arretrare di un passo.
Come un proiettile nell’orizzonte nero.

*

Ho pudore della parola levigata,
quindi la nascondo
buttando note ruvide
e senza lima come la Pietà Rondanini,
ancora grezza di materia
sulle righe di cristallo
come l’anima che scintilla negli occhi.
Perché dio è morto,
la poesia è morta
e forse
anch’io sono morta
come deve morire un poeta
senza liturgie,
ecco:
canto la mia non-fede,
la non-poesia
fatta di cose dure
come il giorno che abbraccia
gambe deboli
di una notte estrema
densa di asprezze,
molle d’intemperanza
e senza onore,
immemore
e iniettata di oblio.

*

Alba a Goa

Per te non ho parole,
mi tende all’infinito,
la troppa precisione m’incrina
il desiderio;
un caffè dopo la notte
senza soste
tremante di euforie,
di corpi belli,
di futuro dissipato,
di passato dimenticato,
di presente in fuga,
di risata impalpabile,
eppure divoratrice di attimi.
Come sabbia e vento ancora troppo freschi
nell’alba che mi assale e sorprende,
che allarga cerchi di luce nel cielo mite e sinistro,
sull’onda ancora cupa,
sui riflessi equatoriali che fanno
molle la volontà,
corruttibile il senso,
eppure tremo,
tremo di un male e inferno infiniti
come la notte che ancora avanza sue striature nell’alba,
come la morte s’inoltra nelle pieghe
per graffiare via i frammenti,
nel sangue,
che giunge pazzo a destinazione,
rosso come le pietre rosse
che fanno brillare
gli occhi;
soliloquio tra me e l’alba:
un passo e l’altro e tutta l’immensità dinanzi,
non riempibile,
non misurabile,
non rieducabile,
eppure così finita.
Cammino nel nulla, e sono raggiante e vivo.

*

Aspetto la fine del mondo

L’alba salì dal buio
come il moto inesausto
del mare arrabbiatosulla sponda
voi dormivate sulle ceneri della festa
il fuoco languì e si spense
il delirio notturno
fu sconvolgente
ricordo
il grigio dopo la notte
venne dal nulla
ci raggelò con il suo argento
e i venti leggiadri
come lievi fantasmi
ficcai i piedi nudi nella
sabbia fresca
stremai passi lungo la spiaggia
avvolta nel lume irreale
attesi fremendo nell’ora
del lupo, delle accozzaglie silenziose
di spettri lacerati
ombre nude
di dormienti
di strazi immaginati
di carboni languenti
il freddo invase l’estate dei tropici
ci massacrò con la sua carezza
umida
gli stenti della notte
ci tremarono nelle gambe
e fummo come la notte che svaniva
come l’aura del sole
come il mattino che sereno invase l’orizzonte
col suo boato ancestrale
con le ferme speranze
di noi perduti chierici vaganti nella Suburra
santi della taverna
maledetti e infuocati
di sole mattutino.

 

 

Poesie tratte da: Caterina Davinio, Aspettando la fine del mondo, con testo inglese a fronte, traduzione inglese di Caterina Davinio e David W. Seaman, postfazione di Erminia Passannanti e nota critica di David W. Seaman, Fermenti, Roma 2012.

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