Lo stile è giudizio, lo stile è pensiero 8 – Quello che si può dire in poesia (Parte VIII)

 

Si potrebbe dire che la persistenza della poesia simbolista, nata nella seconda metà dell’Ottocento  ma poi protrattasi per tutto il Novecento in varie forme e per successivi aggiornamenti, debba addebitarsi (secondo l’indicazione di Foucault) ad una sorta di rimozione che la rivoluzione scientifica seicentesca e, in generale, lo spirito cartesiano avrebbero prodotto sullo spirito europeo. Il rimosso sarebbe tornato a galla grazie alla poesia simbolista che, in una sorta di felice delirio, avrebbe dato voce a ciò che era stato cancellato dal rigore geometrico di una ragione troppo spesso piegata a finalità tecnologiche o utilitaristiche. Ma detto questo, il simbolismo finisce con l’essere in un certo senso complice proprio di quella realtà da cui vorrebbe emanciparsi con il suo anarchismo verbale…  Al contrario, si potrebbe dire, la poesia allegorica non ha rifiutato la ragione come punto di riferimento, intendendo, si badi bene, per ragione un complesso di differenti modelli di ragione. Esiste infatti un modello di ragione che permette una visione poetica del mondo che sia al tempo stesso conoscitiva. Si tratta di quell’approccio che la tradizione critica da Benjamin a Luperini ha definito allegorico e che individua nel frammento, nel  lacerto, nello scorcio, l’allegoria, appunto, di realtà più vaste. Questo tipo di poesia pur essendo aderente alla realtà degli oggetti e delle cose comuni e collettive riesce a far presente a chi ascolta contesti molto più vasti. Ecco perché i Fiori del male di Baudelaire, ad esempio, mostrano nel loro impianto allegorico qualcosa di commensurabile e di comune a tradizioni anche molto lontane, perfino regionali. E’ così che si possono chiamare in causa anche poeti dialettali come Vincenzo Russo e Salvatore di Giacomo che, in ambito regionale, riproducevano l’opposizione tra allegorismo e simbolismo, sempre sul finire dell’ottocento e all’inizio del nuovo secolo. Questa tradizione allegorica, che inventa sempre nuove forme di realismo, la ritroviamo neLa ragazza Carla di Pagliarani che si muove tra cose estremamente concrete… Eppure queste cose estremamente concrete alludono ad un intero universo, quello capitalista degli anni ’60, universo in cui si sperimentavano forme nuove di alienazione, mai vissute prima in Italia, prima del boom economico. E tutto questo viene significato a partire da riferimenti estremamente precisi. Si potrebbe fare lo stesso discorso per le immagini e per le situazioni descritte da Giancarlo Majorino o Luigi Di Ruscio. Questo tipo di realismo, maturato alla metà degli anno ’50 ed esploso negli anni ’60, era riuscito, seguendo una strada alternativa al simbolismo  (e all’ermetismo, suo sostanziale aggiornamento), a individuare i punti nevralgici della contemporaneità.

Biagio Cepollaro
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