Critica della critica. Note per una prassi della trasparenza

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Intro

Uno dei compiti più importanti di una critica militante (ma anche della critica tout-court) dovrebbe essere quello di discernere (lo stesso etimo della parola rimanda a ciò), ovvero separare il buono dal meno buono, capire il valore di un’opera o smascherarne l’assenza di valore: comparando, argomentando, senza lodare o affossare a caso. Tenendo il più possibile a bada il “fattore viscere”, anche se a volte è quello che fa leggere e scrivere. Ma la critica non può fare a meno di un filtro, della consapevolezza di una distanza. Altrimenti è altro: è lettura empatica, damigella e accompagnatrice dell’opera letteraria.

La critica deve costruire insomma – e qui mi aspetto una levata di scudi – un’idea di canone (descrittivo, non prescrittivo: verificabile sui testi di cui si parla), a sua volta sostenuta da un’estetica chiara e definita, anche se inevitabilmente in mutamento: non l’unica possibile, certo, ma che permetta ai lettori di orientarsi, di capire quali sono gli autori sui quali un critico punta e perché. Il lettore ha tutto il diritto di aspettarsi questo da un critico.

Dovrebbe, ho detto prima, non è: perché oggi quasi tutta la critica sul contemporaneo (dalle rubriche sui giornali ai blog letterari) sembra assai più impegnata o a capire e contestualizzare l’opera, o a pubblicizzarla, cioè spesso a promuoverla acriticamente o con agili contraffazioni. Manca il discrimine, manca questa domanda insostituibile da porre a chi fa critica: Perché il libro X sì e il libro Y no? E manca anche la domanda: Come devo prendere/contestualizzare queste tue affermazioni sul libro X?

Allora, nel mio piccolo, proprio perché il concetto di  discernere rimanda a quello di chiarezza (e quindi trasparenza), voglio dare alcune coordinate a chi dovesse leggere dei miei interventi critici sugli autori contemporanei: per spingerlo a porsi in posizione critica anche di fronte alla mia stessa critica, per aiutarlo a capire cosa sta a monte della scelta di scrivere su alcuni autori piuttosto che su altri, e contestualizzare la sua fiducia/sfiducia in quello che sto dicendo in un dato momento.

Faccio questo perché spero che anche molti altri che scrivono critica possano are altrettanto, per innescare, spero non troppo idealisticamente, una pratica che permetta almeno la trasparenza. È come se io, consultando la guida Michelin e chiedendomi perché un ristorante sia valutato tanto bene, sapessi l’intento di chi ne scrive una recensione (offrire un parere competente e spassionato, o fare pubblicità all’amico ristoratore?) e i suoi parametri di riferimento. Ecco, da lettore vorrei che la critica possa essere anche questo: leggere un esperto e potermi fidarmi di lui almeno fin quando non avrò provato quel ristorante, o letto quell’opera.

Elenco quindi tre ampi criteri di valutazione (del lettore nei confronti del critico). Non sono nulla più che comune buonsenso, un qualcosa che la maggior parte degli altri ambiti disprezza meno rispetto alla critica, nostrana e non. Per questo è necessario rimarcarli.

  1. Motivi, scopi e modi di un intervento critico
  2. Sapere qual è il background culturale del critico
  3. La percentuale di libri rifiutati o di cui si ha opinione negativa

I – Motivi, scopi e modi di un intervento critico

Veniamo al primo punto. Io, come critico, scrivo 6 tipi diversi di interventi. Li elenco qui sotto, descrivendone per ciascuno i motivi, gli scopi e i modi.

  1. Articolo accademico: lungo 6000-10000 parole, è un intervento approfondito che troverà pubblicazione in giornali accademici. Qui evito il giudizio, mi limito a una descrizione e interpretazione di testi e/o luoghi critici, punto al massimo su un linguaggio tecnico e preciso, alla sistematicità una volta scelta una prospettiva di studio (quali domande porre ai testi, quali risposte ottenere), mi appoggio su studi precedenti. Nulla che chi abbia scritto una tesi non sappia già, ma ribadirlo non fa mai male. La effettuo su autori già canonizzati e studiati, allo scopo di accrescere la conoscenza generale in un ambito specifico. Non è arroganza, è l’ABC della ricerca accademica. Appena mi sarà possibile (non prima di un anno/ un anno e mezzo, purtroppo), renderò leggibili anche su internet questi interventi (ne ho scritti due in tutto, al momento). Intanto, per farvi un’idea, vi rimando all’anteprima di un articolo dell’insuperato Michael Riffaterre.
  2. Recensione: tutte le recensioni sono leggibili qui, nella sezione “Critica” di questo sito. Nel mio caso, sono scritti di lunghezza assai variabile (tra le 600 e le 2000 parole, ma ne ho in cantiere una su “Nuovi Poeti Italiani 6” che raggiungerà le 4000). L’intento, qui, è critico nel senso (per me) più nobile del termine: si tratta, da un lato, di capire i temi e lo stile di un’opera, e dall’altro di offrirne una valutazione che sia il più possibile bilanciata, tra potenzialità individuate e risultati, siano essi eccellenti, buoni o modesti. La scelta dei libri da recensire è in parte dovuta al caso: posso conoscere personalmente un autore, o questo può inviarmi il suo libro perché ha sentito parlare di me; o, ancora, io sono venuto a conoscenza di un’opera e decido di leggerla e recensirla. Ne segue che una recensione non è, automaticamente, garanzia di validità di un’opera; lo è però parzialmente, nel senso che evito di recensire libri che non mi convincono proprio (tranne quando sono di autori acclamati che vengono meno alla fiducia in loro riposta). Quindi una mia recensione, diciamo, indica in genere che il libro riceverebbe almeno 2 stelle su 5 nella corrispondente guida Michelin. Al recensire ho già dedicato un intervento, e altri probabilmente ne scriverò. C’è bisogno di più riflessione sull’atto stesso del fare critica.
  3. Nota critica: in genere sono interventi che si focalizzano su una manciata di testi (le varie “note critiche” scritte per Il Giardino dei Poeti sono di questo tipo), e cercano di introdurli ai lettori. Hanno una lunghezza compresa tra le 300 e le 1300 parole. Qui l’intento è più descrittivo e divulgativo, la valutazione mai esplicita, perché l’intento è, appunto, diverso in natura da quello del recensore: presentare un’opera e recensirla sono due cose in parte diverse (o meglio: recensirla implica il giudizio, per me, cosa che la presentazione preferibilmente esclude). In altri termini: è come se qui assumessi il ruolo della guida turistica, mentre nelle recensioni quello del viaggiatore che ti consiglia se andare o no in un posto. Anche qui, l’indicazione del giudizio è obliqua: se scrivo una nota di lettura significa che credo che i testi abbiano un loro valore/un loro perché – ma non per questo sono necessariamente quelli su cui punterei. Anche qui, il motivo è solitamente quello della “commissione”: mi viene chiesto di presentare dei testi e, se mi convincono abbastanza, ne scrivo.
  4. Poem Shot: una nuova rubrica settimanale in cui scelgo un testo poetico in cui, da lettore, credo, e ne faccio un’analisi che cerca di essere agile e fondata sul testo al tempo stesso. L’intento è di traghettare l’interesse sullo specifico del linguaggio letterario, sui testi più che sugli autori: prova ne sia che scrivo tanto di autori canonizzati e importanti, quanto di perfetti sconosciuti – a patto che questi ultimi, ai miei occhi, abbiano valore. L’insieme dei testi analizzati costituisce un piccolo “canone privato”, un insieme prototipico di testi che mi hanno indicato, o mi stanno indicando, una direzione percorribile e auspicabile. Insieme ai pur diversissimi articolo accademico (categoria 1) e commento spassionato (categoria 6) è l’area dove esercito più liberamente e con più spregiudicatezza la critica.
  5. Nota di lettura privata: è una nota che invio privatamente agli autori che mi chiedono un parere sulla loro scrittura. È una sorta di mini-recensione, meno strutturata (si avvicina al testo di una email lunga) dove cerco di descrivere sia i tratti positivi sia quelli negativi di un’opera (solitamente una manciata di testi: non più di 100 versi). Se di un’opera ho un giudizio interamente negativo (ma non è ancora successo), anticipo la cosa all’autore: se vuole, gliene spiego i motivi; altrimenti, se contesta a priori, che si rivolga a qualcun altro. In generale, però, devo dire che tutti gli autori con cui sono entrato a contatto in questo modo – non molti, per la verità, se si escludono amici di lunga data – sono stati sempre ineccepibili, segno di una reale volontà di ascolto.
  6. Commento spassionato: qui smetto i panni – le responsabilità di cui mi auto-investo – del critico. Qui sono un lettore che si esprime da lettore, senza timore di esibire la propria parzialità, in negativo quanto in positivo. Sono scritti correnti, formulati in pochi minuti, sull’onda dell’emozione ma mai senza riferimenti concreti al testo. Un esempio recente è l’aspro commento scritto su Facebook intorno a una poesia di Claudio Damiani. Riporto la poesia  insieme al mio commento qui sotto.

Cara Luna, da quando abbiamo posato il piede
su di te sei diventata ancora più misteriosa e lontana
e noi ti amiamo ancor più,
noi che oggi sappiamo
che un giorno tornerà la vita su di te
(perché ho scritto “tornerà”?),
che sarai un giorno ricoperta di verde
e saremo noi umani a fare questo,
noi accusati ora di inquinare, di avvelenare la terra
noi salveremo la terra e salveremo la luna,
con quanta nostalgia
ripenseremo allora a quando eri senza vita,
a quando eri bianca e povera, e a come eri bella,
a quando ancora non ti avevamo colonizzato
e ti guardavamo solo da lontano.

(Claudio Damiani, da Il fico della fortezza (Fazi, 2012). Su www.poesia.corriere.it, 2 novembre 2012)

Letta la poesia di Damiani riportata su CorriereBlog: il livello di naiveté esibito mi sembra sfacciato, ai limiti del volgare e del ruffiano, rivolto verso un lettore digiuno di poesia. La piattezza semantica e la banalità linguistica della poesia mi sembrano evidenti: se non avessi saputo l’autore, avrei pensato fosse scritta da un adolescente alle prime armi, con una buona intuizione soltanto negli ultimi tre versi. Se poi la luna è immagine d’altro, anche così il testo sarebbe banale: perché l’accostamento luna = innocenza = spoglia povertà non è nuovo, né reso in forma nuova. Non faccio un’apologia della modernità a tutti i costi, solo dico che non è possibile fare tabula rasa di quanto è venuto prima: qui non si riprende né l’antinovecentismo (perché lì almeno la forma chiara metteva in risalto un contenuto complesso o rilevante, “nuovo” nel senso di “presentato sotto una nuova luce”), né ovviamente il modernismo (avversatissimo, anzi), né l’ironica piattezza di alcune scritture sperimentali contemporanee (meno che mai, questo!). Certo, anche di Picasso si disse che disegnò come un bambino, alla fine della carriera: ma almeno dimostrò, da giovanissimo, qualità tecniche eccelse. Io potrei perdonare (forse, ma neanche) la maschera di ingenuità se prima mi si provasse che chi se ne è servito è stato capace di complessità stilistica e di pensiero, di orizzonte ampio. Ovviamente, il mio non è un giudizio su Damiani: ma su quella specifica poesia di Damiani che ho letto (smettiamo di confondere opera e autore così: scrivere negativamente di un autore vuol dire saperne criticare almeno il 60% delle opere, avendone lette almeno l’80%).

 

Ovviamente, non pretendo di avere ragione, e capisco che questo commento potrebbe offendere l’autore o il lettore a cui piace; ma mi sembra comunque assai distante da quel “scribacchino mestierante” con cui, sempre su facebook, Vincenzo Ostuni apostrofò Gianrico Carofiglio.

II – Background del critico

Vengo adesso al secondo punto. Quando esprimiamo un giudizio, o anche solo un’impressione, non lo facciamo partendo da un vuoto, non lo facciamo come se esistessero solo il nostro occhio e il testo o l’opera in questione.  Lo facciamo avendo in mente un orizzonte d’attesa (per dirla con Jauss, esponente della critica della ricezione), a sua volta modellato dalle nostre letture precedenti, dalla nostra – consapevole o meno – adesione a una estetica piuttosto che a un’altra.

È un peccato che chi fa critica non palesi sempre questo background, queste motivate o irrazionali (o entrambe) scelte di campo. Certo, col passare del tempo capiamo le reali intenzioni del critico, e quale tipo di poesia promuove: ma come fare quando leggiamo un pezzo breve, isolato (una recensione, un articolo, perfino un saggio) di un critico mai letto prima?

Sempre nell’ordine della trasparenza invocato nella parte precedente di questo intervento, ritengo che chi fa critica debba esplicitarlo – renderlo reperibile – da qualche parte, in modo che si possa contestualizzare meglio la sua ammirazione o indifferenza per una certa opera. Quindi: cosa ho letto? Troppo da essere elencato in questa sede, ma sto lavorando a una lista completa in formato Excel che spero di mettere al più presto online. Intanto però, provo a delineare la “mia” estetica, che può includere nel suo apprezzamento testi assai diversi, ma senz’altro ne esclude di altrettanto diversi.

  1. Sono per un tipo di poesia “problematizzata”, non pacificata: che mostri il suo interrogarsi, che non rinunci per forza all’io nel confronto con la realtà (I “padri” sono: certo Montale, certo Sereni, certo Fortini, certo De Angelis: autori diversi tra loro, ma tutti ascrivibili al modernismo – nessuno all’antinovecentismo alla Saba e Penna, che apprezzo di meno). Tale mi sembra anche la poetica, pure assai impersonale, di Marco Giovenale.
  2. Credo comunque nella centralità del Logos e del discorso (incrinata e problematizzata quanto si vuole), contro le facili amnesie panteistiche, liricizzanti o i nichilismi postmoderni e de-costruttivisti che vogliono negare l’idea stessa di discorso, di principio ordinante.
  3. Apprezzo una varietà timbrica e di pronuncia (variazioni metriche, costruzioni sintattiche marcate, modalità visibile nell’uso di affermazioni, domande o frasi dubitative…) perché rispecchia con più fedeltà (fedeltà: aspirazione modernista messa alla berlina da certo postmodernismo) gli stati diversi in cui ci troviamo nella nostra quotidianità. Non dovremmo limitarci a un solo timbro, anche se possiamo averne uno dominante. Non possiamo augurarci di “non avere corpo” quando scriviamo: sarebbe tradire la nostra realtà fisiologica e psicologica – per questo mi sembra che l’insistere sullo svuotamento operato dall’informatica e dalla caduta delle ideologie sia una via obliqua verso un nuovo tipo di misticismo.

Mi rendo conto che questi contenitori sono ampi e danno al massimo alcune direttive. Specificarle in assenza di testo è impossibile: per questo ho cominciato, con la rubrica Poem Shot, a offrire un campionario di letture di testi specifici, per far capire quali sono i tipi di poesie su cui punto (e, come in negativo o in filigrana, quali quelle su cui non punto). Per completare il discorso, alcuni accenni sulle tradizione critiche/filosofiche in cui mi riconosco, ora ma verosimilmente anche in futuro:

  1. Fenomenologia e materialismo. Non deve stupire che il formalismo (la critica stilistica, per esempio) non debba essere in opposizione a quella contestuale (storicizzante), in quando si tratta pur sempre di fenomeni individuabili (anche se passibili di diverse costruzioni interpretative).

  2. Scissione tra descrizione e interpretazione. Il binomio “formalismo e materialismo” lo risolverei così: da un lato, descrizione dei fenomeni minimamente guidata dal soggetto (per es. Mengaldo, Riffaterre, Testa); dall’altro, massiccia contestualizzazione socio-culturale e perfino militanza nella costruzione delle proprie interpretazioni (Fortini). Il secondo campo (ermeneutico-interpretativo-militante) è per me più difficile perché le mie risorse qui sono più limitate, e mi ci avventuro con maggiore cautela, per il momento.

  3. Sono contro il “non ci sono fatti, solo interpretazioni” di Stanley Fish: questa postura giustificherebbe tutto e il contrario di tutto, e farebbe ricadere nell’indifferenziazione del nichilismo e del qualunquismo (simili, nelle rispettive vulgate), facendo cadere anche il momento dialettico tra oggetto e soggetto (soggetto e oggetto esistono nella prassi conoscitiva, è solo la loro realtà ontologica – che a me non interessa – che viene messa in discussione). Che una poesia abbia un tema piuttosto che un altro è un fatto (il tema è veicolato dal lessico, e al limite dalle convenzioni allegoriche: se una poesia tematizza i “cani” non posso forzarla a parlare di qualunque altra cosa, ma al limite può parlare di tutto quanto è associabile direttamente al centro tematico).

  4. Contro la non verificabilità. Non mi interessa il postulare intenzioni autoriali, entrare nell’agone dell’interpretazione giusta vs. quella sbagliata. Tutto questo è dibattito, e ne abbiamo già a sufficienza. Difendo lo studio più umile dell’evidenza testuale ed extratestuale.

  5. Contro l’uso della metafora nella scrittura critica, a meno che la metafora non serva come sunto di una descrizione analitica precedentemente effettuata e che permetta di riassumerla intuitivamente. La tradizione di poeti-critici (vedi Raboni!) ci ha abituato a un linguaggio esteso, metaforico, godibile ed efficace, con paralleli tra poesia e arti varie; ma questo linguaggio è sempre a rischio di esprimere più la soggettività del critico che il movimento della dialettica opera-lettore. Meglio prendere in prestito i termini assestati in linguistica e nella retorica, e specificare sempre l’accezione del termine che si sta usando. Alla lingua usata nella critica vorrei dedicare un intervento a sé stante.

III – Percentuale dei libri rifiutati o di cui si ha opinione negativa

Qualsiasi giudizio o valutazione, per essere credibile, deve essere immesso in una rete di altri giudizi o valutazioni: il suo contenuto semantico (per esempio: “quella di X è una poesia dalle buone potenzialità e qualche risultato convincente”) va integrato da un’interpretazione contestuale da parte del lettore (per esempio: «ma questo “è una poesia dalle buone potenzialità e qualche risultato convincente” l’hai usato per quasi tutti gli autori di cui ti sei occupato! Quindi tutti hanno pari merito?»).

Come contestualizzare un’affermazione? Comparando. Comparando, cioè, quell’affermazione con 1) le altre precedenti del critico, 2) quelle di altri critici sullo stesso libro o autore e 3) con il passaggio riportato, sottoposto a critica (questo non sempre è possibile, ma è sempre auspicabile). Il critico aiuterebbe il lettore se tenesse una sorta di “registro” sempre consultabile dei libri di cui ha avuto opinione molto positiva, positiva, negativa o nel mezzo. Penso a un file Excel, sempre aggiornabile, in cui figuri l’intero bacino di autori considerati: il lettore volenteroso capirà da sé di quali il critico ha parlato (e come) e di quali no. Va da sé che avere tutti i propri interventi indicizzati e consultabili (come sto cercando di fare con i miei) è un aiuto non da poco. Provocherà, questa prassi, incidenti “diplomatici” tra autori, case editrici e critici? È assai probabile. Ma se la critica non rischia questo minimo coraggio di esporsi, si può ancora chiamare critica? Non credo, e se molti interventi fatti passare per “critica” cambiassero nome – ad es. giornalismo, costume, marketing, letture – ne guadagneremmo tutti (tranne, forse, chi scrive senza aver mai tentato di auto-valutarsi).

Non ho ancora un tale registro: mi impegno però a redigerne uno, consultabile, che dia queste informazioni considerando le richieste accettate/rifiutate da oggi in poi (domenica 9 dicembre 2012). L’ideale sarebbe non tacere mai i nomi, ma a volte questo è difficile o impossibile – ragioni di marketing, accuse di provvedimenti legali, delicate gestioni interpersonali da parte di terzi e quant’altro sono restrizioni sulle quali servirebbe più chiarezza, e anche generale buonsenso da tutte le parti.

Intanto però, cerco di richiamare alla memoria i miei (pochissimi) personali rifiuti. Eccoli:

–          2 poeti rifiutati per una nota critica
–          1 raccolta poetica rifiutata per una recensione
–          1 raccolta poetica che mi sono rifiutato di prefare
–          1 raccolta di racconti rifiutata per una recensione

Questi – concordo, pochissimi – casi riflettono il fatto che la mia prassi finora è stata quella di accettare materiale che mi convinceva anche solo in parte, e di criticarlo poi nella recensione o articolo effettivo. Adesso sto passando a una sempre maggiore selettività, che mi riusciva più difficile, per varie ragioni, anche solo un anno fa.

Il rifiuto di recensire libri che mi erano stati recapitati con l’espressa richiesta di farlo (stante un mio ingenuo benestare iniziale, dovuto all’impossibilità di farmene un’impressione accurata da pochi stralci, o anche da nessuno stralcio di testo) è solitamente accettato: spesso con grande comprensione e spirito di ascolto da parte degli autori; con qualche più comprensibile fastidio da parte delle case editrici. In un caso estremo – un libro di racconti – la reazione degli autori è stata invece assai aggressiva. Ovviamente, non posso giustificare l’aggressività e quel senso di lesa maestà quando – dall’altra parte, la mia – c’è comunque un tentativo di razionalizzazione, di spiegazione; ma questo è comune buonsenso, ed è sintomatico che io vi abbia insistito così tanto nel corso di tutto questo mio intervento.

Davide Castiglione

Nottingham (UK), ottobre-dicembre 2012

(già sul blog Davide Castiglione)

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10 Comments

  • caro Luino,
    criticare (nel senso di fare critica) è fare, è crescere e imparare dagli errori e le virtù degli altri. Non credo alla vulgata, per me patetica, del critico come poeta fallito. La situazione che tu descrivi io la vedo opposta: tutti vogliono ‘fare’ (leggi: scrivere poesia) ma pochi osano criticare i loro stessi risultati, figuriamoci perdere tempo con quelli degli altri. Fare critica vuol dire dedicare tempo agli altri, perché si pensa che sia un tempo speso bene.

    Coi miei limiti, come tanti (troppi?) altri, scrivo anche poesie: quindi so bene la scollatura tra il valutare la poesia e il farla.

  • chissà come mai nessuno vuol fare il critico sessuale ma tutti voglion fare sesso..
    in poesia invece troppi vogliono criticare, sarà che non sanno fare?

  • Ringrazio molto sia Daniele lo Vetere (che ho modo, spesso, di leggere in acuti commenti su LPLC) sia Rosa Salvia per i commenti spesi. Insieme ad altri ricevuti, in privato o altrove, mi fanno capire che in qualche modo, con tutte le debolezze e acerbità del caso, ho sollevato una questione che interessa e che invece non è quasi mai portata allo scoperto. Spero di continuare, e che questa riflessione diventi collettiva.

    Cerco di rispondere a entrambi (meglio: ripartire da loro):

    @ Lo Vetere: assolutamente d’accordo con lei sulla funzione “de-assolutizzante” che una trasparenza (così abbozzata) dell’atto critico comporta, così come sulla funzione conoscitiva che comporta (rendersi conto che anche le analisi più formalizzanti, per esempio, possono essere spiegate dal contesto in cui vengono prodotte e ricevute). Sul “liberal democratico” della trasparenza: non nego che un qualche parallelo tra letterario e politico, in linea molto teorica, possa essere tracciato; detto questo, semmai la somiglianza è a posteriori, non era cioè tra i principali impulsi a monte del testo.

    Quanto all’uso metaforico del linguaggio: ho toccato in effetti un punto delicato, avrei dovuto svilupparlo meglio (ma lo farò, come premesso). Io avevo in mente, soprattutto, l’uso debordante di metafore ornamentali che fanno il verso – sembra – all’opera che dovrebbero introdurre o commentare. E poi anche la confusione terminologica tra varie discipline: ad esempio, in certa critica la parola “sintassi” ha un uso esteso(sinonimo, più o meno di articolazione), ma a me, fedele alla linguistica testuale, questo uso confonde: sintassi per me è una branca della linguistica e l’organizzazione dei costituenti linguistici in sintagmi ed enunciati. Leggerò Carlo Bo, che ho colpevolmente trascurato (ma non sono un italianista, a parziale discolpa…)

    Su poesie come quelle di Damiani: purtroppo – anche qui – i criteri con cui le case editrici selezionano i propri autori non sono chiari; poi nemmeno io stroncherei Damiani (ha ragione Rosa, e del resto io l’ho anticipato che la mia critica è al testo singolo), però se fossi stato un editore avrei cercato di dissuaderlo dall’includere quel testo. Ma molti altri esempi si possono fare. Il problema è che alcuni nomi già assestati (e magari anche per meriti propri) non vengono più messi alla prova, c’è troppo rispetto per l’auctoritas, sia questa conquistata sul campo, sia in modi meno ‘legittimi’. Io certe cose a Montale (Montale, mica l’ultimo arrivato) non gliele avrei fatte pubblicare. E’ una questione di rispetto del lettore e una pratica di ‘auto-economia’ tanto più pressante nell’overload di oggi. Poi, purtroppo o per fortuna, neanche io sono tanto addentro ai meccanismi editoriali, ma immagino siano pieni di compromessi, alcuni necessari alla sopravvivenza degli editori stessi, altri forse evitabili.

    @ Rosa Salvia: le ho già in parte risposto sopra: la mia intenzione è sempre quella di valutare un testo, e la valutazione dell’autore non è possibile senza averne letto più di un libro. D’accordissimo con lei: non ho stroncato Damiani, ma una sua poesia (e quindi, tutte le poesie simili a quella sua che possiamo aver letto altrove. Sulle recensioni “spietate”: io sono d’accordo che vengano rivolte soprattutto a chi è in vista, ma non per una malsana invidia o altro: ma perché è lecito, da chi è stato, magari a ragione, incensato, pretendere il massimo. Per il poeta o la poeta, innanzitutto. Se tanti grandi (De Angelis è tra questi) hanno iniziato a scrivere al di sotto dei loro standard, penso che una buona dose di colpa – indiretta, certo – sia stata negli adulatori, nei critici consenzienti comunque. Nessun autore dovrebbe mai sentirsi tranquillo. Questo vale anche per gli esordienti; ma, appunto, essendo in fase di formazione, la stroncatura sarebbe da evitare; e poi ci sono esordienti o poeti inediti che non hanno nulla da invidiare a quelli famosi, se il testo è (come credo debba essere) il criterio principale sul quale valutare un poeta: Carlo Bellinvia, di cui ho scritto sul mio sito per la rubrica Poem Shot, ne è un esempio.

    Davide

  • Sono sostanzialmente d’accordo con quanto scrive Davide, analisi illuminante per molti aspetti. E’ giustissimo che la critica valuti con “la necessaria distanza”, peraltro la stessa poesia non deve nascere solo da un afflato emotivo, magari ricca di termini ridondanti, ma povera di contenuti. In entrambi i casi ci troveremmo di fronte o a quel che io chiamo “recensioni amiche” e quindi di parte o a poesie che arrivano a un pubblico più ampio, ma qualitativamente scadenti. Quanto al problema delle stroncature di alcuni poeti, entriamo in un campo minato. Certo la poesia di Damiani sopracitata non è fra le sue più belle, è una poesia ragazzina per citare Davide Rondoni. Ma, avendo io seguito da anni l’iter poetico di Damiani, ritengo che per dare una serena ed equilibrata valutazione della sua poesia, occorrerebbe conoscere a fondo tutta la sua opera. Lo stesso discorso vale per altri autori, quali Milo De Angelis e Antonella Anedda ad es. Vi assicuro, senza far nomi, che da molti De Angelis ( che io apprezzo, tengo a precisarlo) è considerato addirittura un autore scadente, come so che l’ultimo libro dell’ Anedda “Salva con nome” ha subito grandi stroncature. Non ho letto “Salva con nome”, ma l’Anedda è una poetessa che a me ha sempre dato tanto. Perciò, proprio in nome della distanza e della trasparenza, sarei più cauta nel fare qualsiasi tipo di valutazione. Qualsiasi autore, essendo in primis un essere umano, non può esprimersi sempre al massimo grado. E poi mi domando: come mai certi autori più noti, più affermati, ad un certo punto vengono stroncati così spietatamente?

  • Gentile Castiglione, ho letto con molto interesse il suo intervento. Direi che l’aspirazione a una trasparenza dei presupposti sulla base dei quali si fa critica sia assolutamente condivisibile. Io credo non tanto per ragioni di onestà intellettuale, di trasparenza di tipo liberal-democratico traslata nel campo letterario, quanto perché amplia i nostri orizzonti di comprensione: conoscere da quale punto di vista un’affermazione è fatta, la deassolutizza e quindi la arricchisce di nuove relazioni, di contesti e sfondi. Diversamente si divena apodittici o, se si occupa una posizione riconosciuta, si finisce per parlare ex cathedra.

    Molto utile la sua casistica di generi della critica, grazie.

    Solo su di un punto mi trovo in disaccordo: sulla limitazione che lei pone all’uso del linguaggio metaforico. Io trovo che esso non sia necessariamente soggettivistico. Voglio dire che una metafora critica ben assestata può rivelarmi qualità essenziali dello scrittore o poeta. Certo, anche io porrei un limite alla metaforicità: lo scopo non può mai essere quello di sfuggire dall’oggetto, ma di tentare di accerchiarlo e di carpirne pezzi di segreto. E credo che la via curva della metafora, la sua non referenzialità o denotatività, in letteratura aiuti molto di più che non la descrizione oggettiva (che può essere utile al massimo ad un primo livello di reperimento dei costituenti essenziali stilistici, retorici, …). Non disdegno le letture critiche più oggettive (anche io, fra quelli da lei nominati amo Mengaldo, ma in fin dei conti la grandezza trascende ogni metodo, e lui usa la stilistica con straordinaria forza), ma, ecco, per me restano in secondo piano rispetto ad altre.
    Ho in mente un critico che non sento nominare più da nessuno, Carlo Bo. Il suo capitolo sulla poesia della prima metà del Novecento nella Letteratura Garzanti è stata una della più acute e straordinarie letture critiche che abbia mai fatto: rende ciascun poeta nella sua interezza, mescolando analisi dei versi e studio della “personalità poetica”. L’effetto che ha prodotto in me è stato quello di arricchire enormemente la mia successiva esperienza di lettura di ciascuno di quei poeti. Ciò perché Bo non si è frapposto con le sue metafore fra me e il poeta, ma è stato in grado di fornirmi, con la sua grandezza, un viatico e accessus ad auctores impagabili. Certo, per far ciò bisogna però essere Carlo Bo!

    Infine una domanda a lei che è addentro più di me ai meccanismi editoriali: come è possibile che una poesia come quella da lei qui sopra stroncata sia arrivata alla pubblicazione? Anche io ho subito pensato ad un adolescente che scrivesse versi. Mi dia dell’ingenuo, ma mi aspetterei, quando prendo in mano un poeta che abbia avuto l’onore della pubblicazione, di leggere almeno poesia ad un livello minimo di decenza. Poi so che anche molti di quelli pubblicati non mi piaceranno, o perché sopravvalutati o perché non piacciono a me e preferisco altro, pur riconoscendone la qualità. Si rischia di disamorarsi della ricerca di voci poetiche contemporanee, se il tempo che possiamo dedicarvi, sempre più ridotto e insidiato da mille altri impegni, viene sprecato anche a dover prendere visione di poesia di quart’ordine.

    Saluti

  • Pingback: critica te ipsum: la trasparenza secondo Davide Castiglione « Roberto R. Corsi
  • Rispondo anch’io con gli auguri! a te Davide e a Leopoldo Attolico. Auguri che estendo a tutta Poesia2.0

    Grazie Davide per il post, giusto incidere e grattare via per portare alla trasparenza-

  • Carissimi Margherita e Leopoldo,
    non sapete quanto piacere mi facciano questi vostri commenti. Sono convinto che si possa incidere anche minimamente nel ‘ripulire’ la pratica della critica, facendo un servizio anzitutto alla poesia, e agli autori che sono veramente tali.

    Tanti auguri di Buon Natale a entrambi.
    Davide

  • La dichiarazione / declinazione di intenti – così esaurientemente argomentata da Davide – credo trovi tutti d’accordo . Certo , gli uffici stampa delle “grandi” case editrici potrebbero storcere il naso : – Ecco un altro eslege che si ispira a quel tal Linguaglossa …speriamo che resti un caso isolato …
    Credo che l’onestà intellettuale – tout court – ispiri la massima solidarietà in questi tempi beceri di mistificazioni , di ridicole ( patetiche ) canonizzazioni ecc. , ( significativa l’esemplificazione proposta con la chiosa al testo di Damiani , trasposizione al maschile delle lallazioni della Lamarque ).
    Davide è giovane ma ha le idee chiare e gli strumenti del mestiere . E’ facile concedergli non generica empatia ma – ripeto – convinta solidarietà .

    Naturalmente con Auguri di Buon Natale –

  • Sorrido, Davide, è una specie di rendicontazione, di questi tempi quasi disarmante, tanto è rara

    Cmq
    da lettore, sottoscrivo pienamente:
    “La critica deve costruire insomma – […]– un’idea di canone (descrittivo, non prescrittivo: verificabile sui testi di cui si parla)”, compresa la necessità di una messa in chiaro degli strumenti critici utilizzati e del contesto e dei contesti usati per comparare, nonché una certa avversione per il relativismo de “non ci sono fatti, solo interpretazioni”.

    Un caro saluto

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