Le porte bronzee della basilica S:Zeno di Verona e le ‘sperimentazioni’ in ‘volgare’ di fra’Giacomino da Verona (Sec.XII-XIII)

 

di Giancarlo Buzzi

Forse potrà farlo lo stesso autore, attrezzatissimo per un lavoro del genere, forse lo faranno altri critici linguisticamente provveduti. Inventa lengua di Gio Ferri (Marsilio), libretto eccellente e per molti versi esemplare, più che chiedere esige un esame non superficiale – analisi storica, lessicale: grammaticale, sintattica a evidenziazione e delucidazione delle componenti di quello che Ferri stesso, mettendoci con ciò sull’avviso, definisce ibrido linguistico. Ferri ci propone – senza equivoci e scientemente – un testo non in veronese, ma in gioferrese…. L’esame di cui sopra dovrebbe anche, è ovvio, individuare le precipue ragioni della scelta di Ferri di esprimersi, appunto, in questa ‘lengua‘ inventata, e cercare di capire se il gioferrese è strumento di validità ristretta al trattamento della materia del libro di cui mi occupo (le formelle bronzee del portale di San Zeno in Verona), oppure se è ipotizzabile un suo impiego da parte dell’autore per altri suoi exploits poetici.Insomma, si intravede o vede, e conviene auspicare, per il gioferrese un futuro extrazenico ed extraformellico?

Sarebbe anche, l’esame, ottimo pretesto per alcune considerazioni sull’uso che i contemporanei hanno fatto e fanno del dialetto in poesia. Hélas, ne sono state fatte tante che il pensiero di aggiungerne può suscitare insofferenza. Ma è inutile rinculare: il problema è aperto, anche perché troppo spesso è stato atteggiato e risolto in termini sentimentali e populistici da studiosi e scrittori anche ferrati, fra i quali qualche mostro o mostruccio, qualche divo o divuccio della letteratura (quanto ci ha funestato, per esempio, la dialettologia e dialettofilia di quell’ogni tanto intelligente saggista e polemista, sempre pessimo poeta e cattivo romanziere che è stato Pasoiini).

Non posso qui se non abbozzarc alcuni fra gli elementi che un discorso su Inventa lengua potrebbe contenere. In parte li ho già suggeriti in un mio saggio su Noventa di un paio d’anni fa, apparso sulla rivista “Kamen”, e li ripropongo timidamente (la timidezza non è finta, perché il tema richiede, per essere convenientemente svolto, uno strumentario specialistico che non posseggo – d’altronde, per dirla con Petrolini, “non ci tengo e non ci tesi mai”, il mio lavoro linguistico essendo inventivo e creativo, non riflessivo, storico, critico: quello, in concreto, che hanno connotato i miei romanzi Isabella delle acque e L’impazienza di Rigo, e connoterà i miei lavori avvenire, se ce ne saranno, se mi basteranno cioè le forze e il tempo, e se la bellissima commare secca, che sino a questo momento ha mostrato nei miei confronti fin troppa indulgenza o distrazione, tarderà abbastanza ad alzare il suo rampino).

Fonte antica e letteraria (sarebbe riconoscibile anche se non denunciata), e dunque componente del gioferrese è il dialetto dei testi paradisiaci e infernali di Giacomino da Verona, che con le formelle di San Zeno hanno senz’altro qualche parentela, situandosi non proprio nella stessa ma in non molto diversa temperie culturale. Altre componenti letterarie sono ipotizzabili ma non altrettanto evidenti. Un’altra è un parlato frutto di contaminazione di parlati riferibili a tempi, luoghi, àmbiti socioculturali diversi (anni, aree extraurbane, città, contrade, quartieri, segmenti di popolazione, ecc.). Un’altra ancora è la koiné lingua.

Gli appunti che seguono vogliono essere primariamente un riconoscimento della non corrività di Ferri nei confronti della sentimentaleggiante e populisteggiante dialettofilia. Ferri cioè usa il composito e moderatamente ancora usato dialetto della sua terra d’origine come ingrediente del gioferrese, per quel tanto che il dialetto può ancora dare e rappresentare: come documento e testimonianza di storia, aiuto pertanto – all’intellezione di un fatto artistico; come magazzino non cimiteriale di significati e significanti, e, quel che più conta – di rapporti fra significanti e significati. Non vedo in Ferri ricorso (che in questo caso riuscirebbe necessariamente sofisticato) al dialetto in chiave cardiaca, coloristica, o di nostalgia valoriale. Ferri mi sembra consapevole (posso fallare, e se fallo mi rendo disponibile a essere da lui severamente reprimandato e in ultima istanza righellato sulle dita, ovvero fatto oggetto di uno di quei castighi fisici sulla cui inutilità nutro dubbi sempre più fieri) che il dinamismo, anche e soprattutto semantico, la varianza illimitata appartiene alla koiné lingua. Da lunga pezza appartiene e da lunga pezza il fatto è stranoto: i mezzi di comunicazione gli hanno dato da qualche decennio a questa parte macroevidenza. La macchina dialetto è ferma, i suoi meccanismi si sono arrugginiti e usurati, e per rimetterla in moto non basta lubrificarla e fare compiere al motore qualche giro, occorrono operazioni molto più impegnative, e meccanici e conduttori espertissimi.

La koiné lingua ha meccanismi perfettamente funzionali ed esercitatissimi, duttilità e adattabilità a tutti i bisogni, bacino di utenza articolatissimo e vastissimo, capacità di figliare sottolingue e gerghi, di crescere lessicalmente grammaticalmente sintatticamente semanticamente. È lo strumento della scuola e di tutti i comunicatori (artisti compresi). Ha ormai alle sue spalle una lunga storia e dispone di un grosso patrimonio a cui attingere. In breve, la sua forza è tale da rendere ai dialetti la vita molto difficile. La genericità di questa affermazione non le toglie validità. Le possibilità di resistenza dei dialetti e di loro convivenza attiva (creativa) con la koiné lingua variano in virtù di fattori storici, politici, culturali, ambientali in senso lato, ecc., il cui solo elenco (peraltro ovvio) riempirebbe mezza pagina, sicché me lo risparmio, certo di procacciarmi con ciò un po’di gratitudine dello sventurato fruitore di questo articoluccio. Grazie ai fattori di cui sopra alcuni dialetti di aree siciliane, sarde, venete – per fare qualche esempio – resistono di più, conservano una certa vitalità (pure essendo sotto il profilo dell’espressività e del dinamismo anch’essi soverchiati dalla koiné lingua), altri sono ridotti all’equivalente di cimeli archeologici, altri allo stato di materiali utili per effettuare, appunto, operazioni di invenzione linguistica contaminatoria o ibridizzante. E va bene così. Vogliamo stupidamente recriminare sugli aspetti negativi della omologazione e normativizzazione del linguaggio, che sottende e implica anche omologazione dei valori, smarrimento o indebolimento delle radici culturali e delle identità, e querimonie di questo genere? Conviene dirci che i giochi devono svolgersi ormai nell’àmbito della koiné lingua, strumento ricco nei fatti e ricchissimo in potenza, flessibile e docile, disponibile per qualsiasi tipo di operazione: devono, ribadisco, anche nel senso dello scambio e del reciproco locupletamento della koiné lingua e dei dialetti.

Ciò significa, per stare all’oggetto che più ci preme, che poesie in dialetto si continueranno a scrivere e che i dialetti offriranno anzi possibilità sempre maggiori di scriverne nella misura in cui si saprà farne uso saggio (all’insegna appunto della contaminazione e ibridazione, e dello scambio semantico e generalmente retorico, non del recupero e della riproposizione di valori). Solo semplicismo e rozzezza possono indurre a parlare di morte dei dialetti o di morte delle lingue (non sono affatto morti anche se sono fermi e in qualche caso cimelizzati, per esempio, i dialetti lombardi). Dialetti e lingue sono realtà storiche, e come tali non possono defungere: basterebbe ad assicurare la loro non soprawivenza ma vita – ma c’è molto di più – la loro valenza, affinchè in un impiego poetico, conoscenziale (desiderio di e tensione alla conoscenza, inevitabilmente azzardosa parziale precaria ambigua, del passato). Le poesie latine di Pascoli sono in questo senso così magistrali che ci si vergogna persino di tirarle in ballo (lo fanno tutti, anche quelli che di Pascoli capiscono poco o lo sottovalutano o dimenticano quanto gli devono).

Non si può più scrivere in dialetto come Porta, Belli, Ruzante, Baffo, Maggi. Costoro scrivevano in loro lingue ancora largamente parlate, articolatissime e dinamiche, suscettibili di arricchimento non a opera di soli letterati. Non si può neanche come Marin, che scriveva in una lingua certamente sua ma agontzzante e già in non piccola misura vetrificata. Il ‘dialettale’ Noventa ha scritto alcune bellissime poesie, ma non in dialetto veneto, in un ibrido giacomcazorzese (si chiamava Giacomo Ca’ Zorzi), teorizzando e ideologizzando la sua operazione in termini insostenibili e non di rado urtanti, persino repellenti (basti pensare alla sua nozione del dialetto come strumento di mediazione fra aristocrazia e popolo, e come lingua dei “picoli”), male associabili alla sua incontestabile, acutissima intelligenza.

Non sto tentando di combattere l’uso in poesia del dialetto. Nemmeno di giustificarlo: non ce n’è davvero bisogno: piuttosto, lo auspico sempre più ampio e positivamente provocatorio. Riconosco questa positiva provocatorietà nel libro di Ferri. E un libro che mi rallegra, benzina sul fuoco della mia intolleranza per l’impiego nostalgico-sentimentale-populistico del dialetto. Da poeti dialettali e da critici siamo stati afflitti nell’ultimo rnezzo secolo (ancora purtroppo lo siamo, e si direbbe impossibile) con una attribuzione al dialetto di un significato, di un valore e di un ruolo assurdi. Nella sostanza: concretezza, autenticità, organicità, compattezza e ricchezza valoriali opposte alla inautenticità, vaghezza, povertà di valori della koiné lingua. Dialetto come lingua materna, con le relative implicazioni di rassicurante o consolante rialbergamento nelle acque amniotiche, ritrovamento di radici. Abbondanza di amenità di questo genere, spesso aggravate dalla esaltazione del dialetto come strumento espressivo di una rimpianta civiltà di robusti e latamente condivisi valori, la civiltà contadina. Civiltà complessivamente atroce (non meno delle cosiddette industriale e postindustriale, e di quella di cui siamo confacitori, utenti, profittatori e vittime che ancora attende una denominazione), i cui valori erano del resto quelli elaborati dalle élites dominanti, aristocratiche e borghesi, con scarsi apporti e rielaborazioni popolari diversi nei diversi contesti (pur sempre elitari, perché anche il popolo – continuiamo a usare questo termine vago e semplificatorio per designare una estremamente complessa realtà umana e sociale – ha le sue élites, conservatrici reazionarie progressiste rivoluzionarie).

Certo, oggi l’edificio valoriale è franoso e bisognoso di ricostruzione. Quando i valori sono in crisi, quando la semanticità delle parole che li rappresentano ed esprimono si ottenebra, il dialetto, già soverchiato dalla koiné lingua a cui si volgono gli scriventi e i parlanti per una infinità di motivi tra cui l’energia omologatoria dei mezzi di comunicazione, e i desideri di appartenenza e di promozione sociale, diventa un congegno del tutto inadeguato. Se si sforza di esprimere i valori in crisi, lo fa imprecisamente, in chiave per lo più nostalgica o estetizzante, o con confuse velleità restaurative. Non serve nemmeno a ritrovare la matrice uterina. Il dialetto ha perso espressività, semanticità. Nemmeno la koiné lingua nelle sue moltiplicantisi versioni settoriali e persino gergali può esprimere soddisfacentemente valori in crisi, può solo balbettarne ipotesi e approssimazioni. Sarà essa però a esprimere con soddisfacente convenzionalità i valori all’insegna dei quali la società vivrà quando saranno stati rielaborati, riorganati, ricompattati, riresi riconoscibili.

A mio parere il testo di Ferri è – ripeto – documento di un uso altro e nuovo del dialetto rispetto a quello fastidioso, dolciastro, inconsistente, sterile – oltre che ideologicamente insostenibile – che ho cercato di sintetizzare. Non mi sento di sottoscrivere senza riserve ciò che leggo nella premessa del libro di Ferri: “Il progetto segnico di questa raccolta vuole far rinascere hic et nunc la lingua viva e sempre nuova percorrendo i territori dell’arte e della poesia in una comunione di espressività che si realizzi tout court nel segno (prima che nel discorso di ‘parola’ o nel racconto figurativo-scultoreo)”. O forse non condivido la maniera di definire il progetto, so non sbaglio a interpretarlo come istanza (o dimostrazione della possibilità) di vicendevole sollecitazione, o meglio provocazione da parte della poesia e della scultura a una polisemanticità segnica, e quindi a una intensificazione – nel senso di pluralità teoricamente infinita di modi – della frequentazione della soglia abissale, di cammino conoscenziale posto come connotato primario dell’arte e come sua irrinunciabile funzione (nella non speranza di portarla a compimento). Mi è più facile accettare appieno quanto Ferri dice qualche riga sotto il brano citato: analogie con il carme figurato, negazione di ogni intenzione illustrativa e descrittiva, richiamo delle tesi da Ferri stesso altrove seducentemente esposte (a mio parere da assumere come stimoli e segnalazioni di una delle dimensioni da tenere presenti dell’arte, più che come riduzione della medesima entro una gabbia teorica assolutistica e radicalizzante) sulla poesia come cosa ovvero campo di energia. Nozione comunque vitalistica della poesia, quale si denuncia nella chiusa del libro, “La raƒon de inventa lengua”‘… “[…] che la parola istesa de la poeƒìa, / fore d’onne busineso / l’è’ na cosa che gema / sempre nóva, /  mai descoverta prima / ogni ‘vunque volta che chi / de bòna fantaƒìa la diƒe / e bòn segno su la carta la scrive”. E ancora: “Or ora a sercar prinsìpio n’invita / prinsìpio de poeƒia e de vita”.

Il gioferrese trae sul filo della tensione conoscenziale la forte matericità dello scultore zeniano a un’altra – che di volta in volta si pone come precisazione, amplificazione, concentrazione – matericità terrestre e cielare. Così il dialetto aiuta la lingua e le giova. A momenti è esso che si giova della lingua che vi si intrude e infonde, senza confondervisi – per consentirsi astrazioni con funzione segnaletica di percorsi mentali presenti come possibilità nella materia, che così si rafforza e cresce. I due elementi sono riconoscibili, ancorché non disgiungibili, e il lettore non faticherà a individuarli. Si veda ad esempio “Fóra da l’Eden”, componimento legato a una formella del battente di sinistra rappresentante la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. La poesia giustamente esplicita, spingendosi coraggiosamente fino all’aneddotica e alla sentenziosità moralistica che crolla infine in una notazione desacralizzante, lo svelto narrato della scultura, crudele nei confronti dei due tapini nostri progenitori, smarriti, impacciati e vagamente velleitosi di spiegazioni giustificazioni proteste, ma somme toute docili e non poco buffi nel nuovo, innaturale reggimento di foglione di fico, spinti da un angelo sbilenco e largalato in inattaccabile impenetrabile incorrompibile pacatezza di determinazione, esecutore del tipo gabellotto o campiere della volontà altissimale, campione d’osseryanza di ipse dixit padronale: “Via i va spenƒui nudi e crudi / – frumenti mauri e alberi del pan / gran sieli tersi aque profumi aspersi  /  par finida speransa e deletansa… // Amen. L’ombrìa sovrasta jorno non basta. /  Adeso i suda la pagnota cruda / e par tanti fiói i g’ha solo faƒìoi – / la tera la trema el só anatema //  tanto par che la vida sia biastema / – epur ne la fadiga i trova in calor / el piaƒer del parlar e de l’amor – traƒedia se fa umana comedia”. Ho messo in corsivo le parti a mio avviso corrispondenti al contributo, se così posso dire, della lingua al dialetto (non sono indicate, ma non le ritengo essenziali ai fini di questo abbozzo di lettura, le rientranze di versi presenti nell’originale).

In certi componimenti il dialetto mostra clamorosamente, quasi ostenta, e attua, uno dei principali elementi del suo potenziale, quello che consente la verbalizzazione con minimi tràmiti, senza scrupoli, riguardi, circonlocuzioni, attenzioni, preoccupazioni e deformazioni moralistiche, della terrestrità e della carnalità, e la resa addirittura accettabile di una catena di eccessi che sarebbero fatali a un componimento in lingua. È il caso degli strettamente legati “El disnar de Erodiade” e “Quando Salomè la bala”, testi che mi paiono adatti a verificare quanto sopra se accostati a precedenti della più illustre tradizione letteraria (trascuro quella figurativa – cosa che non dovrei fare se l’oggetto di questo mio intervento non fossero le riletture poetiche ferriane delle formelle di San Zeno molto più delle formelle stesse – e quella filmica) non so quanto da Ferri frequentati, amati, usati (del resto un poeta può usare precedenti letterari anche sentendoli non congeniali, estranei, e decidendo di non tenerne conto, di guardarsene anzi per fare qualcosa di totalmente diverso, magari – potrebbe essere il caso di Ferri per autoimpostosi obbligo di concentrazione su e di fedeltà a un materiale d’altro genere). Però i precedenti ci sono, il lettore non li può ignorare, e figuriamoci il lettore/critico: servono, appunto, alla lettura e alla critica, certamente non meno di quanto serva, per esempio, la conta di consonanti o vocali, tipo di lavoro a cui da qualche tempo a questa parte ci si dedica secondo me un po’ troppo, talché è diventato un vezzo. Ecco: c’è dovizia di s in “Quando Salomè la bala”, e viene facile trarne una indicazione di serpentina sensualità o sirenica allettanza (con fulminea proposizione memorica di sirene in versione non uccellina, nonché del sinuoso serpente induttore dell’innocente – ma chissà quanto già allora innocente – Eva ha peccato di incontinenza conoscenziale, di orgoglio e quant’altro, tradottosi poscia non solo ma anche ed eminentemente in radicale connotato femmineo esplicantesi in assiduità di libidine seduttoria all’attivo e al passivo, periglio per i mortali tutti, non esclusi le sante e i santi, costretti a vigilie e macerazioni compensati eventualmente da incontinenza pedagogica e ammonitoria, da assiduità di perentorie additagioni della presenza stacanovistica di Satanasso dietro e nella femmina: e basti ricordare, a questo proposito, l’acceso San Bernardino e la predica alle particolarmente esposte e fragili vedovelle, nella quale il demonio è ricordato come colui che tutto il giorno “sarnaca” e tende lacciuoli). Ma ne troviamo molte, s, anche nella poesia precedente che partitamente si occupa di Erodiade: sarà perché costei era anzi, se dobbiamo credere alle scarne notizie storiche – più della figliuola era sessualmente incontinente, nonché strumentatrice e amministratrice della propria sessualità a fini di potere oltre che di diletto, accorta corpivendola insomma o, per dirla banalmente, puttana del tipo ambizioso, ingordo, calcoloso, profittatore? O nei contesti le s erodiadiche e salomeiche assumono valori diversi?

Leggendo i due componimenti succitati di Ferri, ho pensato immediatamente ad alcune splendide pagine: a Hérodias di Flaubert, a Hérodiade di Mallarmé, a Salomé di Wilde. Una parentela limitata, meramente contenutistica, mi sembra ravvisabile fra i testi flaubertiano e ferriano: lo sfacelo caratteriale più che fisico di Erode, la sfrenata cinica brama di potere di Erodiade e il suo disprezzo del regale amante, la carica terroristica di Giovanni, l’orgiasticità come mezzo tracotante e disperato per negare a se stessi la saputa incombenza dello sfacelo.

La distanza non potrebbe essere maggiore dal testo mallarmeano (che fra l’altro, come osservava uno fra i più qualificati critici di Mallarmé, Gardner Davies, fonde i due personaggi in uno, incarnazione della venustà della danzatrice e della gelida razionalità della madre), integrale e audacissimo stravolgimento della figura biblica, per farne un simbolo di bellezza ideale, e insieme di tormento intellettuale e coscienziale. Per l’Erodiade di Mallarmé purezza e verginità sono connotati essenziali, e pertanto irrinunciabili, della propria bellezza (“J’aime l’horreur d’ètre vierge et je veux / Vivre parmi l’effroi que me font mes cheveux / Pour, le soir, retirée en ma couche, reptile / Inviolé sentir en la chair inutile / le froid scintillement de ta pàle clarté / Toi qui te meurs, toi qui brùles de chasteté, / Nuit blanche de glagons et de neige cruelle!”): d’altro, canto ella avverte il bisogno di realizzarsi, ovverossia vivere di vita vera, e di darsene certificazione, il che significa rompere il cerchio della propria solitudine, superare il narcisismo, l’idolatria della propria immagine. La strada è obbligata: il contatto con un altro. Ma tale contatto, implicando la perdita della verginità, attenterebbe alla bellezza ne vanificherebbe l’assolutezza. L’altro dovrà dunque morire. E d’altronde questo altro, Giovanni, trasparente simbolo del genio, liberandosi con la morte della realtà esteriore e possedendo la bellezza come Idea, toccherà l’integrità del proprio Io. Gloria per Erodiade e gloria per Giovanni, la cui testa mozza sembra alla fine salutare e omaggiare con un inchino (quasi di battezzato ad accoglimento dell’acqua lustrale) l’Idea, e per essa l’Assoluto in cui si risolve l’inane lotta fra la materia (il corpo) e 1o spirito (“[…] Mais selon un baptème illluminé au mème / Principe qui m’élut / Penche un salut”).

Non brucia di castità l’Erodiade ferriana, vecchia baldracca smessa, rinsecchita e “spolpa de sbambrendole”, troppo parcamente fottuta da un Erode crapulone quasi da strapazzo e sovente briaco a guisa di tegolo (come i dediti all’alcol probabilmente inetto o male atto a erezione del membro virile, insufficientemente sollecitato per giunta dalla sgangherata ganza). Baldracca smessa le cui residue energie vitali sono per così dire raggrumate nell’odio per Giovanni, bello come l’arcangelo Gabriele (così 1o vede l’infoiata figlia), ma come di norma i profeti cupo e insopportabile rompiscatole, tetragono grilloparlante, professionista di catastrofismo, impietoso e disastrosamente incorruttibile. Erodiade lo vuole zittito, onninamente innocuizzato e pertanto spacciato, scorciato (come si diceva in Francia al tempo del Terrore) mediante spada o altro aggeggio tagliente e di ineccepibile filo. E per raggiungere questo scopo (dal suo punto di vista inabbandonabile e prioritario: e giova riconoscere che la trucibonda severità di Giovanni nei confronti di un peccato – la carne, la lussuria – non situabile a lume di ragione, di senso e buon senso tra i più gravi, se non la deresponsabilizza e manda assolta la rende capibile e parzialmente perdonabile) si dà animo di ruffiana, a secondare la non meno lauta ancorché aggraziata da giovinezza e bocciuolica beltà (“ventre solar morbido dolse”, “bamborin che l’è ‘na gema”, “pele imburada”) – natura puttanesca e libidinosa della figlia (“voia mata de gusar”, “foia brada a quel alveo infogado”, fino all’immagine accarezzata di una fellatio “e par che la glandeola goda / caresa drento la boca”), che maliardamente danzi a ottenere da Erode in premio la troppo vociferosa malaugurosa minacciosa testa del profeta.

Siamo in area diversissima anche dalla Salomé di Wilde (incidentalmente, nelle fotografie di scena dell’opera di Richard Strauss, che segue passo passo il testo wildiano, egregiamente diretta da Karl Bòhm, la giovane cantante Gwyneth Jones, di egregie risorse vocali, mostra un drammaticissimo e caldissimo viso in combutta con una coppia di calicosciche gambe che non fanno davvero rimpiangere la sirena della formella zeniana). Wilde accoglie solo parzialmente la tradizione diventata cliché: il suo Erode non è un tiranno furioso e debosciato, bensì un personaggio tragico, pensoso e timoroso dell’aldilà, affascinato e atterrito da Giovanni (il cui ruolo profetico egli non mette in dubbio e non contesta), immerso nel peccato ma dolorosamente conscio del medesimo, superstizioso e lucido a un tempo. Erodiade è una donna incestuosa, lussuriosa e cupida di potere, detestatrice di Giovanni ma non tutta depravazione e istinto, razionale anzi, e non sfruttatrice cieca della figlia (cerca di indurla a non danzare per Erode, anche se alla fine è contenta ch’ella chieda la testa di Giovanni, e quando Erode angosciato e atterrito tentenna e vorrebbe rimangiarsi la promessa, la spinge a tenere duro). Salomé è assai più della madre figura complessa: in sostanza una fanciulla innocente, spregiatrice della lussuria materna e della corrotta corte di Erode, che la parola di Giovanni accende e fulmineamente seduce. Ma la parola di Giovanni è spirito, e tale vuole e deve rimanere. Salomé vorrebbe che si facesse anche carne, la sua esigenza è totalità di amore. Non potendo avere l’amore vivo, lo pretende morto, la bocca di Giovanni che non bacerà viva bacerà morta (“Eh bien, tu l’as vu, ton Dieu, Iokanaan, mai moi, moi… tu ne m’as jamais vue. Si tu m’avais vue, tu m’aurais aimée […] j’ai soif de ta beauté, j’ai faim de ton corps […] Si tu m’avais regardée, tu m’aurais aimée. Je sais bien que tu m’aurais aimée, et le mystère de l’amour est plus grand que le mystère de la mort”).

Il dialetto veronese: per quel molto che se ne conserva nel gioferrese, disintellettualizza despiritualizza demetafisicizza, per così dire, la vicenda di Erodiade e di Salomé, la storna dall’illustre tradizione sopra esemplificata.  In qualche modo ribiblizzandola (Vangelo di Matteo), riportandola a fortissima terrestrità biblica appunto – di passioni e sensi (brama di potere, brama sensuale). Direi che in questo va persino oltre il segno proposto dalle formelle zeniane, temperando l’audacia delle loro metafore, nelle quali talvolta la carne si perde per soverchio (si badi proprio alla Salomé ballante). Ma per il suo essere altro dal veronese (più e meno, altro comunque), il gioferrese recupera prontamente la dimensione metafisica, attraverso veloci e asciutte notazioni (così in “La decolasion de Zovàni”: “miracol de stranesa par ch’el tenta”, “adeso gh’è un gran silensio de fora / de la parola nóva riva l’ora”). Il tema della parola, della sua forza creativa e risolutiva, è presentissimo in questo libro. Vediamolo in “El sacrifisio de Iƒaco”. Non necessità del sacrificio, la storia può farsi senza farsi, e la sopravvivenza di Isacco ne è una prova, la vicenda sua e del padre Abramo vale anzi come monito e indicazione di tale possibilità agli uomini. La conclusione di una detta ragione può non essere la crudeltà. C’è una misura di verità creduta dalla fede per cui “sarà quel che no sarà, sarà quel che se dirà”. Siamo chiaramente alla parola giovannea, che è presso Dio ed è Dio (primariamente, ça va sans dire, volontà e amore): “Parché la parola no la cròla e sola s’invola / Móve parola l’ordin del mondo e ne basta dir /  che deƒà se gira in tondo: e no gh’è nesun bisogno / còle spade e cò i cortéi de masacrar i putéi”.

C’è nel poetare di Ferri (in questo Ferri, di questo libriccino, a me particolarmente caro), e convive senza stridore anche se in produttiva contraddizione con la carnalità ch’egli ha addirittura teorizzato biologizzando la poesia – semplifico volutamente, anche per gioco, un aspetto del Ferri teorico di cui altri hanno elegantemente e ampiamente trattato -, una intensa ansia metatisica che si esprime, in termini filosofici e teologici, proprio nell’affronto della tematica parola/poesia (“la raƒon de l’anima e la pasion de ‘a carne”). La parola fa il tutto abitandolo essendovi essendolo, è creatrice e ribaltatrice (della storia e della banalità, dunque della non verità, dei suoi significati), è anche o soprattutto nel silenzio, è fatalmente (cioè divinamente) poesia. Ce lo dice il carme figurato “Gloria”, che si propone come lauda del Signore: “a ti che te rabalti la istoria de la istoria/ […] / ma che te gh’è sì ‘na parola sola / quela che la ne se bloca in gola parché / siben no dita la fa del creato la soa deletansa / cusì che ti te fe poeƒìa anca quando in / seculis seculorum nel silensio de l’eterno / sielo l’homo te fe danovo / in verità sì belo…”. È, ancora, la parola implicita del battesimo (“El batéƒo”): “Voialtri vedaré, Parola volarà / ripulìa onne buƒìa sarà quel che dirà / come quando poeƒìa porta ai sensi pulìi, / tanto che tuto torna, 1’aqua dei rìi». Poesia acqua limpida, limpidità che ingloba trasformandola ogni torbidezza, levità che ingloba trasformandola ogni gravezza. Così vorrebbe la propria poesia titanica ambizione e rarissima, mai integrale riuscita – ogni poeta degno del nome. Ma l’arduità e rarità della riuscita non giustificano la rinuncia (chi rinuncia, poeta per ciò stesso non può essere), allo stesso modo che non sono giustificazioni al non perseverante tentare la consapevolezza della inattingibilità della verità e l’inaccessibilità dell’abisso dov’essa giace con tutta la sua ambiguità e contraddittorietà.

A questo punto, dopo queste citazioni, mi parrebbe pleonasma o ridondanza extrapolare altro dalla chiusa – graziosissima in verità – del libro ferriano, “La raƒon de ‘na inventa lengua”. Il chiarimento di questa raƒon è, più è meglio, nel testo, talché il lettore, valicato il medesimo, può tranquillamente dire “verbo non ci appulcro”, o se sente il bisogno di appulcrarcelo, è per qualificarsi come oculos habens et non videns.

(Per la rivista “Concertino” (Milano 2000) )

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