L’interdisciplinarità e la testualità biologica – una nota di Milli Graffi su Gio Ferri

 

di Milli Graffi

Quella di Gio Ferri è un’operazione molto singolare, praticamente inedita. Affronta la produzione poetica da un punto di vista audacemente insolito: volendo parafrasare il titolo del saggio si puo dire che Gio Ferri tenta una commistione fra la ragione poetica e la ragione scientifica. Per analizzare il testo poetico, i suoi meccanismi e il suo farsi, senza trascurare i tradizionali modelli linguistici e semiotici, pretende in qualche modo di superarli servendosi dei modelli recenti offerti dalle nuove scienze (con la loro nuova visione dell’universo), fisica e biologia in particolare – oltre alle scienze umane sulle quali la critica si è già abbondantemente esercitata.

È un approccio eccentrico, fuori di ogni tradizione critico-letteraria, o forse oltre quella stessa tradizione. Tutti sappiamo che Gio Ferri non è uno scienziato… voglio dire che non è, per esempio, un matematico che pretenda di parlare di letteratura adottando i mezzi che gli sono specifici. Ferri è un poeta e un critico che vuole allargare, sovente riuscendoci, i confini entro i quali collocare l’esercizio della lettura del testo poetico. Per questa via si consente intuizioni, eccentriche, appunto, che non gli sarebbero possibili limitandosi all’uso degli strumenti conosciuti dalla pura critica letteraria.

Una poesia, quando viene fatta passare attraverso questa ‘tritturazione’ molteplice e diversificata, con una analisi sempre serrata e imprevedibile, alla fine e restituita al lettore, gli viene rimessa fra le mani, avendo subìto una sorta di processo di lievitazione. Risulta illuminata. Le è stata accesa una lampadina dentro. Ferri ha lavorato ad aprire un nuovo piccolo spiraglio d’accesso alla comprensione del testo e da questa apertura viene luce, direi, sempre riferendomi al titolo, giunge un lume di ragione. Non manca infatti una propensione illuminista. Ma vediamo come si svolge questa operazione.

Ferri recepisce nella poesia che sta analizzando delle particolari curvature d’immagine, di pensiero, certi frammenti, scarti, sbocconcellature di mosaico, piccoli tratti, lievi pulsazioni. che, gli pare, debbano appartenere a tutt’altro universo da quello che apparentemente, secondo abitudine analitica, sembra evocarsi dal testo. Allora incomincia a indagare per trovare dove si situi questa ipotetica e nuova appartenenza. Faccio un esempio. Legge una poesia di Zanzotto, Ascoltando dal prato, da “Idioma”, e, secondo l’idea di Morin, vi sente sottesa innanzitutto la dialettica tra l’effimero del soggettivo e il programma biologico dell’essere, che, in quanto programma, effimero non può essere mai. Ma su questa visione si innesta analogicamente la dualità espressa dalla Kristeva, fra Cosa come originarietà sempre biologica, addirittura sessuale, e oggetto come parola organizzata e convenzionale, e si protende verso “un ritorno cosciente all’ignoto”. Perciò riporta l’attenzione ai criptotipi, come voci che precedono il verbo, del linguista americano Lee Whorf, per cogliere i significati sommersi, sottili, nascosti, elusivi della spazialità sensitiva in Zanzotto, fisica e non metafisica (come lo stesso Ferri sottolinea e descrive dai margini del prato). Ed è questa visione spaziale, non puramente concettuale, bensì del tutto localistica, che gli riporta le immagini arricchenti delle rarefatte conversazioni della Compton-Burnett e delle scenografie (le piscine in particolare) di Hockney. Di qui l’edificazione di una camera sperimentale entro la quale si ritrovano i processi spazio- temporali ipotizzati da Prigogine… Queste ardite polivalenze – ne sintetizzo solo alcune – sottopongono il lettore a una straordinaria pressione, quasi la suspense di una narrazione incalzante. Cosicché non si producono dispersioni ma, direi, conversioni – tese propriamente ad una compattezza, ad una unità della poesia. Le corrispondenze sono saldate puntigliosamente proprio alla lettera di ciascun verso. Per cui la sorpresa per il lettore è continua. E nasce in lui l’impulso di controllare se queste inopinate proposizioni siano vere, giustificabili: e questa curiosità viene puntualmente soddisfatta in quanto e puntigliosamente, sempre, documentata, spiegata.

Mi pare che Ferri lavori con accanimento per affermare la presenza, la stessa esistenza fisica della poesia, e la ricerca di questa affermazione o riaffermazione non trova pace e non si soddisfa mai. E un processo di probazione attraverso sempre nuovi modelli scientifici, o no, che vengono impunturati al testo poetico, sovrapposti come un’infinita serie di cappotti, uno addosso all’altro: o una continua sovrapposizione di lastre fotografiche. In un susseguirsi di schemi, immagini, giochi, rispecchiamenti per andare a stanare anche i più reconditi percorsi della poesia e della sua lettura, i dettagli minimali e preziosi: così una volta vuole osservare il testo nella sua panoramica spazialità, un’altra volta vuole coglierlo nella sua particolarità, da più lati, e scambia gli sfondi per evidenziarne i contrasti. Ora riprende Goethe, ma non tralascia Lucrezio, e riscopre Baumgarten, e vede certe forme barocche come il grafico tangibile della doppia elica… Vi rileva il gene del poema interminabile… Comunque non si arresta, si espande in questo movimento, e questa ‘agitazione’ nella ricerca inesausta acquisisce e dona forza tanto più procede, per restituirci infine un testo, un oggetto poetico, caldo e vivo.

Questo è l’effetto che si riporta fin dalla prima lettura, tanto che siamo costretti in qualche modo a chiederci se ce l’eravamo dimenticato che la poesia poteva essere anche così, letta cosi, oltre le misure puramente linguistiche. C’è un accrescimento di vitalità: non vedo altra definizione per spiegare questa sensazione dinamica. Un accrescimento di vitalità che è in funzione, lo ripeto, dell’affermazione di esistenza della poesia.

Il percorso è talmente insolito che suscita diverse curiosità. Per esempio, Ferri, come c’e arrivato? Chiaramente non si e posto il problema di scrivere delle recensioni: il livello di superficie è escluso a priori. E come se avesse voluto trovare la teoria dei testi poetici degli amici (poiché, per inciso, analizza quasi esclusivamente opere di scrittori che conosce, di compagni di strada). Allora cerca questa teoria dei testi poetici un po’ come si fa in analisi, là dove si dice che per interpretare un sogno bisogna trovare la teoria che sostiene il sogno. Per arrivare a una vera comprensione del sogno bisogna trovarne la teoria. Ferri opera in questo ordine di idee: vuol trovare la teoria che sostiene la poesia e che non e esplicita nella poesia, ma piuttosto occulta. Ed è, ripeto, un confronto abbastanza pertinente all’analisi del sogno. Non e detto che il poeta conosca la teoria della propria poesia. Soprattutto non la conosce mentre sta ‘costruendo’ la sua poesia. A lavoro compiuto, forse, sa qualcosa. Ma noi sappiamo che il testo sa molto di piu di quanto sappia l’autore. Da questo punto di vista Ferri entra in qualche modo dentro l’attività creativa. La sua è anche un’indagine, per diverse vie, sulla nascita del lavoro letterario. Un’inchiesta al margine della natura del fare. Del poiéin. Cosa si fa, e cosa si è, quando si fa poesia? Nella contaminazione fra scrittura e nuove scienze (le biologiche in particolare, e le neurobiologiche) Ferri si è trovato a costruire delle analogie di pensiero.

Quando Darwin voleva fondare la scienza naturale prendeva dei modi del pensiero della geologia e li trasferiva dentro la storia naturale. Questa è una prassi tipicamente scientifica: operare analogie di pensiero e trasportarle in altro campo semantico e applicarvele. Faccio un altro breve esempio: Ferri rileva nella poesia di Brandolino Brandolini d’Adda e di Giorgio Guglielmino delle allitterazioni e parla di coppie fonetiche alle quali sovrappone il concetto scientifico di processo di divisione cellulare. Il cromosoma replica se stesso. Questa sovrapposizione, questo trasferimento di un risultato da un campo all’altro gli permette di trovare in quei testi una inattesa caratteristica che definisce “proliferazione per gemellaggi”. Così l’allitterazione diventa qualcosa di più esteso di quanto dice normalmente il termine. Costringe questa categoria linguistica dell’allitterazione a caricarsi di un’aura semantica diversa, nuova. Le dà un formicolio che normalmente non ha, un movimento interno che non avrebbe, che in qualche modo non hanno più queste usurate categorie dell’analisi retorica. Escono tanti libri sulla metrica in questi anni: sistemazioni più o meno perfette di tutto cio che ci è arrivato da una lunga tradizione di invenzione, di ricerca sulla metrica. Tuttavia queste catalogazioni appaiono fredde, spente, forse anche sterili. Non ci recano alcunché del senso vivo che, per esempio, aveva appassionato Tommaseo, quando cercava la necessità profonda della metrica, allora, appunto, sentita come necessità. In questo senso mi pare che l’operazione di Ferri faccia recuperare, contro le apparenze stesse del suo approccio, proprio certi valori, certe tecniche specifiche della critica letteraria. Insomma il modello scientifico altro non è che un modello conoscitivo, e se la cosa da conoscere è letteraria il modello scientifico si farà metafora di un rinnovato modello letterario. La figura dell’allitterazione è diventata troppo asettica e non sa esprimere tutto quello che attraverso di lei il testo poetico offre? Ebbene, Ferri ricorre al modello scientifico che gli funziona da metafora arricchente dell’allitterazione. Di fatto, nella realtà, le scienze vengono sottese, cioè poste sotto l’analisi letteraria alla quale sta procedendo. Il mezzo scientifico, come una lastra, viene infilato fra il testo poetico “oggetto dell’indagine” e l’approccio letterario che corre in superficie. Il sandwich che confeziona ha un gusto nuovo. Il gusto tattile (papillare!) e insieme concettuale di una nuova icona. L’uso metaforico di quel determinato modello scientifico gli fa cogliere sempre una figura rinnovata. Una inedita (meglio trascurata) icona. Quella della sensitività, fisica (prima che metafisica: lo abbiamo già visto). Quell’icona, sempre quella per lui, che definisce biologica, sensuale, sensitiva… A questo risultato definitorio – per sua natura apertissimo – Ferri giunge attraverso quella sovrapposizione di modelli di conoscenza. La cosa straordinaria è che la poesia in questo processo ingloba il modello conoscitivo delle scienze così, con un sol boccone (per restare all’analogia… gustativa!), senza alterarsi, o diminuirsi. Anzi! E lo abbiamo visto.

Certo, in questo testo di Ferri non mancano le contraddizioni. Parecchie contraddizioni: non posso elencarle qui. Per esempio. Le scienze permettono a Ferri di confermare la natura biologica del fare poetico. Ma risulta anche che proprio la ‘logica’ scientifica realizza un modello che conferma l’inspiegabilità, l’indescrivibilità della poesia. Che è una bella contraddizione, per l’assunto del libro ** (cfr.nota in calce). E queste contraddizioni si accumulano, ma non screditano il discorso: diventano la forza che lo regge. Fondamentale, per fare un altro esempio, è la considerazione della poesia come parola alogica, analogica, metamorfica, ambigua, parola, quella poetica, che la vince, la spunta sulla parola logica, utilitaristica e meramente comunicativa. Quindi, in un certo senso, anche sulla parola della scienza! Tuttavia, Ferri precisa, qui non si tratta tanto della scienza tout-court, quanto delle nuove scienze, le cui metodologie e le cui… icone, nell’ultimo secolo, dopo positivismo e neo-positivismo, si sono avvicinate non poco a quelle della creatività intuitiva.

È un libro di contaminazione, che non cerca leggittimazioni di sorta, se non nel proprio processo in buona parte autonomo. Ma è contemporaneamente un libro di teoria; che viene dalla necessità, dalla costrizione, di una analisi inedita dei testi per giungere a una visione in qualche modo unitaria, seppur polivalente, della poesia. Ed è un libro anche di militanza, perché si occupa del presente della poesia. Questo rapporto teoria-militanza riesce a gettare qualche luce sulla condizione della poesia che viviamo, qui e ora. È chiaro che dicendo del rapporto teoria-militanza rimando alle avanguardie storiche: il momento della stesura dei manifesti era un momento di teoria e insieme di creatività. I manifesti contenevano proposizioni teoriche forti ed erano gesti di militanza: lanciare contro il pubblico queste teorie era gesto di creativa militanza. Le teorie, nei manifesti, non si prestavano a spiegazioni, a giustificazioni. Ciò che proclamavano con questo atto scandalistico forte sarebbe stato poi dimostrato come vero dalle opere che sarebbero seguite. La teoria dei manifesti è formulata in modo apodittico. L’arte si farà così. Sarà così, e non c’è bisogno di spiegazioni. Si potrebbe pensare che, a una piu attenta consideraziore, le posizioni, fra teoria e militanza, andavano, nella prassi, capovolgendosi. Infine era nelle opere che si dava la spiegazione vera della teoria. Nelle opere e nel loro farsi. Tanto che si fece forte, nelle avanguardie, l’idea di sperimentazione : in un laboratorio ‘scientifico’ in cui l’artista guardava succedere le cose, nella posizione, appunto, di uno scienziato. E fin troppo noto il detto di Picasso: non cerco, trovo. Perciò l’autentico aspetto teorico era nelle opere piuttosto che nei manifesti. È più facile capire cos’è il dada in un’opera di Duchamp che in un manifesto di Tzara. In questo senso c’è uno scambio nel momento teorico-militante.

Come gestisce Ferri il rapporto teoria-militanza? Il libro di Ferri non appartiene alla categoria dei manifesti. Non fornisce proposte specifiche e apodittiche alla militanza. Non pretende di imporre una nuova tendenza. Tuttavia ci ripresenta questo rapporto fra teoria e militanza secondo un preciso collegamento. Mantiene l’atteggiamento canonico dello studioso di letteratura verso i prodotti letterari, ed elabora una teoria che è pertinente alla militanza di cui fa parte. La costruisce attorno e dentro una militanza. La costruisce soprattutto dall’interno dei prodotti. Dei testi poetici. Mentre le avanguardie partivano dall’esterno e le opere venivano dopo. E come se questo libro ci dicesse: dobbiamo capire quello che stiamo facendo, e come lo stiamo facendo. Qual è la teoria che, facendo, stiamo costruendo? In altre parole è un libro che ci mostra le nostre posizioni. O per lo meno contribuisce a mostrarle e ci permette di parlarne.

(Trascrizione della stessa autrice della presentazione de “La ragione poetica” nel settembre del 1999 alla Libreria Feltrinelli di via Manzoni in Milano)


** Gio Ferri, nota.

Questa è una considerazione di notevole importanza, fortemente giustificata, e sollevata da più parti. Ne è nato un prolifico dibattito. Già nel seguito del suo discorso Milli Graffi coglie la prolificità della contraddizione stessa. Tuttavia potrà essere utile al lettore quanto successivamente è stato evidenziato in alcuni altri interventi. Si prenda lo spunto da diverse osservazioni venute in proposito da più parti (critici letterari e scienziati) e in particolare dall’intervento “La poesia come annunciazione” di Alberto Cappi “Quaderno” n.6 allegato al n.25-1998 della rivista “TESTUALE, critica della poesia contemporanea”. Cappi, in particolare, citando fra gli altri Richards e Della Volpe (cfr. E.Raimondi, “Scienza e letteratura”, Einaudi, Torino 1978), sottolinea come il linguaggio scientifico pronunci l’affermazione, mentre il linguaggio poetico esibisca una pseudoaffermazione. Alla scienza perterehbe una semantica denotativa e alla poesia una semantica connotativa. La linguistica dal canto suo settorializza la diversità dei linguaggi. “Che cosa accade allora nella poesia di dissimile dall’abitazione dell’enunciato scientifico?” Innanzitutto nella poesia, rispetto alla scienza, non v’è procedimento, bensì processo.  Nella poesia “qualcosa… si sposta: entro l’armatura retorica, l’orbita sintattica, le gabbie grammaticali, la scia pulviscolare dei significati, l’uso linguistico, l’orizzonte enciclopedico, qualcosa di ancora nascosto, non catalogabile né sperimentabile, di silenzioso passa e non si fa cogliere…”. Esattamente il contrario, quindi, di quanto produce il linguaggio scientifico. “Si tratta (in poesia) di quanto non fa sistema ma stile”… “In poesia infatti la verità non cade con esattezza, coerenza, coincidenza. Capita inattesa, dove la necessità del soggetto si accentua e insorge in un indugio nelle strategie della lingua…”. La verità “nella scienza può darsi quale responsabilità e risposta del metodo”… mentre l’etica e l’estetica si danno “come modello d’interrogazione: non vi sarà peso, ma leggerezza e danza formale”.

L’eccezione di fondo, assolutamente condivisibile, può riassumersi quindi nell’affermazione, secondo la quale il linguaggio della poesia e il linguaggio della scienza non possono mai considerarsi omologhi. Questa è una delle osservazioni più frequenti rispetto alle ipotesi di un rapporto fra scrittura poetica e scienza, anche nei confronti delle nuove scienze, che purtuttavia hanno sovente introdotto nel loro metodo il valore dell’epifania, dell’intuizione, della dimostrazione per assurdo.

E’ necessario quindi, ad evitare equivoci, precisare ancora una volta i limiti della ricerca in merito al rapporto poesia-scienza (o se vogliarno anche più in generale estetica-scienza).

Con questa ricerca non si pensa minimamente di esprimere una uguaglianza di linguaggi e di situazioni analizzabili, di eventualità, fra poesia e scienza. Le due culture sono ovviamente distinte, a livello di linguaggio e di metodo (che per la poesia non si dà mai in senso logico). Tuttavia si deve rilevare che, in una concezione unitaria dell’uomo quale soggetto creativo e giudicante, complessivamente sensitivo – fra l’altro partecipe privilegiato della (dis)misura generale, e troppo spesso insondabile, dell’universo fisico e biologico – la poesia (e l’estetica in generale) risponde a una condizione di sensibilità e sensualità (e addirittura sessualità) che, superata ogni metafisica, non può trovare le sue ragioni se non nella conoscenza dei meccanismi biologici e cosmologici.

In altre parole la poesia non vuol confondersi con la scienza, tuttavia chiede alla scienza di prestarsi alla ricerca – oltre la (o prima della) formalizzazione linguistica – della propria plausibilità e del proprio evolversi nell’ambito del programma genetico al quale sottostà, comunque sia, il processo di conoscenza (meglio, di coscienza), e prima di sensitività.

Ciò può giustificare domande del tipo: quale lavorìo, fra sensi, mente e cervello, si sviluppa nell’atto della produzione e percezione poetica? Quale processo biologico si rivela nell’atto di percezione della natura e di metamorfosi del percepito in parola, o segno? Quale genere di partecipazione dell’atto ‘corporale’ di poesia prevedono le leggi, conosciute o intuibili, della fisica cosmologica e soprattutto delle neuroscienze? E così via. La poesia, umilmente (se mai si dia una poesia ‘umile’!), osa chiedere alla scienza di farsi strumento per elaborare la propria valenza epistemologica nella corporeità dell’uomo e nella ambiguità dell’universo, della sua creazione, della sua totalità, della sua fine (se mai fine si darà)..

Cfr. G.Ferri in “Karenina”.IT. rivista telematica

http : //www. geocities. com. /Paris(Li ghts/7 3 23 lkar erunarivista. html

il verri“, nn.2-3,1997,  G.Ferri, “Poesie e spazi mentali”

Quaderno“, n.1,1998, G.Ferri, “Saussure al limbo”

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