Patto giurato – una nota di Eraldo Affinati su Milo De Angelis

 

di Eraldo Affinati

Lessi il primo libro di Milo De Angelis, intitolato “Somiglianze” in una caserma operativa dell’Italia settentrionale. a quel tempo non potevo saperlo, ma c’era un nesso profondo tra la mia condizione di militare di leva e le poesie che avevo di fronte. Lo compresi molto più tardi, mentre intanto De Angelis si stava affermando con la pubblicazione di altre raccolte: “Millimetri” (1983), “Terra del viso” (1985), “Distante un padre” (1989).
Tutti i suoi versi infatti sembrano rispondere a ordini indiscutibili. quasi non fosse possibile parlare liberamente e ciò – ecco la prima sorpresa – costituisse una specie di vanto, di segreto e indicibile orgoglio. Le parole danno l’impressione di finire sempre in un vicolo cieco, sebbene non lo lascino presagire in quanto avanzano con il passo del condottiero, brindando alla loro inconcludenza.

Si propongono di rappresentare una spaccatura, l’azione dirompente del pensiero, ignare di se stesse, voci della durata che si rompe nella pronuncia, ma assai raramente trova la propria ricomposizione nell’esito formale; tuttavia il segno linguistico non si preclude l’allusione a qualcos’altro, non resta puro suono, neanche quando sembra esclusivamente ritmico e percussivo. il rinvio all’esterno che i versi determinano appare antipsicologico: invece di restare vago e approssimato, sperando in un lettore permissivo, si configura secondo un impulso giuridico.

Se leggessimo la produzione contemporanea limitandoci a utilizzare la libera associazione, cavallo vincente della lirica europea, avremmo qualche difficoltà a districarci fra le molteplici offerte al riguardo e l’apparente inappellabilità del nostro gusto. Saremmo turacioli in mare aperto. Milo de Angelis va posto in un’altra tradizione: quella di chi non tende a controllare i passaggi analogici ma la legge che li governa.

La nascondevo come un musicante
dentro il tuorlo che muore, la nascondevo
dentro un corpo dedicato… oh Deiva, per virtù
brillava anche il seno sbagliato!

Fin qui nulla possiamo dire: l’immagine è ancora sulla rètina, come gli spaccati di costa visti dal finestrino del treno fra due gallerie quasi attaccate, non è giunta al cervello. Restiamo in attesa di una notizia folgorante, un colpo di teatro, una rivelazione, perché De Angelis ci ha promesso qualcosa di prestigioso.

E quando
il gettone cadde, disegnai questa figlia migrante
con la nostra allegria, col mio pudore.

C’è forse un modo più straordinario di questo per descrivere il concepimento? Lo scatto del gettone che cade azionando l’invisibile macchinario, il luna-park della vita; quella figlia migrante che arriva da un altrove e vi ritornerà; l’allegria della coppia; il pudore, inconfessabile e distintivo, dell’uomo. Tutto sembra d’improvviso più chiaro, ma resta sfalsato, inattingibile. Le parole sono state scelte perché aprono vie di fuga laterali, rimettono sempre l’intera posta in gioco, non si accontentano di un effetto anche molto seducente come questo, s’impegnano subito in una scommessa successiva:

Era
la stessa ed erano tante, come a volte si leggono
entrambe le mani, come una strofa storta
in direzione del cielo!

“Distante un padre” sembra rappresentare una chiave di volta nell’opera dell’autore. Il problema delle origini è sempre stato al centro della sua ispirazione, come un tema-fondamento, ma trovò in questo libro l’esito più forte. Non a caso il colore prevalente è il giallo (della terra, dell’uovo): la casa della matrice. L’infanzia viene vista come il luogo di un’integrità non più raggiungibile: il faro del ritorno dal quale la vita ci allontana.

Penetrazione
di sole in grano, che è madre. Superstite
che si chiama padre.

La sfera della paternità combacia con la storia: entrambe sopravvivono alla natura. Occorre tornare indietro, sui propri passi,alla distanza sufficiente per conoscere il primo gesto, l’unico davvero irripetibile, sempre sfuggente e vittorioso: secondo De Angelis questo percorso è lo statuto della poesia. Il suo sforzo non si esercita a pronunciare un’ipotetica «chiarezza». Egli si comporta come quegli animaletti che lasciano le loro impronte sulla spiaggia. A molti di noi è capitato di seguirle e certe volte di notare, non senza qualche disappunto, che s’interrompevano nel nulla. Si poteva pensare che avessero scavato una buca, oppure che fossero volati via. Tali spiegazioni, ammettiamolo, non ci hanno mai pienamente soddisfatto. Restava un mistero da scoprire anche nella poesia di Milo De Angelis.

Ossessionato dal tempo dell’inizio, quando la morte non era, come oggi, un eterno paragone, Milo De Angelis si guarda bene dall’illusione di poterlo attingere. Egli riporta lo strappo che ci divide dalla prima mossa, il tonfo dell’albero caduto con il quale finisce l’infanzia, non per nostro dolo; noi, guardie di un passato che ci è per sempre sfuggito, non abbiamo fatto niente, siamo incolpevoli, viviamo in un futuro irrealizzabile e clamoroso.

( a cura di Roberto Russo. Eraldo Affinati da “Patto giurato”, ed. Tracce, Pescara, 1996 )

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