Caterina Davinio: ‘Il libro dell’oppio’ – una nota di Paolo Polvani

 

di Paolo Polvani

Ricordavo i versi di Eros Alesi, letti in una memorabile antologia curata da Antonio Porta edita da Feltrinelli, Poesia degli anni ’70:

– Cara, dolce, umana, sociale mamma morfina. Che tu solo tu dolcissima mamma morfina mi hai voluto bene come volevo. Mi hai amato tutto. Io sono frutto del tuo sangue. Che tu solo tu sei riuscita a farmi sentire sicuro. Che tu sei riuscita a darmi il quantitativo di felicità indispensabile per sopravvivere. –

E ora questo libro di Caterina Davinio che spalanca nuovamente la finestra sul panorama di quegli anni:

Morphine (gocce)

Gocce di morte
nella pelle avida
Gocce di morte
sulle cicatrici
Gocce di morte
sulla fame che stordisce.

In quegli anni la droga non era rifugio né sconfitta, era esperienza e viaggio, assumeva i connotati positivi legati all’aspirazione verso un allargamento della coscienza, della consapevolezza di sé, insieme al rifiuto di un assetto sociale sclerotizzato che creava disagio.
Il libro di Caterina ci consegna la testimonianza poetica personale e di una generazione che in quel disagio aveva eletto il proprio domicilio.
Si trattò di frange sociali dalle antenne ricettive e dalla vista a lunga gittata che avevano percepito con largo anticipo, e sulla propria pelle, la deriva del male di vivere originato dalle crepe di una società avviata al declino, ma il cui radicamento appariva ancora solido.
Il libro illumina gli ambiti, spaziali e umorali, entro cui si agitava lo spirito di dolorosa euforia di naufraghi, presagio di un fallimento che solo ora, a distanza di quasi quarant’anni, avrebbe trovato la sua certificazione nei pubblici registri.
Mi piace molto che il libro riporti la dedica: alle mie cattive compagnie.
I versi ci vengono consegnati  come composti nella stesura originaria, così da chiudere ogni spiraglio a un tardivo giudizio, o rimpianto.
L’autrice mischia le carte evitando una ricostruzione cronologica, probabilmente per evitare le trappole del genere diaristico e del documento strettamente sociologico.
Chi ha vissuto gli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 ritroverà intatte certe atmosfere, certi personaggi, il nomadismo urbano, la musica come colonna sonora e punto di riferimento perenne, l’ansia del viaggio come ricerca di un senso alternativo, il richiamo di luoghi imprescindibili per quegli anni, l’India, Berlino, dove intere generazioni si sono riversate.
E anche gli abbigliamenti distintivi, le capigliature, un certo linguaggio denotano i segni e i segnali di un’epoca precisa.
Il tema del libro sfugge alle catalogazioni ordinarie, si parla di eroina:

noi risorgemmo dal nostro inferno come lievi angeli
con il solletico di dio nelle vene giudiziose
graffiate da artigli, aghi come baci.

L’autrice ci consegna i versi col sigillo dell’autenticità e della verità, senza ombre di rimpianti:

non mi pento
nulla aborrisco del mio sangue
rabbioso.

Immaginate di sfogliare un album fotografico: com’eravamo giovani e belli, e pieni di speranze.
Ma senza cedimenti alla nostalgia, nessuna operazione di autocompiacimento.
Una turbolenza giovanile che nasceva da un disagio e si concretizzava in uno smisurato spirito di ricerca, un’ansia di conoscenza e di esperienze:

come camminare sull’orlo della morte
in un patto stregato

E tuttavia non perdendo la consapevolezza del rischio: Un drago infuriato / si era attaccato alle loro vite.
E insieme una grande vitalità: la vita ardeva / come un falò.

La droga fa da sfondo e motivo dominante del libro:

Dieci  giorni,
solo eroina,
lunghi sogni
stesa sul divano
nel mio sacco di preziose ossa.

E il sogno:

(E dimenticai, persi tutto, deposi la sparuta coscienza
Caddi tra i papaveri rossi come in un soffice sogno)

Udivo mio padre e mia madre
Nel bianco vestito di ciliegio,
un giorno, dicevano,
ti apparterrà.

Versi giovanili, si diceva, contrassegnati, a tratti, da alcune acerbità, che tuttavia anziché sminuire la resa, nella distanza temporale sottolineano la cornice di sincerità.
Versi come lame, entrano nel profondo perché originati forse da un sentire amplificato dall’uso di sostanze, versi dai quali emerge una sapienza innata, una capace abilità del tocco:

strade piatte e irriducibili case gialle
su cui la noia si avventa con la sua nuda falce
imperversa sul nulla disteso sulle vie indifese
e le uccide inesorabile con la luce.

Versi che ci consegnano un’esperienza forte e che pertanto vanno maneggiati con la cura e il rispetto che si devono a una sincera profondità.

Paolo Polvani
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