un tale, una tale – tra oralità e scritture n.15: Per i posteri e per i poster

 

di Stefano Guglielmin

Orale, etimologicamente, appartiene alla bocca ma anche alla voce e alla preghiera. Forse persino al gesto contadino: arare, orare, tracciare dei solchi nell’aria fertile, disperdere i canti. L’oralità sta sul bordo della scrittura, ma non le assomiglia: un attimo prima dell’incisione dello stilo, tutte le voci sono possibili, tutti gli dei sono in ascolto. Bella l’oralità perché figlia delle quattro direzioni. Sta sempre sul quadrivio, spalancata. Talvolta la costringiamo a incidersi sulla pietra, a prendere una direzione, per sempre. La scrittura le chiude infatti la bocca, la semina in terra. Ma non è detto che ciò sia un male. Negro sèmen seminaba, per i posteri e i per poster.

Oralità è una fanciulla con la gambe aperte che fa gola ai poeti. Alla voce dei poeti con la quale recitano il suo canto funebre: ecco la poesia performativa che veste la coda del pavone per dire: “Quei colori sono io”. Così inganna (e si inganna) il poeta, che come narciso s’in-canta al proprio riflesso, puntando i riflettori sul bordo del proprio corpo. Cassa di contrabbasso o di violino, flauto dolce, suona per Cerbero e per le fanciulle in fiore, facendole ingelosire. Ma si può fare meglio. Succede quando la voce fa tempesta e grumo, chiedendo a tutti d’entrare in quaresima, nella notte del moderno; oppure lalla o spernacchia, portandoci per mano nel glorioso mondo dello sberleffo antiborghese. L’oralità è Ofelia e Nastas’ja Filppovna, Beatrice e Becchina, la donna-gorgo di Cecco Angiolieri. L’oralità è Pinocchio quando vende il libro per seguire le voci che ha dentro,  la più profonda delle quali dice: qui si muore.

Corpo e oralità hanno in comune la sillaba OR, cuore forse di Horus, signore della profezia, del dire in anticipo. Il corpo infatti dice di sé, con la sola presenza, il pieno nello spazio, il proprio limite, annuncia in silenzio il confine dopo il quale c’è la musica dell’altro. L’oralità, se feconda, vive al centro di quel silenzio, è di per se stessa confine, che tiene insieme significante e significato, senza essere né l’uno né l’altro. Lei sta nel tramezzo, dove il corpo mio e il corpo tuo giocano a rincorrersi. Anche la scrittura, talvolta, fa miracoli in questo senso.

Quando leggo a voce alta, ho deciso a priori il corpo da esibire. Sillabo, scandisco, arrotolo lingua e labbra, rilascio secondo partitura e piccolo margine improvvisativo. Sono voce che ha preso la parola, che le tiene l’alone. Cane è pane. Attenti al pane, che morde. O al cane, se non è buono. A volte l’oralità vorrebbe che il mondo sparisse: il signor tuttavoce lo partorirebbe al posto di dio, potendo. Ho visto nascere melodie impalpabili da queste acrobazie e fortemente seduttive. Io tuttavia amo la sbavatura e diffido dall’incantamento. Nemmeno Ulisse chiamò sua figlia Sirena. E amo il tiro con l’arco, il suo sforzo per tenere la rotta, entro un vortice estremo governato dal respiro. Che bello il sibilo del fiato sull’orlo del corpo: ci tiene di qua della morte, in bilico sulla vita. Lì la poesia pascola in piena libertà di parola. A volte grida, altre sussurra. Parla e si scrive, senza pregiudizi. Talvolta persino si semina sul prato come una grande bovazza piena di fermenti. Alba pratalia. Ed è questo il suo posto: nel calore bianco del tempo. Per tutte le voci del mondo, di fiato e di inchiostro.


Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI). Laureato in filosofia, insegna lettere presso il locale liceo artistico. Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del gruppo “Fara”, 1985), Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book editore, 2003), La distanza immedicata / the immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006), il foglio d’arte Il frutto, forse (L’Arca Felice, 2008), Erosioni, in Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est (Fara, 2008), C’è bufera dentro la madre (L’arcolaio, 2010) ed i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009) e Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le Voci della Luna, 2011) È presente in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Gestisce il Blog Blanc de ta nuque. Dirige le collane di poesia “Laboratorio” per le edizioni “L’Arcolaio”, “Segni” per conto de “Le Voci della Luna” e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso, “Format” della “Puntoacapo Editrice”.

Ida Travi
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12 Comments

  • Mo no, Ste (e Marghe): far sparire il mondo così come siamo soliti rappresentarcelo. Anch’io possiedo una buona dose di materialismo che mi impedisce di pensare o anche solo immaginare che per un momento il mondo possa scomparire 🙂
    E il dentro e il fuori a volte (spesso) penso non esistano; penso che anch’essi siano il risultato della nostra struttura mentale alfabetica, sintattica e visiva. In realtà dentro e fuori sono la stessa cosa, solo che stanno (per noi) necessariamente su due sponde differenti per il semplice fatto che una si vede e l’altra no. Però entrambe accadono.
    Allora, ecco, forse è meglio: la poesia orale (certa poesia orale) accade (fa che il mondo accada) in maniera inedita. Mettiamola così. Ovvio che la stessa cosa vale per la poesia in generale.

    Luigi B.

  • che l’oralità, talvolta, faccia sparire il mondo, non è bene, ma pia presunzione. il mondo non sparisce mai, ma ci bussa dentro e ci percuote, spingendoci fuori. il narcisismo intrinseco in alcune esibizioni finge di non sapere questo (e talvolta non lo sa davvero).

    ci sono tanti modi di mettere in scena o in ombra la voce: basta ascoltare la bellissima collana di poesia sonora Baobab, dove tra l’altro nel 1991 pubblicai un testo eseguito assieme a Giacomo Bergamini (che non si pensi che sono nuovo in questi temi!)

    ciao a tutti anche all’anonimo/anonima del primo commento.

  • ops, sorry: “se la poesia orale facesse sparire il mondo come fosse un mago”…
    (devo imparare a rileggere prima dell’invio)

  • poi stavo pensando che la poesia orale mi facesse sparire il mondo come se la poesia fosse un mago, beh, da materialista quale sono mi prenderebbe un colpo…:)
    così
    ho detto voce-demiurgo, ma preferisco dire voce fabbro, che forgia e modella la materia calda anche a costo di scottarsi.

    l’abbraccio che avevo dimenticato

  • Luigi, Bene è uno di quei “pochissimi casi” ai quali pensavo.

    sulla differenza fra poesia performativa e poesia orale, credo siano cmq due insiemi non disgiunti, ovvero che ci sia una intersezione che non esaurisce né l’uno, né l’altro insieme.

    Su questo passaggio: “credo che la poesia veramente orale riesca a farlo sparire il mondo”, invece dissento, il “re-citare come se fosse sempre nuovo” di Bene io lo intendo come voce demiurgo, ovvero il “nuovo” come ricreato, voce che dà forma al mondo nuovamente contenuto.

    ciao

  • “A volte l’oralità vorrebbe che il mondo sparisse”

    Di tutto l’intervento, questo mi sembra il nodo centrale – o, almeno, ciò che a me interessa dell’oralità per come la vivo (sto cominciando a viverla).

    Ricollegandomi alla domanda/provocazione di gugl: io non parlerei di narcisismo della poesia performativa. Una poesia performativa è narcisista solo se chi ha scritto e chi performa lo è, e solo se ciò che è scritto è narcisista.
    Tra l’altro personalmente credo ci sia differenza tra poesia performativa e poesia “orale” (per come intendo io l’oralità): una poesia performativa è stata pensata e scritta secondo le regole sintattio-grammaticali del senso (poetico o no) per essere declamata e gioca molto con la seduzione; una poesia orale è stata scritta dopo esser stata pronunciata, scritta diciamo dal suono, scritta a posteriori con l’intento/obiettivo di riprodurre il ritmo prosodico della pronuncia di… “qualcosa”. Diciamo che la poesia orale è quella che riesce a soddisfare una specie di primitiva necessità nomotetica insita, per qualche strana ragione, nell’uomo.

    Più che un desiderio, credo che la poesia veramente orale riesca a farlo sparire il mondo – il suo senso, scritto, logico, frammentario come la sintassi e l’alfabeto di cui ci serviamo per scrivere. Per questo una poesia performativa non è una poesia orale: la poesia performativa riproduce il senso, il significato, il mondo appunto, attraverso la pronuncia delle parole e attraverso una grammatica orale, fatta di tono, timbro etc., che trasporta anch’essa un senso; una poesia orale non viene performata, probabilmente non viene nemmeno letta. Diciamo che si avvicina molto al discorso di Bene quando parla di re-citare, leggendo, come se fosse sempre nuovo. Diciamo che si avvicina molto alla oralità di Ida Travi (per me radice dello stimolo che mi ha fatto avvicinare e riconsiderare l’oralità in maniera differente).

    Luigi B.

  • scusate il cambio di soggetto (le avverto sono le performances, le voci..) e altre godurie di orrori…

  • Stefano, se mi dici “narcisismo”, tanto più, “narcisismo ostentato”, mi induci a darti ragione :)- No, un poco scherzo, ti dico cosa ne penso della poesia performativa in generale.
    Non ne ho una vasta esperienza, inoltre molta (di questa poca) non dal vivo, ma da riproduzione video-audio

    A parte pochissimi (e grandi!) casi, le avverto quasi sempre come deformazioni che non riprendono e allargano il bordo della voce originaria per includere appunto la propria voce che parla-canta (e questo indipendentemente che ad interpretarle sia l’autore stesso o un altro). Insomma, spesso, non generalizzo, mi sembrano voci dell’ a posteriori, del senno di poi poetico, rispetto alla poesia che dicono. non un essere insieme. Non so se mi spiego. Attenzione, l’atto performativo può risultare senz’altro bello, esaltante, creativo, unico, ecc—mettiamoci più di un aggettivo :), ma raramente, ripeto ci sono dei casi!, è là dove è la prima voce. Questa però è la mia sensazione orecchio (duro), che di fatto per la poesia (quella che riesce a sentire a malapena) ha bisogno di un silenzio proteso.

    (E, sì, credo che anch’io “amo il tiro con l’arco”, farsi condurre al centro dal respiro e non puntare a condurlo a sé o centrarlo con un che di spasmodico, se vuol venire viene…ascoltare più che dire o agire…)

    ciao

    Sarà che io la poesia la associo al silenzio

  • Bello questo dire del seme vocale che magari si sparpaglia come un soffione o viceversa scritto diventa seme coriaceo che sta per molto prima di germoglio.

    In particolare plaudo a questi due ottimi:
    “Bella l’oralità perché figlia delle quattro direzioni.”
    “L’oralità è Pinocchio quando vende il libro per seguire le voci che ha dentro, la più profonda delle quali dice: qui si muore.”
    (oltre alla messa in evidenza della sillaba OR[..] come “dire in anticipo”)

    Un caro saluto

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