Frammenti di un discorso vuoto. La “non poesia” di Alessandro Broggi

 

di Stefano Guglielmin

Il legame fra i “non-testi” di Broggi ed i saperi contemporanei, già messo in luce da Franco Buffoni durante la presentazione di Verso i Bit,[1] viene nei commenti ripreso da Gherardo Bortolotti, che parla di «un approccio ‘freddo’», combinatorio con il «materiale preesistente», costituito da «sintagmi presenti o reperibili in ogni discorso» e fatto agire «in strategie ‘ironiche’, distaccate, anti-emotive» (comm. n.12). Che di questo si tratti, ossia del tentativo d’interfacciare il mass-mediatico con la reificazione contemporanea, che ha mutato tanto l’homo selvaticus, quanto l’individuo laico e inviolabile di stampo lockeiano, in un divuduum parcellizzato in stringhe sintagmatiche ad una dimensione, mi pare lo confermi lo stesso Broggi, nel suo laboratorio; scrive egli infatti nel commento n.22: «Ho raccolto un buon numero di versi-assioma, testandoli e scegliendoli individualmente fino a che ciascuno non funzionasse all’interno dell’idea di lingua che mi ero prefisso. Versi il più possibile neutri, e vicini a una certa lingua d’uso della ‘comunicazione deietta’; piatti ed esteticamente indifferenti, ‘indecidibili’. Poi ho preso tutti i versi e li ho ‘montati’ seguendo le strutture metriche che mi ero prefisso […] ottenendo un numero a tre cifre di distici AB e un numero a tre cifre di distici CD. Ho poi eliminato i distici che presentavano versi ripetuti, sgrammaticature ecc. Per ottenere le quartine ho infine ‘provato’ tutti gli accostamenti ABCD resi possibili da macrostrutture guida che avevo pensato all’inizio, ottenendo un numero di quartine a cinque cifre. Ultimo step: ho letto pazientemente tutte le quartine ottenute, operando a più riprese mietiture ragionate ed eliminazioni successive, e così arrivando, infine, ai testi costituenti la serie. Criteri minimi nei vari cicli successivi di scelta: la coerenza sintattica e semantica degli agglomerati finali, la consistenza semantica, lo scantonamento (ove possibile) dei ritorni fonici e il mantenimento di un linguaggio laconico, paradossalmente povero, e implacabilmente meta-mimetico nei confronti del mondo della comunicazione e dell’informazione».
Teoria combinatoria, dunque, e serialità (sulla scorta, mi pare, del serialismo modale proprio all’ambito pentagrammatico) quali strutture laboratoriali in grado di cogliere le particelle subatomiche della lingua d’uso, quei microscopici frammenti di un discorso vuoto lasciati liberi dallo strutturalismo barthesiano: «Cercavo – continua infatti Broggi – […] un’oggettività-denotatività senza accessori, un’antiletterarietà impassibile e sgombra, per cui la scrittura stessa sarebbe diventata una messa a nudo della grammatica e di certo linguaggio della comunicazione, del grado zero di una lingua media sempre più svuotata, dell’infinita polimerizzazione reale/iperreale della chiacchiera nell’attuale società dei media, che tutto e tutti determina, e della quale queste poesie si volevano rivelare infine problematico sintomo».
La destabilizzazione broggiana è dunque insita nel protocollo stesso, come accade in particolare nell’arte concettuale e in quei metadiscorsi volti a confutare, con il gesto tautologico, l’improbabile coincidenza fra verità e realtà. Azione che trae origine, mi pare, dalla crisi dell’hegelismo e che, nel secondo Novecento, ha trovato massima visibilità.


[1] VINCENZO DELLA MEA, GIANLUCA D’ANDREA (a cura di) Verso i Bit. Poesia e computer, LietoColle, Faloppio 2005

Redazione
Written By
More from Redazione Read More

Lascia un commento