Adolescenza senza infanzia: ‘I costruttori di vulcani’, di Carlo Bordini

i costruttori di vulcani

Un po’ come il vecchio Caproni, il poeta romano, classe 1938, sguscia via di continuo dall’ombra della sua stessa opera – opera ora proposta nella sua quasi interezza dall’editore Sossella. Un tempo ciclico vi presiede, uno stato di immobile adolescenza.
I costruttori di vulcani è il titolo scelto da Carlo Bordini per il libro che raccoglie (con pochissime esclusioni) tutte le poesie pubblicate dal 1975 fino al 2010, accompagnate da un’affettuosa nota di Roberto Roversi e da una bella e nervosa introduzione critica di Francesco Pontorno (Luca Sossella Editore, pp. 495, € 20,00). Tutte le poesie è ben di più che una neutra constatazione editoriale. Nella formula c’è qualcosa di solenne e anche di minaccioso. La possibilità di un’opera allude, in maniera sottile e anche perversa, alla possibilità di una vita effettivamente «vissuta», come suggerisce Roversi. Ma se c’è una cosa che apparenta strettamente una vita e un’opera è il largo margine di inconsapevolezza con cui procedono. Non esiste, per Bordini, un nucleo astratto di pensiero e di sensibilità che farebbe da presupposto e fonte perenne della scrittura. Al contrario, è la pulsione poetica che potrà dare luogo a quella che, una volta fissata sulla carta, apparirà come un’idea del mondo. «Non si scrive quello che si sa, ma lo si sa dopo averlo scritto». Parole che provengono da una breve ars poetica pubblicata nel 2002, ma che valgono per l’intera parabola creativa.
Tra i poli estremi del lungo poema e dell’epigramma amoroso, sempre sperimentando nuove soluzioni formali e tornando sul già scritto per correggerlo e magari stravolgerlo, il soggetto che vediamo all’opera in questa scrittura è sempre figlio delle sue stesse parole, della quantità imponderabile di illuminazioni ed errori che in esse si annidano. «Io non creo ma sono/creato, non/scrivo ma sono scritto,/e quindi/non sono un/creatore/ma una/creatura». Ne consegue che ben poco, anzi nulla, potrebbe dire di sé questa identità, immaginando di non avere scritto, di essersi astenuta dal salto nel buio che per lei rappresenta la poesia.
Da questo punto di vista, a parere di Bordini, non esiste nulla di più artificiale della vita di un poeta, macchina retorica impegnata nell’interminabile creazione di se stessa. Nell’idea della macchina (declinata in molteplici variazioni) il soggetto e l’oggetto, il padre e il figlio, l’esperienza e la coscienza coincidono perfettamente, mentre lo stare al mondo, con tutto il suo corollario di fenomeni fisiologici e psicologici, si configura una volta per tutte, e senza possibilità di appello, come un’invenzione – la suprema finzione di cui parlava Wallace Stevens. Una conseguenza capitale di questa filosofia è che le stesse leggi fondamentali dell’esistenza vengono radicalmente sovvertite. Ancora più che nelle singole raccolte, è in questa opera omnia che ci rendiamo conto senza possibilità di dubbio che la scrittura di Bordini non è mai stata un riflesso del fatale, ma tutto sommato rassicurante, succedersi delle età della vita. Se il nevrotico, stando a un’illuminante scoperta di Freud, non smette di organizzare in una specie di romanzo i contenuti della sua esistenza, il soggetto che si mette in scena in queste pagine agisce sul versante opposto – quello della psicosi. Producendo tutto se stesso a ogni atto di parola, vive nella ripetizione e nella discontinuità. Se è sensibile a un aspetto del tempo, come metafora o possibile scenario del suo monologo, si tratta del ciclo delle stagioni, e non di quella irreversibile linea retta che fa della vita un prima sempre contemplato da un dopo.
Non sarà un caso se molti critici hanno constatato nella poesia di Bordini uno stato di immobile adolescenza che non proviene da nessuna infanzia, e non fa da preludio a nessuna maturità. Significativo è un aneddoto ricordato da Francesco Pontorno a questo proposito. Nel 1975 apparve, ciclostilata dall’autore, la prima raccolta di Bordini, Strana categoria. Col suo abituale fiuto, Enzo Siciliano la recensì sul «Mondo». Il critico, nato nel 1934, e il poeta, nato nel 1938, erano quasi coetanei, ma Siciliano attribuì quei versi a qualcuno di una ventina d’anni più giovane. E una raccolta completa come I costruttori di vulcani ripropone ad ogni pagina i motivi profondi dell’equivoco, sottraendosi con grazia e ironia impagabili a ogni sospetto di monumentalità, di vita-in-versi come progressiva acquisizione di saggezza. Viene in mente l’abito mentale del vecchio Caproni, impegnato fino all’ultimo respiro a rilanciare, a sgusciare via dall’ombra della sua stessa opera.
Se l’atto poetico produce il poeta con tanta radicale assolutezza, non lasciando il campo a nessun presupposto, a nessun sapere collocato a monte, è chiaro che le varianti, «infinite» e «bovaristiche come i sogni d’un impiegato», assumono un significato del tutto particolare nell’opera di Bordini. Da un lato, una minima correzione, com’è giusto che sia per chi procede ignorando senso e scopo di ciò che scrive, può generare conseguenze addirittura catastrofiche, come fanno due sentieri che, divergendo in maniera quasi insensibile, finiscono per condurre a luoghi lontanissimi tra loro. Ma ancora più importante è un altro aspetto della questione. Variare e correggere, per Bordini, non implicano mai l’avvicinamento a un’ideale perfezione. Nulla può essere scartato, e nulla testimonia di un ‘meglio’ che non esiste. Quasi identiche, le singole versioni di una stessa poesia vengono riproposte come tali, una accanto all’altra, producendo un singolare effetto, come una rifrazione priva di una luce originaria.
I costruttori di vulcani è un’opera unica, inclassificabile e memorabile come solo la grande poesia riesce a essere. Poesia sommamente politica, bisogna aggiungere, la cui efficacia è garantita proprio dal fatto che il soggetto che la articola non sa mai nulla di ciò che sta per dire, parla sempre per sé, non attinge a un sistema di valori preventivamente disponibile, reagisce all’orrore del mondo senza mai collocarsi su un gradino morale superiore. Grande fagocitatore di linguaggi per loro natura impoetici, Bordini a volte sa ottenere un massimo di raccapricciante evidenza attraverso minimi scarti della mimesi verbale: così in Epidemia, dove riproduce le notizie dei giornali riguardanti la catastrofe della cosiddetta ‘mucca pazza’, ma sostituendo la parola «schiavi» ai più neutri e burocratici «capi di bestiame». In altri casi, come negli apocalittici Diritti inumani, la tecnica consiste nel condurre la razionalità del discorso giuridico-costituzionale fino a un grado di intollerabile follia e disperazione. Istintiva e non mediata da nessuna ideologia, in Bordini, è sempre l’identificazione con le vittime e gli scarti del divenire storico. Come in quel lacerante resoconto dei miti infranti della gioventù e del loro inaffidabile retroterra emotivo che è il Poema a Trotsky: «Mi rannicchiai nella tua ragione, perché avevi ragione,/ma tanto, era ormai una ragione sconfitta, e così,/vivevo nella parte di dietro della storia, e stavo comodo./Nessuno poteva disturbarmi. Tanto ormai tu eri morto».
Rimeditando una celebre antitesi – «socialismo o barbarie» – Bordini scopre nell’«ottimismo rivoluzionario» un’ulteriore finzione, la maschera di una ben più oscura pulsione a contemplare l’immane catastrofe di un mondo che inarrestabilmente «scade verso la barbarie». È sempre, quello di Bordini, un linguaggio politico impuro, perché nutrito e contaminato da ciò che non conviene pensare, e in ogni caso non dovrebbe essere detto. Ma non c’è scampo a una verità che affiora con il movimento stesso dello scrivere. «Sono molto diverso da quando ho cominciato questa poesia», dichiara l’antico seguace congedandosi dal fantasma di Trotsky. È ciò che accade ogni volta che l’adolescente, l’eterno apprendista della disperazione, si rimette a scrivere. È un metodo e un limite – il sigillo di un’autenticità rara e preziosa che non si dimentica.

(pubblicato su Alias n. 30 del 24/07/2010)

Emanuele Trevi
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