Giovanna Frene – una nota di Giovanna Rosadini

 

di Giovanna Rosadini

Per Amelia Rosselli “Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere”. Se è vero che la Rosselli è “la maestra di tutte”, per usare le parole di Maria Grazia Calandrone, allora si può senz’altro rilevare, come primo elemento di questo volume, la forte tensione conoscitiva che ne permea i versi: […] ancora, la riflessione di Giovanna Frene sull’impertinenza e il problema del male, tema presente anche nella poesia di Laura Pugno, per quanto diversamente risolto (se l’esistenzialismo tragico della prima si apre a una tenue consapevolezza e responsabilità che ci permettono di prenderne distanza (come conferma l’ultima raccolta, Il noto, il nuovo), la seconda ammette […] la possibilità di felicità e pienezza nonostante il male); […] […] Il conterraneo Zanzotto è invece il mentore amatissimo di Giovanna Frene, che lo riecheggia nelle scelte morfolessicali e ne accoglie le suggestioni in fatto di poetica, con particolare riferimento a Galateo in Bosco, me se ne allontana per “un insistito espressionismo stilistico (nella forma di allitterazioni, nessi consonantici aspri, ardite composizioni neologistiche ecc.), riconducibile alla grande tradizione espressionista europea, e un’adesione spesso quasi immediata alle forme della poesia pensante heideggerianamente intesa ( con il suo corollario di andamento aforistico e assertivo)” (Paolo Zublena). Tendenza confermata nella sua già citata raccolta più recente, in cui evidenzia i temi di colpa e simulazione partendo da un’analisi di fatti storici come nazismo e terrorismo (Shoah e crollo delle Torri) indagati nella  loro natura ontologica e atemporale, psicologica e sociale: una fabbrica di dolore, un dolore inestirpabile dal mondo e ineludibile, affrontato stilisticamente con una modalità frontale, affermativa, per quanto il linguaggio richieda di esser decrittato e nulla conceda all’immediatezza e allo spontaneismo. Tempra che appare più sfumata nella precedente produzione della Frene (Immagine di voce, Datità), peraltro dotata di un carattere deciso, ma che spesso tende a sciogliersi in una cantabilità liturgica, una litania generata dall’ipnosi sonora che lega i versi. […] […] Anche il farsi poesia civile della scrittura di Giovanna Frene, la riflessione sulla natura del potere e della storia contenuta nella sua ultima raccolta, è un dato accomunabile al tema del ruolo dell’io lirico nella produzione poetica odierna. Ma a questo proposito si possono citare le parole della stessa autrice: “La presenza della memoria è stata sempre centrale nella mia poesia. Ho sempre descritto fatti attraverso il linguaggio – dipende cose si intende per ‘fatti’ e per  ‘descrizione’. Ognuno di noi scopre a un certo punto di essere portatore di una ferita, o trauma, o colpa, che ha ereditato. Questa scoperta, che porta alla scrittura, col tempo si allarga sempre più, dalla propria vicenda singola porta alla vicenda collettiva, come in una sorta di movimento di cerchi concentrici. Questi cerchi concentrici portano alla progressiva scoperta dell’altro, cosicché davvero ‘non parliamo mai di altri, ma sempre di un noi’ (H. Epstein). Dunque, la poesia, nello sviluppo della sua piena maturità, dovrebbe arrivare a incarnare l’empatia con il mondo. Tutto ciò che è disumano e insensibile, infatti, è alieno dal poetico” (G. Frene, in Poeti degli Anni Zero).

[Dalla ‘Nota introduttiva’ di Giovanna Rosadini a Nuovi poeti italiani 6, a cura di G. Rosadini, Einaudi, giugno 2012]
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