C’è bufera dentro la madre – una lettera dal futuro

 

Madrid, 28 Aprile 2075

Se decise di cominciare dalla merda è perché doveva essercene in abbondanza – o di corpo, in quegli anni. Oppure, la merda solo rappresenta una primitiva nostalgia – del corpo, dico – che ebbe inizio in quegli stessi anni del delirio della specie, come una intuizione.

Rovistavo in soffitta tra le cose del nonno e in una cassa, sepolto da una quantità amazzonica di libri carte e scartoffie, accanto ad una YOST Typewriter n. 20 impolverata, ho trovato in un cartone questo aggeggio da museo, con monitor e tastiera ancora funzionanti, con cui sto scrivendo a vanvera ora, senza sapere bene perché o per chi.

Ho cominciato a tirar fuori i libri ed i volumi dalla cassa, cercando di incolonnarli secondo quell’ordine che, guarda caso, avrei bisogno di dare al più presto alla mia esistenza. Non riuscendo a trovarne alcuno, mi sono arreso piuttosto presto e, senza risentimenti, ho cominciato a spolverare meccanicamente le copertine, per poi abbandonarle nel primo rettangolo libero del pavimento, mai più distante della lunghezza del mio braccio.

Sotto la polvere il titolo era C’è bufera dentro la madre. Più di cinquant’anni fa. Ho riconosciuto la promessa dal titolo, la profezia, la potenza. Poveri figli, ho pensato – povero me.

Qui fuori è un casino: mia madre è pazza, la terra trema e quella troia mi ha pure lasciato. Comincio a leggere della merda e penso: nessuna metafora oltre la metafora. D’altronde, nemmeno somiglia a un vezzo: bisogna immaginarsela la scena: il ventre sguinzagliato che rilascia monetine come ploff, ploff, ploff. E profumo, anche. E poi il ramo, appesantito e senza frutti, che s’affloscia a testa in giù come se volesse suicidarsi, suicidare la specie nonostante irrimediabilmente qualcosa lo tenga ancora legato al corpo che gli fuoriesce da dietro, riversandosi sulla tazza del cesso come una escrescenza oscena.

Tutto questo corpo ha un effetto nauseabondo: forse perché non sono abituato ormai, con i chip impiantati fin dentro l’ippocampo. O forse perché è un corpo senza la ghisa su cui tutto cresce. All’improvviso, è come se lo sentissi, come se ne recuperassi gli ostacoli, i confini, le bassezze.

Questa la storia, il dramma: si tocca continuamente il ramo e m’immagino i sussulti dell’adipe flaccido della scrofa col fuscello che si sbatte la balia straniera irregolare, nella stanza appena riordinata, insudiciata da sconfinati grugniti.

Alzato il livello del mare, gli si stirano solo le pieghe del cazzo, perché il grasso in eccesso, se c’è, non lo toglie nessuno: il corpo grava, infatti. Però lui non lo vede, o fa finta, e nemmeno alle ceneri smette di ingrassare. Anche se capisce che la vita svacca, si sente bene, salta di lato e affoga col ramo nei suoi trentasei secondi di gloria sfiatando pressione, mentre gode.

Ha una moglie a cui di rado mostra la piaga: la vorrebbe perfetta e non accetta che scolori via via: coniuga per questo i verbi al presente, ma lo scarto si vede: non funziona: l’animale lo squassa da sotto, ha bisogno d’altro.

Mentre leggo mi chiedo chi sia questo abominio che unge le buste ai tavoli e semina piombo, e poi la domenica versa l’acqua sul capo, filtra l’anima in parrocchia.

All’improvviso ricordo la storia “politically correct” studiata a scuola e le aneddotiche pause dall’Alzheimer del nonno e mi chiedo se non stia leggendo ora una fenomenologia del soggetto degli anni del berlusconismo.

Io non c’ero, però so che provengo da lì: so che sono il figlio di una balia irregolare e che mio padre ha sepolto la sua maschera buona nel bosco; so che chi mi ha preceduto avrebbe voluto giardini intorno, e invece ha fatto crateri. So anche che talvolta gli cantava una festa nel ventre e che non la sentiva, e che talvolta gli si insinuava un larvale tormento che non fu sufficiente; so che strisciava sul colmo del bene quando smetteteva di stare a vedetta, ma senza affondare.

So che con in capo l’elmo a credito e indosso la spocchia di chi ha i numeri migliori, chi mi ha preceduto ha fatto la festa a tutti, mangiando, e le pulci ai beni; ha pagato da bere ai cani.

Ora so che se avesse studiato i modi finiti ed infiniti di spinoza; se avesse insabbiato il perno che lo lega alla pancia del denaro; se avesse saputo che il crepo è totale, che smangia i bordi anche al nido; se solo insomma avesse inorridito, forse mia madre non sarebbe stata pazza mentre fuori tutto trema.

Il nonno era buono e non ha fatto niente – il nonno era buono?

Ora, torna indietro e rileggi, dice il libro. Il nonno forse non l’ha fatto; il nonno forse non si è accorto che si parlava di lui o ha fatto finta: ha chiuso il libro, ha sospirato. Per questo io ora sono l’incarnazione della profezia, della promessa: c’è bufera dentro la madre – poveri figli, povero me.

(pubblicato su Blanc de ta nuque. Tutte le parti del testo in corsivo sono state prese dalla raccolta di Stefano Guglielmin)

Luigi Bosco
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