Lettera di Cesare Milanese a Flavio Ermini su ‘Il secondo bene’

 

Caro Flavio,

sono ammirato del tuo libro e butto giù qualche appunto, come viene viene. È un testo che va letto “sulla frase” come se non si dovesse andare oltre a essa (come se non fosse necessaria l’aggiunta della frase successiva, che invece lo è, ma in un secondo momento).

C’è, pertanto, l’idea che ogni frase basti a se stessa, contenendo essa virtualmente tutto il libro. Un libro pertanto a struttura “autosimile”, che per di più ruota sempre intorno a un solo concetto centrale (il secondo bene). Un concetto unico che viene costantemente confermato ed esposto in una miriade di sfaccettature (tanta quante sono le “frasi” di tutto il libro). Confermato per essere esposto e proposto alla meditazione, che di volta in volta deve soffermarvisi. Il libro, per questo aspetto si presenta come un organismo fisso e immobile: fermo. Fermo e ripetuto per oltre 200 pagine, compreso il frontespizio, ma soprattutto l’indice, che è esso stesso una “sequenza” di “frasi” che si pongono come enunciati letterariamente compiuti, che si devono, pertanto, leggere come tali.

Ogni punto del libro fa punto fermo e si connette con tutto il resto. Si faccia questo esperimento fondamentale: si legga uno “squarcio” a caso in qualunque pagina e ci si sposti stocasticamente su qualunque altro “squarcio” di qualunque altra pagina. Ebbene il continuum si ristabilisce sempre nella stessa risoluzione, nello stesso intento, nella stessa concettualizzazione, nella stessa formalizzazione. Il che comporta, per tutta l’opera, un’unità strabiliante.

E qui c’è una forma particolare di lettura-interpretazione che s’impone: come nel Talmud sul singolo paragrafo. Letto, meditato e riposto. Per una sezione di tempo da meditazione può bastare: paragrafo per paragrafo, appunto. È la struttura del libro che ne consente la consultazione nel tempo, con distacchi temporali, senza dover perdere mai la continuità del “detto”. Composto com’è, entro la geometria di grandi capitoli (XVIII), che contengono piccoli capitoli, altrettanto “titolati” come i grandi capitoli, la sua lettura (come la sua composizione) si delinea come una mise en abîme in successione.

Colto da quest’altro punto di vista, allora il testo, che ci è apparso fissato e immobile, acquista allora l’aspetto della mobilità e anzi della velocità da vortice. E questo doppio aspetto, quello dell’immobilità e quello dell’estrema vorticosità (circolare, ben s’intende) viene a costituire l’aspetto più stupefacente del libro. Che è – per il suo tema insistito: la meditazione sul punto estremo del secondo bene – un libro tremendo. Il coraggio a occhi fermi e asciutti ne costituisce l’eroicità. Espressivamente si coglie che qui il lirico assume le connotazioni del discorso tragico e lo esplica interamente sia come tragico e sia come lirico.

Qui non c’è nessun personaggio-guida, se non l’io di ciascuno (e qui s’intende l’io di ogni lettore: mai così direttamente è dato di cogliere il detto del de te in fabula narratur) e con questo “estremismo” si può citare un solo esempio di personaggio estremizzato sulla soglia dell’estremo nella storia della letteratura: il sant’Antonio della Tentazione di Flaubert. Ma per il resto è tutto una “deduzione” heideggeriana in modello operativo wittgensteiniano: lo “schema” del Tractatus preso come modello del discorso letterario.

E da qui si potrebbe dar l’avvio a un elenco dei “temi drammaturgici dell’esistenza” che il libro contiene. Elenco di res et nomina asintoticamente interminabile nel suo continuo ritornare circolarmente su se stesso, in “forma di rosa”: anche a nastro di Moebius, che è un’altra forma di modello scientifico adoperato come modello estetico.

Con i più cari saluti,

Cesare

Redazione
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