Lo strazio della trasparenza – una nota di M. Ercolani su Alessandro Ghignoli

 

di Marco Ercolani

 

Lisca conficcata / tra carne e ossa, / pastoso deglutire / di soggetti e predicati, / liscia a tastoni / purezza violenta e tranquilla / cattura e consola / tra nome e immagine (1).

In questa ricerca carnale della materia poetica, “tra carne e ossa”, “tra nome e immagine”, si sviluppa con affilata e ritmica intelligenza la poesia di Alessandro Ghignoli (Pesaro, 1967), ispanista e poeta. La “mammalingua” della poesia è un occhio aperto e chiaro sulle zone arcaiche della lingua, sui suoi scarti ritmici, sulla frammentazione e molteplicità del soggetto scrivente. Come scrive Daniele Santoro, l’arte  di Ghignoli è “una poesia di rigoroso impianto che presuppone, da parte del lettore, il possesso di una conoscenza adeguata sia della nostra tradizione sia degli esiti più recenti della poesia moderna”. Ma Ghignoli sorprende il lettore perché il suo linguaggio è ondivago e fluttuante, borderline fra poesia e prosa; una poesia che rispecchia e ripensa, nella sua vertigine riflessiva, le proprie strutture, attingendo ad arcaismi, ispanismi, cantilene, e una prosa che non è né “racconto” né “poème en prose”, ma naturale sviluppo di una rigorosa logica della composizione, di una scabra e musicale fermezza stilistica.
Accade spesso che alcuni poeti, impegnati a lavorare il loro linguaggio come ardito “experimentum”, stilino, alla prova dei fatti, un esercizio cerebrale, innocuo, sostanzialmente noioso, che dopo le prime pagine scopre le carte del gioco e si “avvita” su se stesso. Non accade mai in Ghignoli, che scruta con passione temperata (da Suite bachiana) i ritmi e le innervazioni della lingua, affilandola verso soluzioni mai consolanti.

Se la carne non fosse carne, ma un passato liquido da bere tutto d’un fiato. Se il corpo fosse questo passato, allora, forse solo il presente potrebbe avere possibilità, essere praticabile. Ma il presente è un attimo petroso, eterno ed impossibile, come quel mio sonno falso. Ingannatore (2).

Nella prosa di Ghignoli è facile ri-trovare la visionaria stupefazione di un io molteplice, “in costruzione”, che fluidifica e raccoglie le sue percezioni come in stato di trance. Ma è una trance non inconsapevole, ma sempre dominata dal rigore dell’espressione e dalla logica del  pudore.
Sulle tracce della più stilizzata musica contemporanea, da Bussotti a Sciarrino, l’autore ci parla di una lingua che viene dissolta dall’attraversamento delle stesse parole che la fondano. La sua poesia è un oggetto che non può essere né definito né raccontato: sfugge, come la traccia fantastica di un passaggio alieno

quanto è nuovo il nuovo in cui cancellarsi nella dissoluzione continua la litania dei canti ripetuti il fruscìo dell’assenza allo specchio attraversare la vertigine se abbandonarsi è ridurre ogni pronuncia  l’opaco spessore del dire (3).

Vorrei soffermarmi su questo “traversare la vertigine”, che è anche un compito del “traduttore” (Ghignoli è raffinato traduttore di poeti di lingua ispanica, da Juan Gelman a José Angel Valente). Il traduttore traghetta, “transduce” una lingua verso un’altra lingua, aprendo fessure nel linguaggio. Quasi fosse proprio questo il compito della poesia: scavare crepacci ma offrire nodi e corde per sostare lungo il precipizio.
Ghignoli insegue un suo strazio sottile, acuminato: la trasparenza.

Ogni parola è l’ombra di un’onda. Il presente nel passato che si crea nonostante il dire (4).

Ispirandosi alla poetica di John Cage, il poeta parla di litanie lettere toni graffiati che lasciano segni chiusi in combinazioni di respiro in filtri del pensiero. Alessandro è maestro in questa arte del “filtrare” una lingua già ridotta all’osso della sua significazione e delle sue risonanze e nell’offrircela in sequenze musicali che corteggiano il senso e il suono come amanti entrambe estranee ma necessarie.

Quando mi ritrovo è perché non so cercarmi, come un colloquio ritmato da respiri per dare aria alle parole, per riempirle di verità impossibili, indicibili. Dietro c’è quello che abbiamo lasciato, un gioco di vele sul mare aperto, un vento largo che spazza via dove ora siamo. E se questo laboratorio che è vivere non fosse altro che un posto lungo una linea parallela alla sua ombra, a che servirebbe questo inventarsi ripetuto?(5)

La  malinconia profonda di Ghignoli suggerisce analogie con le riflessioni di Pessoa e le speculazioni di Leopardi su quella che è la sostanza della poesia stessa: vivere in un posto che è “parallelo alla sua stessa ombra”, abitare una vita insidiata dalla sua dissoluzione ma non rinunciare a descrivere questo spasimo, questo attimo, in una tormentosa “scienza degli addii” (Mandel’stam). Ghignoli parla di un’alea consapevole del linguaggio, di un sogno della lingua davanti al quale il sognatore è sveglio, sì, ma anche estraneo e controlla il flusso di coscienza delle immagini o attraverso improvvisi arcaismi o modificando il ritmo della sintassi, franta e imperfetta ma sempre orientata, come accade in alcuni “corpi celesti” della musica maderniana.

Lo scrivente: l’intruso. Senza permesso, con la frusta della parola a conoscere l’agonia della scelta, il labirinto del cambio.
L’unica uscita. Il canto del ferro nel legno, la voce dell’acqua sulla roccia.
La luce sul palmo della mano.
Riscritto per non lasciare sola la parola, per non farla suprema.
Per lasciare il segno, per il tentativo, aggiungere qualcosa all’altro, far andare il bisbiglio.
Il respiro.(6)

Se commentiamo queste parole non leggiamo solo un poeta contemporaneo che indaga gli strumenti del suo operare. Qui uno scrittore afferma di essere “l’intruso” – dilemma che all’ironico Walser e al pensoso Quignard è assai familiare. Lo scrittore è un eretico, un “senza permesso”, e l’agonia della sua scelta è “far andare” il bisbiglio, trovare una giusta direzione espressiva per il proprio “difforme” respiro. Celan intitolava un suo libro di versi Svolte di respiro. La lezione celaniana è inscritta nella disperata ma sorvegliata semiafasia di Ghignoli, a cui preme “ciò che resta” del gesto poetico.

non so se farcela / a rinunciare al desistere dell’esistere / all’astenermi di un pensiero tuo / di un tuo abbandono di esso / mi nego il dipoi e guardo verso lo cielo / a inveire contro i destini contro / mentre li occhi miei piangeano di vere lagrime / m’annego nel ricordo sotto lo oscuro / e senza colore sotto il peso denso dell’aria / nel diniego di un dopo da avvenire (7)

L’arcaica tenerezza del ritmo, il fluire lieve del discorso, un uso costante della dissolvenza, rendono questa poesia pudica e inflessibile, sigillata come le dita dentro la mano.

tutto di tutto sento e in tutto mi pento / dalla rabbia dal pensare che non è ricordo / ché memoria non è storia forse sabbia / dentro il dentro un foro da dove da come / ogni tanto ogni quanto è concesso errare / nell’evento sul bordo o solo da solo nel centro / perché di presenza presente ne la rinuncia / rasento il passante pendente passaggio / in chissà quale coro quale ovunque / mi credo altrove anche fuori / anche fosse ancora (8)

“Crearsi altrove”: questo fa il poeta. Crearsi in “chissà quale coro”. Vien in mente il titolo di un antico libro di Cesare Viviani: Cori, non io. Titolo eccellente, che dice come l’urgenza del poeta sia quella di descrivere non ciò che connota il suo ego, ma ciò che fin dall’inizio è la messa a morte dell’io scrivente. Ghignoli insegue, come in un labirinto prospettico, le fughe infinite dell’io, il suo interminabile esilio.

La lingua è sempre un esilio, un luogo, un orizzonte di speranza. La lingua è lo sfregio del trovato, del pensante. È la porta.
Cercare le lingue, la loro fuga, il mistero del vuoto, tutto lo spazio dentro. L’uscita rimasta.
Nel narrante: il poetare. Nel dire: transducere, attraverso la fessura lasciata respirare. Così ri-darsi. Semplicemente ricevere (9).

In questo “ricevere” c’è anche tutto il dolore della vita, il lutto pudicamente espresso, tra i veli delle parole, per un amico tragicamente scomparso, che i versi di Ghignoli evocano con “amaritudine”, citando la sua stessa voce. ”Riconoscere chi ti è amico è la prima scienza”: sono le parole di Marco Amendolara che, nel suo più recente volume di versi Amarore, Ghignoli mette a epigrafe della sezione che ricorda proprio l’amico assente. E che evoca di nuovo, in un frammento da Plurimi sonori, raccolta ancora inedita:

un’ipotesi di
parziale passato
nell’intimo comprendere
il tracciarsi
la separazione quasi
il
dicibile
un doppio nome (10)

Un’ambiguità irriducibile, la traccia appena visibile di un passaggio, “quasi il dicibile”: ecco il gesto di Ghignoli.

Il testo è una ferita, a volte il gesto ne è l’arma. L’origine di un’eco caduta in un pozzo, il germoglio di ogni scrittura: l’altro: una memoria che sceglie e definisce.
Il differente simile all’unico.
[…] Dalla stessa immagine si divide l’incontro dall’oggetto. L’ordine di una parola, il suo riposo.
Brucia lo specchio dell’inaccessibile. Tutto è un fatto, un poter tornare. L’arrivo è una meta, un
monologo tra l’io e il proprio io.
Interrogo e non smetto di sapere che il riflesso è la possibile lingua. La proiezione del corpo nel corpo (11).

Indugio ancora per un attimo sulle riflessioni di Alessandro, perché sono illuminanti nel farci accettare la “diversità nella somiglianza” e questo inesauribile contatto con l’altro. Il poeta è come straniero al suo stesso percorso: cerca di fissarne i bordi, fallendo sempre. Aspetta il deserto, che presto dissolverà le tracce delle sue stesse parole. Il riflesso è la sua lingua, la sua ferita. Rimane, eroe-antieroe, fermo nella fragilità della sua scrittura, dentro le sue “impronte registrate”. Come se, alla fine, il suo gesto di scrivente fosse dettato dalla parola stessa, ne fosse l’eco visionaria, stranita e immobile.

Non c’è risveglio, corsa, evidenza possibile. L’orizzonte è la gabbia, la lenta cerimonia del girarsi.
Si ripetono le domande, sono frammenti chiusi nel reticolo.
Il dubbio cede il passo, si distacca, ripercorre lo scrivere, il suo istante di pericolo o di perdita.
Non c’è altra follia possibile, non c’è differenza più diversa che il rumore nell’orecchio, che la scelta ineguagliabile (12).

L’io dell’artista è un io “musicale”, che registra un certo tono, un io lontano da ogni retorica visibile del dire, e che lascia dietro di sé, con noncurante e sconfortata eleganza, solo certe scie di parole che evocano un ellittico monologo interiore.

Concluderei queste brevi riflessioni non con la parola di Ghignoli ma con quella di un poeta da lui tradotto, che sembra parlare, non a caso, con la sua stessa voce. Ogni voce di poeta è un’eco nel vuoto dell’aria: unica variante, il ritmo musicale della sua coscienza, i movimenti segreti del suo corpo, la “grana” della voce.

Sono debole. Non so dove appoggiarmi. Vuoto è di ogni essere l’aria. Non ci sei. Non ci sono. Che giratorio corpo quello del nulla.
José Ángel Valente



 

Note

1) La prossima impronta, Gazebo, Firenze, 1999, p. 33.
2)Silenzio rosso, Via Del Vento, Pistoia, 2003, pp. 8-9.
3)Fabulosi parlari, Gazebo, Firenze, 2006, p. 34.
4)Transmediazioni. Lingua e poesia, Kolibris edizioni, Bologna 2011, p. 94.
5)Silenzio rosso, op. cit., p. 22.
6) Transmediazioni. Lingua e poesia, op. cit, p. 96.
7)Amarore, Kolibris, Bologna, 2009, p. 33.
8 )Amarore, op. cit., p. 51.
9) Transmediazioni. Lingua e poesia, op. cit., p. 93.
10)Plurimi sonori, inedito.
11) Transmediazioni. Lingua e poesia, op. cit., p. 94.
12) Transmediazioni. Lingua e poesia, op. cit., p. 97.

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