La buona poesia n.6: Michele Ortore

 

Quando mi trovo davanti una poesia, la prima cosa che mi viene in mente è questa: quel linguaggio deve avere una sua specificità, deve farmi pensare che quelle immagini e quelle idee non si sarebbero potute esprimere altrimenti se non attraverso quello strano equilibrio fra spazi bianchi e pieni, fra pause e vette ritmiche. La prova più banale è controllare se, annullando idealmente la formattazione della poesia e disponendo tutti i versi su un unico piano, come se avessimo insomma a che fare con la prosa, quel testo perde davvero la sua qualità, oppure se continua a funzionare anche così. Nel secondo caso, penso di essere di fronte a uno dei tanti autori convinti che basti andare a capo di frequente per trasformare un pensiero in poesia. Il pensiero, ecco. La poesia di pensiero oggi è merce rarissima. Troppo spesso mi sembra ci si appoggi soltanto ai fattori prosodico-ritmici:

se è vero, come dicevano gli strutturalisti, che proprio nella ricerca ritmica sta la caratteristica distintiva della poesia, è anche vero che una poesia non si esaurisce soltanto nella sua caratteristica distintiva; un po’ come l’uomo, pur distinto dalla ragione, non prescinde certo dalla sua vita animale. Mi sembra che in molti degli autori oggi considerati d’avanguardia questa ricerca metrica lasci troppo da parte il contenuto e finisca per esaurirsi in compiacimento, in gusto narcisistico per lo sperimentalismo fine a sé stesso. Con l’idea di smagliare gli automatismi del linguaggio, si finisce per cedere agli automatismi dello stile. Una poesia di pensiero, per me, mostra al suo lettore lo sforzo continuo di trasmettere un messaggio, nel senso più vasto della parola: non per forza un proponimento, una riflessione filosofica, un’idea sociale, ma anche soltanto un particolare momento di intensità, di cui però si cerchi il quid, di cui si cerchi l’essenza e si provi a condividerla con il lettore. Non sono d’accordo con chi, di fronte all’incomprensibilità di un testo, risolve il problema dicendo che l’arte dev’essere sempre enigma.

Certo, l’arte deve sempre mantenere una sua trascendenza e indecifrabilità, ma anche in questo caso la qualità enigmatica di un testo non può essere autogiustificata: l’enigma dovrebbe essere un velo di Maya, celare un noumeno impossibile da comunicare, ma di cui si senta in ogni caso la presenza. In troppi, troppi testi -di poeti, giovani e meno, anche molto celebrati dall’elite poetica- l’assenza del noumeno non ha alcunché di tragico, è data per scontata. Ci si

rassegna: ma allora perché si scrive? Nel momento in cui non c’è più un pensiero che prova ad animare il sottotesto, su quali basi si giustifica il mio scrivere? A mio parere, su una soltanto: sulle dinamiche del potere letterario, sull’essere o meno riconosciuti come scrittori adeguati ai canoni stilistici del momento. Se invece il testo è animato da un pensiero, la giustificazione fondativa è data in sé, perché ogni pensiero, a mio parere, è degno di essere comunicato a un’altra persona: evidentemente, però, non basta neanche il pensiero a fare la poesia; è in questo momento che diventa necessaria un’adeguata forma e un’adeguata scansione ritmica. Personalmente, mi sento vicino ai poeti che sono capaci di conciliare una forte adesione alla corporeità della vita con un’altrettanto forte spinta al trascendente:

Allen Ginsberg, Wystan Hugh Auden, Eugenio Montale, Amelia Rosselli, Maria Grazia Calandrone. In una poesia, ma anche in qualsiasi altra arte, deve realizzarsi quell’inesausto e instabile legame tra caos e cosmos: non deve trionfare né l’uno né l’altro. Come in Amelia Rosselli: all’evidente dominio del caos non ci si arrende supinamente, né tanto meno lo si sfrutta per ironie nichiliste (e spesso il nichilismo va a braccetto col narcisismo), ma lo si vive come una sconfitta, come una tragedia di cui il poeta si fa estremo testimone.

E proprio quest’estrema testimonianza segna la presenza, perfino nel caos irredimibile del Novecento, di una goccia di logos.

Michele Ortore
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