Parola ai Poeti: Francesca Matteoni

 

(Dedico questa intervista a tre poeti della mia generazione e cari amici Azzurra D’Agostino,  Francesca Genti e Marco Simonelli con cui mi auguro di continuare a condividere la strada)

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

La poesia in Italia sta benissimo. Peccato che l’editoria non se ne accorga. Il problema infatti non è tanto concentrato sulla qualità della scrittura o sulla sua varietà, quanto alla sua reperibilità. Da una parte c’è una grande vivacità della ricerca poetica, dall’altra la percezione di una comunità chiusa e incomprensibile, l’idea di roba stantia e noiosa. E non mi riferisco solo agli editori che non investono nella poesia. Mi fa sempre uno strano effetto il fatto che nel termine scrittore raramente rientri il poeta. Poeta, narratore, prosatore, saggista: sono tutti scrittori, lavorano tutti con le parole … ma alla definizione onnicomprensiva sfuggono spesso, nell’immaginario comune, i poeti.  Mi chiedo: saremo dunque forse carpentieri e non lo sapevamo? Da lettrice di prosa e poesia mi lascia ugualmente perplessa il reciproco ignorarsi di poeti e narratori, specialmente dei secondi riguardo i primi. Per la mia esperienza, è più facile che un poeta legga romanzi, che non che un romanziere italiano contemporaneo, con le dovute eccezioni, legga poesia. E questo, senza voler stabilire primati, mi pare quanto mai bizzarro, dato che la poesia fa un lavoro capillare sulla parola, un lavoro che mi sembrerebbe salutare anche per il buon narratore. Se per primi non leggono la poesia i presunti colleghi scrittori, non è un buon sintomo. Poi c’è la scuola. Il discorso è molto lungo al riguardo, mi soffermo solo su una questione che mi sembra centrale. La scuola è il luogo dove si impara a leggere le poesie antologizzate. A leggere selezioni, 3-5 poesie per autore, non libri di poesia. Dove insomma passa l’idea, al di là delle buone intenzioni di tanti insegnanti, che letta una poesia di un autore, letto tutto, che chi scrive poesie, non scrive libri. Invece il libro di poesia ha un suo perché, un suo “concept”, se vogliamo. Ecco, inserire tra le letture scolastiche uno, due libri di poesia, sarebbe un’ottima cosa per la salute della nostra cara amica. Sulla salute dei poeti – non sempre va di pari passo con le poesie che scrivono, credo e spero. Difficile fare un discorso generalista – io sto abbastanza bene, tutto sommato, un po’ instabile emotivamente, a tratti sociopatica, più spesso paranoica, ma non credo dipenda dalla poesia!

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Se escludo una raccolta giovanile (poesie dei 14-18 anni), a pagamento – regalo di mia madre – molto, ma molto ingenua, che comunque non rinnego perché quella ero “io” (cosa che non mi sento di dire degli altri libri che sono “se stessi”), il mio primo libro Artico, è stato pubblicato nel 2005. Non ho capito che era il momento giusto. È risultato vincitore di un concorso nazionale, la quarta edizione del Nodo Sottile, curato da Vittorio Biagini e Andrea Sirotti e promosso dall’Archivio Giovani Artisti di Firenze, che ne ha poi pagato la pubblicazione presso Crocetti. E questo riassume tutto il mio rapporto con l’editore. Per il resto: sapere di aver vinto, che ci sarebbe stato un libro è stato bellissimo. Ve lo racconto, perché si pensa sempre alla poesia come qualcosa di tormentoso e invece no, fa essere anche molto felici. Era una mattina di luglio 2004, facevo la baby-sitter a tre fratelli, quando mi telefona il responsabile dell’archivio, Daniele Ciullini. Ero già stata presente nella seconda antologia del Nodo Sottile e questa è stata per me la vera esperienza formativa – lavorare con altri più o meno coetanei, sulla parola, ideare letture insieme, scambiarci idee e consigli, diventare amici. Fare un libro nato a seguito di quella stessa esperienza era quindi per me una notizia  meravigliosa. Ho chiamato mia madre e il mio compagno. Poi ho pensato se dirlo ai bambini e ho deciso di no, che volevo tenermi quella cosa come un segreto – una sorta di magia (so qualcosa che voi non sapete), mentre giocavamo. Cosa mi aspettavo: il libro in sé prima di tutto. Dopo, con fatica ho scoperto il mondo dell’autopromozione … la poesia non ha necessariamente un riscontro immediato. E questo non è detto che sia un male.

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Non sono un editore ed è meglio così: ad ognuno il suo mestiere. Alcuni, tra l’altro, lo fanno molto bene. Transeuropa, il mio ultimo editore, per esempio, sta credendo molto nella poesia, e spero che questo gli porti un gran bene! Quello che comunque direi, se avessi voce in capitolo, agli editori in genere, è di investire di più nella poesia, citando come esempio editori di altri paesi – vedi Faber y Faber -, che non mi sembra siano esattamente in rovina. Un poeta da un editore (o da un qualsiasi addetto ai lavori) si aspetta di essere trattato come un autore e non come un’inevitabile cancrena che prima o poi sarà del tutto tagliata via.

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Non so, sinceramente, e non mi sento di fare previsioni sulla poesia di domani. Contraddicendo in parte la risposta precedente, ci sono anche editori che nella poesia stanno iniziando a credere o che non hanno mai smesso di farlo. Speriamo continuino. Sul web: il rischio è l’orizzontalità – il trovare di tutto, blog, forum, siti di poesia dove cose di qualità stanno accanto a diari intimi squadernati. È pur vero che fra sito e sito c’è differenza, ma per il neofita questo non è immediatamente chiaro … Il grande vantaggio è la comunicazione ovviamente: poter incontrare lettori e poeti con maggior facilità e poter interagire con le altre arti a costo zero (poesia e immagine, poesia e musica, video, etc). C’è un saggio interessante di un caro amico, Tommaso Lisa, sulle potenzialità, ancora non del tutto sfruttate, del web per la poesia: http://www.absolutepoetry.org/Sei-punti-sulla-rete-Sotto-silicea. Fa parte di un’inchiesta di qualche anno fa, curata dai redattori di Absolutepoetry.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Questa è una questione centrale. Credo in due tipi di comunità che dovrebbero avere dialogo e relazione: quella dei lettori e quella dei critici. A questi ultimi il compito di tracciare linee e percorsi nella produzione contemporanea. Credo anche che il critico abbia un suo legittimo gusto che lo indirizzerà verso una certa scrittura più che verso un’altra. Il rischio in questo paese è quello di confondere, e succede malgrado le buone intenzioni talvolta, le persone fisiche con le opere. Il mio auspicio è che si torni sempre e solo ai libri, che siano essi la chiave per scoprire un autore – si torni un po’ come da ragazzi quando mai ci saremmo immaginati di stringere la mano a chi scriveva i libri che leggevamo, ma ci perdevamo nelle storie, nei versi, nelle suggestioni. Sulle relazioni personali invece, trovo che facciano sempre bene gli scambi, le letture, le amicizie tra poeti e che tutto sommato ci sia ancora grande generosità da parte di questi ultimi. Io, almeno, l’ho sempre riscontrata – ci sono poeti, maestri e amici a cui devo moltissimo.

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Tutte le possibilità proposte hanno uguale valore. Il canone (ma di quale canone si sta parlando? Italiano, europeo, atlantico? Nel caso, per me vale l’ultimo e con la globalizzazione crescente anche questo andrebbe rivisto!), è necessario sebbene ognuno lo percorra con modalità del tutto personali. Tuttavia – non di solo canone vive la poesia. Vive d’esperienza, la materia prima del dire, della contaminazione con altre voci e arti, di imprevisti. Rispetto delle regole e scardinamento – non so quando provocatorio – coesistono, ognuno sceglierà la sua strada, perfino alternando i due strumenti. L’unica certezza è che la poesia ha un suo ritmo interno, la poesia detta al poeta, più che il contrario, annulla sul nascere l’illusione di un verso libero.

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Il ruolo del buon senso, come un qualsiasi altro ministro. Non ritengo strettamente necessario che un ministro della cultura debba essere anche un esperto di arte e letteratura (sebbene non guasterebbe), tanto meno ritengo che debba farne o scriverne lui stesso, specialmente visto i risultati da vomito coatto di un certo ministro dei nostri tempi e del suo degno prefatore. Ma comprendere che gestisce un potere al servizio della cittadinanza e quindi ha necessità di farsi consigliare, aiutare da chi conosce la materia, possibilmente da più di una persona per evitare una certa visione unilaterale dello stato delle cose. La cultura si promuove prima di tutto a scuola e quindi con una collaborazione forte con la pubblica istruzione – investendo nella scuola, in laboratori esterni, nella formazione dei docenti, nel creare quel contatto utilissimo che spesso manca tra docenti e poeti, scrittori, artisti della contemporaneità.
E poi finanziando festival, letture, incontri; dimostrando interesse verso le forze locali, le potenzialità di ogni territorio. Perché il paese è uno, ma i territori sono molteplici e se vogliamo dialogo tra di loro, prima di tutto vanno compresi, conosciuti. La cultura si fa con l’educazione, mi sembra il concetto più antico del mondo, ma evidentemente in questo paese non può attecchire – né a destra né a sinistra. Facevo un esempio nazionale prima (il ministro poetante, etc.); potrei farne uno locale accennando alla mia città: Pistoia, Toscana, amministrazione di “sinistra”, dove di rosso alla maggioranza dei bellimbusti che ci amministrano è rimasto solo il sangue, forse.

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Penso di aver già risposto con la domanda precedente che mi ha tirato fuori anche un bel po’ di sdegno. La scuola, la pubblica istruzione. Bisogna lavorare sulle scuole e motivare gli insegnanti, su cui con grande facilità ci si scaglia senza ricordare che nei paesi civili dell’occidente, un insegnante guadagna almeno il doppio di quanto avviene in Italia. Per esempio. Ci sono due campi fondamentali nell’esistenza di un individuo e della società in cui agisce. La sanità e l’educazione. Il secondo è quello in assoluto più importante, dato che istruzione, sensibilizzazione a certi temi, aumento della consapevolezza (dei limiti come delle possibilità), sono prerequisiti anche per una salute migliore, fisica e psichica. Gli ambiti dell’apprendimento sono molteplici, certo. Ma insisto sulla scuola. Una scuola che non formi soltanto macchine da voti eccellenti, eliminando quelle difettose, secondo questo principio, ma esseri umani consapevoli di se stessi, individui capaci di trovare la loro strada – dall’operaio, al dottore, al professore, all’operatore sociale, al vagabondo di strada, senza sentirsi soli, sbagliati e arrabbiati/rassegnati.

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Penso che un poeta possa essere sia un cittadino, che un apolide. Un poeta così come un astronauta o un venditore ambulante. Non c’è una regola fissa per nessuno. Il poeta, in quanto tale vive nella sua lingua. E certo, la condizione della scrittura è spesso paragonabile a quella dell’esilio o di una vita in terra straniera. La vita appunto delle parole che non è figlia diretta della vita quotidiana nel mondo, che spezza il flusso ordinario del tempo, la sua linearità. La responsabilità verso il pubblico è la stessa che il poeta deve avere verso se stesso: tacere, quando non ha niente che valga la pena davvero di essere detto. Un comportamento importante, secondo me, è la disponibilità al confronto con i lettori, sempre.

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Credo in entrambi, soprattutto perché spesso coesistono. Se non ho il desiderio, il “prurito”, il bisogno impellente, la poesia non la scrivo. Posso stare anche mesi senza poesie, non è una tragedia. Senza scrivere invece non so stare. E questa è anche una disciplina. Abituarsi a scrivere, un diario ad esempio, e leggere in modo quotidiano, oltre che qualcosa che amo fare è necessario alla poesia, al suo ricrearsi costante. E la solitudine. Quando invento o scrivo sono sola, anche perché se mi trovo in compagnia di altri mi succede spesso di restare a fissare il vuoto, quasi inebetita, mentre in realtà sto inseguendo la coda di una poesia. Poi è anche vero che i versi, le idee arrivano nei momenti più impensati. A me succede spesso quando cammino o vado in bicicletta. Per esempio quando stavo a Londra tanti versi arrivavano camminando nei parchi – Battersea o Brockwell o Hyde Park e Kensington Gardens, oppure le sere che restavo nella mia stanzetta, senza tenda alla finestra, e, per quanto può sembrare strano, ho sempre creduto che le parole venissero dalla pece nera che era il fuori, raggrumato sul vetro. A Pistoia invece succede dietro le mura, sulla pista ciclabile che dà su un torrente, un luogo non in sé degno di nota, ma vallo a dire alle poesie. Allora devo tenere le parole nella mente fino al foglio di carta o alla tastiera.

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

La poesia ha tanti messaggi quanti sono i suoi lettori. Con questo non voglio dire che un tipo di poesia vale l’altro, ma semplicemente difendere il testo, perfino dal suo autore. L’atto dello scrivere e l’atto del leggere la forma compiuta, sono momenti complementari, ma non assimilabili: nel primo si tenta di oggettivare un nucleo primitivo di sentimenti e idee (gli uni in contatto con le altre), farlo uscire dall’io sulla pagina, trasformarlo in un empatico estraneo. Nel secondo si esplora un oggetto ignoto perché risponda a qualcosa che è dentro di noi, per riconoscersi – anche là dove non sospettavamo di essere. Allora, forse riassumendo, il messaggio della poesia è sempre l’altro. Ed è anche ciò che la poesia stessa diventa, con un lavoro duro, perfino spietato, sulla materia delle parole, le unità, le concrezioni del linguaggio, di ciò che in fondo resta dell’umano.

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Strana domanda … le persone che amo si interessano alla poesia perché io ne scrivo per lo più. Come succede per altri mestieri che ci interessano nel momento in cui qualcuno a cui siamo legati vi è coinvolto. Tuttavia devo molto a mia madre riguardo la poesia. Fu lei, quando facevo le medie, a leggermi Leopardi. E fu lei a farmi leggere i romantici inglesi. Non per un suo capriccio, ma perché aveva capito che quello faceva parte di me. In casa mia i libri sono sempre stati importanti – mio nonno possedeva una biblioteca vasta, da autodidatta del sapere qual era, per lo più saggi di politica o religione, ma crescere tra i libri certo ha avuto il suo ruolo. E da bambina mi sono sempre state raccontate o lette storie. Della poesia – probabilmente la mia famiglia pensa in fondo che è il mio modo di essere stramba. Ma i libri in generale sono sempre stati parte della mia famiglia. E, volenti o nolenti, tutti i miei affetti e familiari finiscono nelle mie poesie, a cominciare da mia nonna e dalle sue credenze (mia nonna che diceva: vivessi in Finlandia!, mia nonna che cuce, mentre io rammendo versi, mia nonna che sente i morti nello scricchiolio del legno).

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Non mi sento costretta a dividere nulla, anzi in questo periodo che il lavoro per me è quanto di più precario, magari ne avessi! La storia è piena di poeti che hanno fatto o fanno altri mestieri. Non mi sembra un problema: finché si è in grado di avere uno spazio per la scrittura, mi sembra pure salutare – la poesia non si nutre di sola poesia e l’esperienza degli altri, toglie i cosiddetti grilli dalla testa, aiuta a mantenerci concreti, evitando le derive solipsistiche e le chiusure che l’ambiente poetico-letterario può portare. Il problema semmai è che in questo paese passa l’idea che il lavoro intellettuale non sia lavoro. I poeti non ricevono, come altrove, sovvenzioni o aiuti statali per progettare e scrivere. Quando invitati vengono pagati con il “gettone”, che a me fa pensare alle vecchie cabine telefoniche. Che significa? Non si possono chiamare le cose con il loro nome, in questo caso: pagamento, compenso in denaro? Il lavoro si retribuisce e basta. La poesia, la letteratura sono un lavoro, richiedono tempo ed energia e chi le fa, di solito ha delle spese e dei bisogni, non vive nell’etere come una qualche forma insostanziale e senza necessità.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per il mio futuro spero che coloro che amo stiano bene, prima di tutto. Di viaggiare tanto e magari un giorno finire a vivere davvero in Irlanda oppure su in montagna nell’Appennino pistoiese. Spero di continuare a dividere la vita con gatti e cani. Spero di poter scrivere sempre qualcosa di nuovo, con la fatica e la gioia che questo comporta. Spero di pubblicare e che questo abbia un senso, non solo per il mio ego. Spero di poter partecipare ad incontri con altri amici poeti e di avere la possibilità di portare la poesia nella scuola. Per il futuro della poesia, le auguro che venga letta. Le auguro di stare nei diari degli adolescenti, accanto ai testi delle canzoni. Le auguro di vivere in maniera indipendente dai poeti. Di restare. Alla poesia di oggi serve e manca la visibilità, il riconoscimento, penso di averne parlato in tutte le domande. Ai poeti auguro di leggere e scrivere e (me compresa) di non sentirsi mai investiti di nessun ruolo alto, di sentirsi parte del vivente, di non cedere alla frustrazione, quando essa fa capolino. O, se possiamo paragonarci ad alberi, con le radici ben salde nell’acqua e nella terra e la chioma nel cielo, di viversi come la parole di quegli alberi, senza peso, con l’attesa che qualcuno le raccolga.


Francesca Matteoni è nata il 25 gennaio 1975. Laureata a Firenze con una tesi in Storia delle Religioni su esoterismo e mitologia celtica nell’opera poetica di William Butler Yeats, ha recentemente terminato un dottorato di ricerca in storia moderna presso l’Università dell’Hertfordshire in Inghilterra, esplorando le credenze relative al sangue in Europa nell’epoca dei processi per stregoneria. Ha lavorato per anni con i bambini, insegnando pattinaggio, nei centri estivi e con ragazzi disabili. Ha insegnato corsi di storia moderna in università inglesi, corsi di italiano e inglese in Italia e in Inghilterra. Ha pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti, 2005) e Appunti dal parco (Wizarts, 2008), alcune plaquette artistiche, la silloge Higgiugiuk la lappone nel  X Quaderno italiano di poesia contemporanea (2010) edito da Marcos y Marcos, con prefazione di Fabio Pusterla e Tam Lin e altre poesie nella collana Inaudita di Transeuropa (settembre, 2010), con un CD di Nada Malanima. Fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana, e si occupa della rubrica di scrittura della rivista romana Metromorfosi. Si interessa di molte cose, tra cui le fiabe popolari, sciamanesimo artico-siberiano, storie e tradizioni sugli animali e tutto quello che è nord.

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