Il carcere come metafora nell’evoluzione poetica di Alfredo De Palchi (1993-1999)

 

di Alessandro Vettori

Le ultime raccolte poetiche di Alfredo De Palchi in ordine cronologico La buia danza di scorpione (1993), Costellazione anonima (1997), Le viziose avversioni (1999) danno ordine e sistemazione in parte alla produzione già esistente e, mediante l’aggiunta di nuovi componimenti e l’ausilio di un nuovo assetto, consentono maggiore compiutezza e senso di direzione alla poetica depalchiana. Collocabili in ordine cronologico fra il 1993 e il presente, queste ultime fatiche poetiche rappresentano soprattutto un rispecchiamento di quegli assunti concettuali aventi un limpido riscontro nell’esperienza umana del poeta. L’importanza del dato autobiografico si conferma già a partire da La buia danza di scorpione (1993), laddove l’esperienza seminale del carcere dà l’abbrivio all’ispirazione compositiva e si riscontra poi tematica portante dell’opera. L’anelito alla libertà, che muove De Palchi carcerato a rifugiarsi negli spazi infiniti e mobili della fantasia poetica, domina il panorama de La buia danza di scorpione, la raccolta che segna l’incipit della revisione umana e poetica sul proprio passato e il recupero dell’attività poetica depalchiana, almeno quella in raccolta mentre vari componimenti poetici avevano continuato ad essere pubblicati singulatim in riviste italiane e statunitensi. La buia danza di scorpione inaugura la nuova stagione poetica in raccolta e segna una ripresa dopo la prolungata pausa seguita alla riuscitissima prova poetica degli ultimi anni sessanta, con Sessioni con l’analista (1967), opera uscita per Mondadori e pubblicata alcuni anni dopo in versione inglese per la traduzione di Solomon (1970). La raccolta intermedia fra queste due, Mutazioni (Campanotto, 1988, vincitrice del premio San Vito al Tagliamento), risulta alquanto sfuggente ad una più esatta collocazione critica, almeno nel panorama che qui si cerca di tracciare: pregevole dal punto di vista tematico, pare che esiti invece ad ancorarsi ad un imprescindibile evento biografico. Con Costellazione anonima (1997) la riflessione sull’esperienza personale si allarga ad una dimensione amplificata, includendo il resto dei propri simili nel tema della storia umana e dell’evoluzione universale. L’ultima raccolta in ordine cronologico, Le viziose avversioni (1999), segna poi un ulteriore passo avanti stilistico sulla strada di una progressiva astrazione metaforica. Il linguaggio poetico si fa sempre più rarefatto, così da poter esprimere elegantemente il difficile topos erotico.

Singolare e suggestiva si presenta la rubrica «vita e opera» di Alfredo De Palchi il quale, autodidatta ribelle e ingegnoso, prende spunto dalla traumatica esperienza carceraria per intraprendere la carriera poetica. La sua formazione letteraria comincia nel penitenziario partenopeo, allorché De Palchi fa le prime letture poetiche serie e incide i primi versi sulla parete della cella. Si entusiasma particolarmente all’opera di François Villon, il poeta che rimarrà per lui il grande maestro, citato in epigrafe fin nelle opere pubblicate di recente, a oltre cinquant’anni di distanza da quelle prime letture giovanili. Il carcere rappresenta inevitabilmente un momento determinante per il poeta ventenne o poco più che ventenne, passaggio di maturazione umana e rito iniziatico di trasformazione dall’idealismo adolescenziale al realismo disincantato della vita adulta. De Palchi sembra votato a sfatare ed esorcizzare tutti gli idealismi politici, sociali e letterari che caratterizzano l’immediato dopoguerra italiano. Dopo l’esperienza carceraria e alcuni anni di disordinate peregrinazioni europee, muovendosi soprattutto fra l’Italia e Parigi, e vivendo all’insegna delle speranze ribelli e anticonformiste di quella generazione di letterati, nel 1956, alla simbolica età di trent’anni, De Palchi approda a New York. Nella megalopoli statunitense risiede tuttora, facendosi sempre più attivo ed impegnato su numerosi fronti letterari: dalle pubblicazioni poetiche, alla codirezione di Chelsea, l’elegante rivista letteraria in lingua inglese, alla promozione e al sovvenzionamento di attività volte alla divulgazione della poesia italiana negli Stati Uniti.

Non voglia sembrare oziosa rassegna biografica questo conciso spiraglio sulla vita dell’autore, dato che la sua poesia, per quanto in modo criptico e mediato da meccanismi poetici di varia natura, si pasce abbondantemente del nutrimento inestinguibile e variegato della sua esperienza umana, particolarmente, ma non soltanto, nella sua fase incipiente. Una delle raccolte più importanti di questi ultimi dieci anni, La buia danza di scorpione (1994), si rifà proprio a quel momento determinante dell’incarcerazione e rilegge in esso simbolicamente tutte le principali tappe esistenziali del poeta. Il luogo ispiratore per un ripensamento e una riflessione esistenziale sul proprio vissuto è proprio la prigione, sia come luogo topografico che nella sua accezione metaforica. Anche quando l’opprimente atmosfera della reclusione non assurge ad argomento dei componimenti poetici in questione (come accade in effetti nella maggior parte dei casi), l’irrespirabile costrizione e la soffocante chiusura dell’ambiente carcerario filtrano nei versi depalchiani, informando di sé anche i componimenti sull’infanzia e sull’adolescenza veronese. Molto spesso sono semplicemente la complessità e l’estremo ermetismo dello stile a comunicare la sensazione claustrofobica dell’imprigionamento che, con i suoi spazi limitati e la sua mancanza di libertà, diventa per il poeta metafora calzante dell’intera esistenza, lente d’ingrandimento attraverso cui leggere e interpretare tutta la propria vita precedente. Il carcere si concepisce come quel momento di «conversione» che le più recenti teorizzazioni sul genere autobiografico riconoscono come essenziale, non solo alla (generalmente prosastica) scrittura autobiografica, ma alla scrittura tout cour, indipendentemente dal genere e dallo stile adottati. Il carcere diventa un momento di autodefinizione sia umana che poetica; è l’esperienza-chiave senza la quale risulterebbe inconcepibile sia l’uomo che il poeta Alfredo De Palchi; il periodo trascorso in prigionia rappresenta la torsione determinante, dalla quale si sdipana poi tutto il vissuto di questo autore, nonché la sua dedizione incondizionata all’arte in generale e alla poesia in particolare. Si tratta qui naturalmente di conversione intellettuale, una conversione alla poesia che non ha niente di religioso almeno nel senso comunemente inteso di conversione ad una religione rivelata. Ma proprio alla stregua della dinamica spirituale innescata da una conversione religiosa, la costrizione carceraria funge in De Palchi da filtro attraverso cui viene riesumata e vagliata tutta la propria esistenza precedente, chiamata improvvisamente ad assumere un significato esistenziale e poetico più alto. Proprio come un filtro, il carcere mantiene la doppia funzione di catalizzatore di un’indagine sul proprio vissuto e quella ad esso opposta di schermo fra il sé di allora e quello presente.

La raccolta si apre in maniera simbolicamente adatta a questo ripercorrimento esistenziale con un singolare riferimento autoriale al proprio concepimento nella poesia «In principio».  (La eco biblica dell’incipit evoca l’inizio del tempo cosmico, messo simbolicamente in relazione allo sbocciare della propria vita). La matrice autobiografica persiste poi più o meno immutata fino alla conclusione della raccolta, laddove si mette a parte il lettore del pensiero ossessivo del suicidio nel componimento intitolato «Io».  Il suicidio appare in funzione di morte annunciata dello scrivente o, per usare una più specialistica terminologia teorica sul genere autobiografico, di «colui che dice io»,  appunto. I componimenti intermedi fra i due poli cruciali di nascita e morte costituiscono la riflessione più o meno chiara o più o meno dichiarata sul proprio passato, resoconto tormentato e angoscioso delle distorte elucubrazioni del prigioniero.

Ingrediente essenziale di questa, come delle successive raccolte, sembra essere la difficile e sofferta permanenza in prigione. È in questa sofferenza che si matura l’uomo e il poeta De Palchi e, se ne La buia danza di scorpione essa si tematizza in specifici riferimenti alla dimensione reale del carcere, nelle raccolte successive rimarrà solamente una traccia impercettibile (pur se indelebile) dell’itinerario poetico depalchiano. L’abbagliante luce della sofferenza carceraria illumina di sé un po’ tutto il cammino poetico di questo autore. L’opprimente costrizione della cella gli apre la mente alla riflessione e all’approfondimento della propria personalità, diventando fonte imprescindibile di maturazione umana e poetica, riconosciuta e ammessa dal poeta medesimo, quando scrive: «in questo cubicolo / mi mangio maturando e sulla pietra / raspo per una vita dissimile».  La metafora del «raspare sulla pietra», al fine di catturare una diversa dimensione vitale, appare perfettamente adeguata all’anelito insaziabile di libertà da ritrovare all’esterno dell’ambiente rinchiuso del carcere. E se il raspare animalesco e gallinaceo alla ricerca di una via d’uscita suggerisce una lettura letterale del verso, il concetto espresso precedentemente in riferimento al «mangiarsi maturando» invita invece ad una lettura metaforica, simboleggiando un riflessivo ripiegarsi su se stesso innescato dalla costrizione del «cubicolo».  Il lavoro di scavo interiore, espresso tramite lo stile depalchiano aspro ed essenziale, diventa una auto-antropofagia, che si pone come indispensabile processo di maturazione personale avvenga esso dentro come fuori dal carcere. Lo scavare, che tradizionalmente si concepisce come attività del fuggiasco verso l’esterno, si trasforma qui paradossalmente in fuga dentro se stessi; il sogno inesaudito di una via d’uscita – dalla prigione, dalla vita, finanche dall’asprezza e chiusura della propria poesia – si cambia nel procedimento di positiva maturazione personale che fa tesoro della permanenza forzata nel cubicolo della prigione.

L’abbinamento mondo faunistico- anelito mortale diventa una costante dell’universo poetico depalchiano, almeno nei moduli e negli stilemi entro cui esso si esprime nell’ultima sezione della raccolta in questione, intitolata «Il muro lustro dell’aria» – ma la tipologia animale, a ben guardare, era già presente nella sezione seconda, intitolata sintomaticamente «Un’ossessione di mosche».  In questo caso la prigione si fa concreto referente della poesia di De Palchi, non più semplice cassa di risonanza per ripensare letterariamente ed esistenzialmente la valenza del proprio vissuto, ma argomento letterale del proprio procedere poetico. Con il tipico stile ermetico e disadorno viene espressa la durezza sia fisica che psicologica della vita carceraria:

ferro e paglia
m’induriscono la faccia inquadrata
dalle sbarre crescenti.

Nella vita inumana del carcere la condizione del poeta trova espressione soprattutto a mezzo dell’onnipresente elemento zoologico, quasi a ironica conferma che l’esistenza condotta all’interno del carcere è fatta più a dimensione animale che umana. Gli animali diventano paradossalmente sia agenti della dimensione reale all’esterno, che taciti ma efficaci ambasciatori di morte. Il brusio e il roteare degli insetti nella cella sono sovente l’unico indizio carpibile della vita al di fuori, che sarebbe altrimenti inimmaginabile ed impercettibile. Ricorrono frequentemente le descrizioni di insetti in movimento:

Vortica una fanfara
di zanzare nel crepuscolo …

Il lepidottero barcolla ai vetri …

Una mosca adolescente bruisce
sulla gamella calda di zuppa.

Il rumore della vita, che nella tradizione letteraria viene raffigurato con l’incessante volgere su se stesse delle sfere celesti nel cosmo, impercettibile alla maggior parte degli indegni esseri umani e udibile solo ai puri e agli eletti, subisce una torsione verso il basso nell’universo poetico depalchiano, laddove il brusio della vita perviene dal «brumire», dal «barcollare» e dal «bruire» degli insetti, unici veicoli dello scorrere imperturbabile dell’esistenza. Dalla sublimità dell’immagine siderale si passa alla concretezza e tattilità entomologica. Essendo i più disdicevoli fra tutti gli esseri volanti e quelli che occupano il posto più basso nella scala evolutiva, creature da inferno dantesco, gli insetti, meglio di altri esseri animati, forniscono un quadro dell’abisso che separa il prigioniero dai firmamenti stellati dell’esterno.

Nella bolgia della cella carceraria, brulicante di rumori e vortichii di insetti immondi, l’elemento animale si trasforma da solo possibile messaggero di vita in sintomo di morte. Nelle ultime poesie della raccolta si fanno sempre più pressanti i riferimenti ad un desiderio di porre termine alla propria vita, vedendo nel suicidio la sola via d’uscita alla condizione impossibile del carcere, assurto ormai nelle meditazioni del poeta da situazione contingente a stato esistenziale. I riferimenti al mondo animale assumono i toni macabri di una danza mortale – per anticipare l’assunto implicito nel titolo. Un accenno diretto al suicidio si rintraccia in «Una mosca adolescente bruisce»,  laddove il dato realistico della mosca in movimento lungo l’orlo della gamella ispira per associazione il pensiero della medesima mosca che cammina sulle labbra in decomposizione del poeta:

Una mosca adolescente bruisceç
sulla gamella calda di zuppa
annunziando l’infezione
e gira l’orlo come sulle labbra
di me che sogno di uccidermi.

Il breve componimento unisce per associazione metonimica una descrizione dell’atmosfera fatiscente del carcere napoletano post-bellico, con gli insetti che brulicano fin sul cibo dei carcerati, ad un anelito suicida per scampare a quella condizione esistenziale che, da vita in carcere, sembra essersi trasformata in carcere della vita. Non può mancare un significativo riferimento all’«infezione» la quale, da semplice malattia fisica trasmessa dagli insetti, assurge a sintomo di corruzione morale ed esistenziale. La malattia peggiore è indubbiamente quella che attacca la psiche e l’anima umana, rinomato leit-motiv della letteratura novecentesca italiana da Svevo a Pirandello a Montale e oltre. L’«infezione» depalchiana, annunziata pragmaticamente a mezzo dell’insetto che si trova a convivere nella cella col carcerato, è metafora dell’ineludibile cancro morale che agisce dall’esterno e conduce alla morte.

Introdotto in questi termini, il tema della morte permea tutto il rimanente della raccolta, fino a farsi insistente e martellante motivo, che riconduce poi direttamente all’annunciata «buia danza» del titolo. Nelle ultime poesie la morte ricorre attraverso l’uccisione violenta di animali: in due poesie successive viene descritto lo sgozzamento rispettivamente di un agnello e di un maiale. In «Ti somiglio nel balzo nel belato» (terzultima poesia della raccolta), il poeta si accomuna per similitudine all’agnello brutalmente e ingiustamente sgozzato.

Ti somiglio nel balzo nel belato
e neanch’io ho protesta
o protezione
– il coltello
che brutalmente ti affascina
alla carotide mi è uno sfregio
permanente.

Come l’agnello, il poeta rimane silenzioso («neanch’io ho protesta») ed indifeso («o protezione»). I possibili accostamenti alla simbologia giudeo-cristiana, che identificano nell’agnello l’innocente vittima sacrificale, paiono del tutto casuali nell’universo depalchiano, scevro da qualsiasi volontario riferimento alla tradizione religiosa, ma fanno indubbiamente da indispensabile supporto ad una più approfondita comprensione della dimensione dell’autore quale vittima innocente brutalizzata ingiustamente dai propri carcerieri. Nei rari casi in cui risulta inevitabile leggere dei riferimenti alla tradizione biblica, questi sono invariabilmente culturali, assunti cioè come simboli di una cultura infarcita di cristianesimo, ma da non ricondurre alla loro valenza spirituale; come nell’esempio seguente, che ha per argomento proprio la crocifissione:

Uovo che si lavora nella luce ovale
nuovo adamo
invigorisco nell’altrui simulazione
e quindi anch’io implacabile            finzione

anch’io sono, io
mi credo
altri osserva che non sono –
com’è possibile
se sulla croce di tutti ulcerata
mi svuoto le gote
se circondato non c’è chi
mi disseti
solo chi impreca.

Impossibile non percepire il «nuovo adamo»,  la «croce»,  il «se circondato non c’è chi mi disseti»,  come una ricostruzione della scena della crocifissione, in cui il carcerato identifica la propria condizione con quella del crocifisso della cristianità. Altrove è la colomba del diluvio che, anziché annunziare la pace, porta il messaggio di condanna:

Appigliata alle spalle la colomba
annunzia la condanna
odore del diluvio
e l’albero di fuoco
sbracia i rami
strillanti
nel cielo basso di fango –
lo spavento dell’uccella difforma
l’innocenza che non si rifugia nell’arca.

Quello che esperisce il poeta non è un diluvio che purifica e restaura pace; è invece un diluvio che contamina ed elimina l’innocenza.

Qualsiasi edulcorato accostamento alla simbologia cristiana viene esorcizzato nella poesia successiva da una simile descrizione cruenta della soppressione di un animale. Laddove in quella si offriva l’esempio dell’uccisione di un agnello, in questa si parla dello sgozzamento di un maiale, animale simbolicamente remoto da quello precedentemente preso in considerazione. È la descrizione stessa ad identificare l’animale, altrimenti mai chiamato per nome, attraverso quei luoghi comuni che solitamente si riferiscono a lui: il trogolo, l’ingrassarsi nello sterco. C’è un inconfondibile rapporto di causa-effetto fra la natura intima della bestia, l’istinto vorace e la famigerata sporcizia, e il destino cruento che gli si prospetta, i maltrattamenti e la morte truculenta. Se nel caso dell’agnello, umile ed indifeso, l’uccisione per sgozzamento pare un’aberrazione a confronto con la bianchezza e innocenza che ne caratterizzano la natura, nel caso del maiale la sua tipologia sanguigna e corpulenta rende più accettabile e giustificabile, o comunque meno sorprendente, la morte violenta di cui cade vittima.

Ti si offende – si insiste a dire
che t’ingrassi nello sterco
ma io so qual è
la verità: segui l’obbligo della
condizione
– tolto dal trogolo
corda al muso oblungo non hai diritto,
resiste l’intuizione quella consapevolezza
ma sei rattenuto
malmenato sulla cassa rovesciata
e ti si sgozza l’intelligenza
mentre il sangue ti sballotta
e mi sballotta in rantolo.

L’uccisione viene resa ambiguamente tramite l’immagine poetica di uno «sgozzamento dell’intelligenza» che, trasformando l’organo fisiologico del cervello nel più astratto concetto dell’intelligenza, serve ad introdurre la successiva tematica di uno strozzamento della vita cerebrale del poeta come effetto dell’imprigionamento. Il parallelismo poeta=animale viene espresso lapidariamente dalla frase che riassume la mancanza di libertà d’azione per entrambi: il maiale, così come il poeta carcerato, «segu[e] l’obbligo della / condizione;» impossibilitato ad agire secondo la propria volontà od inclinazione, sente tutto il peso della perdita di dignità umana a cui è sottoposto e la paragona ad una morte cerebrale, o comunque ad un tentato assassinio delle proprie facoltà intellettuali da parte dei carcerieri.

Ma il nesso che unisce indelebilmente la dimensione animalesca di questa raccolta con l’anelito mortale si rintraccia in nuce sin dai toni vagamente gotici e cupi del titolo. La buia danza di scorpione accenna cripticamente alla condizione esistenziale del poeta. Si ricorre qui ad una tradizione aneddotica e leggendaria secondo cui lo scorpione sarebbe una creatura notturna e solitaria, che emergerebbe dal buio del suo stato eremitico solo per colpire la preda con la propria arma appuntita e spietata. Come lo scorpione del verso da cui è tratto il titolo («io fuori di senno / persisto la buia danza / di scorpione»), il poeta sembra colpire con la violenza delle sue immagini, vergando colpi di scrittura col pungiglione del suo stile aspro e infuocato. Ma lo scorpione, nella superstizione popolare, rappresenta poi anche un simbolo di autodeterminazione ed indipendenza che non conosce barriere. Vistosi sconfitto o preso in trappola, lo scorpione manifesterebbe il proprio istinto libertario preferendo colpirsi a morte col proprio pungiglione, anziché soccombere alla cattura. Alla stessa stregua, il prigioniero De Palchi ammette la preferenza per il suicidio, allorquando l’alternativa fosse una prolungata privazione della libertà personale. D’altronde la morte è vista come il raggiungimento della perfezione (secondo un verso della raccolta, «la morte medita perfezione»), auspicato punto di arrivo dell’esistenza manchevole e priva di soddisfazioni del prigioniero.

Unica rivalsa per il poeta carcerato sembra essere costituita dalla limpida autocoscienza della propria superiorità intellettuale rispetto ai carcerieri, che viene espressa come agonico combattimento fra la chiusura del potere e la libertà dell’intelligenza, combattimento destinato a trasformarsi in contrasto diretto fra vuoto potere della parola e forza interiore del silenzio:

siccome ognuno impone
il proprio mondo a chi perde
non si chieda cosa avviene:
la parola è nella bocca dei forti.

In un monologo rivolto ad un uditorio probabilmente molto poco ricettivo, il poeta rende edotti i propri carcerieri della inefficacia della loro forza, che è solo apparente, in confronto alla reale potenza dell’intelligenza:

Mi condannate
mi spaccate le ossa ma non riuscite
a toccare quello che penso di voi:
gelosi della intelligenza e del neutro
coraggio aggredito dal cono infesto
delle cimici.

L’anelito alla libertà permea e riassume tutta l’essenza poetica de La nuda danza di scorpione. Negatagli come diritto civile dalle sbarre della cella, la libertà assume una dimensione spirituale in quanto indipendenza a muoversi a proprio agio con il pensiero. Impossibilitato ad evadere fisicamente, il poeta si rifugia nel mondo inesauribile e sempre rinnovantesi della fantasia letteraria e la sua capacità di espressione poetica si pone come risultato di questo momento doloroso. Paradossalmente, la libertà (pur se nella sua matrice intellettuale) viene acquisita nella costrizione carceraria.

Libertà è un concetto che in De Palchi non assume mai connotazioni troppo ristrette e si colora semmai soltanto di estremismo, non rimanendo imprigionato né nelle pastoie ideologiche o politiche, né in quelle stilistiche, senza forgiare il dettato poetico in base a mode o tendenze. Sia tematicamente che stilisticamente, e ancor più esistenzialmente e poeticamente, la presa di posizione di De Palchi si orienta su un’opposizione sistematica a qualsiasi schieramento o partigianeria, in modo da poter conservare intatta l’indipendenza di pensiero e di azione, anche allorquando il costo concreto di tale modo di concepire la realtà implica la persecuzione da parte di schieramenti opposti ed in conflitto fra di sé: De Palchi fu torturato ed imprigionato dai fascisti prima e dalle forze partigiane dopo.

L’aspirazione alla libertà si coniuga ad un’endemica refrattarietà verso ogni atteggiamento ancillare nei confronti di mode imperanti e stili dominanti. Il poeta crea di pari passo con la scrittura lo stile che l’accompagna; la sua voce si eleva solitaria a tradurre in esplosione lirica la singolare esperienza del carcere. La critica su questo autore insiste giustamente sull’impossibilità di ridurre il poetare depalchiano ad un qualsiasi stilema novecentesco; sono evidenti gli influssi di certa avanguardia italiana e straniera, ma l’impronta rimane personalistica, irriducibile a schemi e correnti a lui contemporanei. A questo proposito, proprio commentando sulla raccolta La buia danza di scorpione, il poeta Andrea Zanzotto asserisce: «queste poesie presentano una rara variante di uno spirito beat o pre-beat che non deve nulla a nessuno».  I componimenti de La nuda danza di scorpione servono da testimonianza, anche stilistica, del grido di libertà lanciato dal poeta attraverso di essi, unico vendicativo atto di accusa levato contro l’ingiustizia perpetrata a suo danno. In omaggio a questa loro funzione, le poesie si presentano significativamente libere da qualsiasi condizionamento finanche nella punteggiatura, mentre la loro fruizione non viene condizionata nemmeno dall’imposizione di un titolo che ne potrebbe riassumere, secondo l’interpretazione autoriale, il significato o i temi essenziali, ed offrire quindi una possibile chiave di lettura. Le poesie rimangono identificabili solo dalla citazione del primo verso, in modo da non avere intermediari di sorta e parlare per se stesse; esse si trovano prive di un’intestazione, secondo la più antica tradizione letteraria fatta rivivere nel Novecento dalla maniera montaliana: le poesie si mostrano così ricche soltanto dei propri versi, libere anche graficamente dal peso di titoli e di punteggiatura.

Accadimento altamente simbolico nel panorama poetico di questo autore rimane l’alba della sua scrittura poetica quando De Palchi, costretto dalla pressante esigenza di esprimersi in poesia e non disponendo di strumenti scrittorî adatti, incide i suoi primi versi sulla parete della cella in cui si trova prigioniero. Il grattare le lettere sull’intonaco ha al contempo la valenza simbolica di un uso della parola quale evasione dalla dimensione ristretta del carcere e quella altrettanto metaforica di una parola poetica partorita faticosamente, emergente dalla sofferenza fisica e morale di chi la scrive, quasi fosse stata incisa sulla sua carne prima di venir scolpita sulla parete. L’immagine d’intenso sentire delle parole incise sul muro – quasi graffiti poetico che da passatempo carcerario si trasforma in ultima risorsa per la necessità impreteribile della scrittura – spiega simbolicamente la qualità ermetica ed essenziale dell’espressione poetica depalchiana che, oltre ad essere brutalmente disadorna, unisce brevità ed incisività (e il gioco di parole sull’«incisività» non è puramente casuale) alla cripticità derivata dalla libera associazione. La poesia di De Palchi – non solo quella contenuta ne La danza di scorpione – si caratterizza non per l’accumulo di parole liriche, ma per la sua natura icastica: le poche, essenziali immagini, spesso impossibili da districare in un’interpretazione unitaria logica e coerente, danno vita a dei concisi quadri poetici. La parola lirica sembra veramente estratta faticosamente dall’anima angosciata del poeta, frutto di un lavorio mentale, di cui la scalfittura fisica sulla parete non è che un’immagine. La forzata sinteticità dei versi iniziali diventerà caratteristica fondante della produzione poetica di questo autore: i brevi componimenti, fatti di poche parole sistemate in un procedere sintattico contorto, costituiscono il veicolo ideale per rendere il groviglio di intense sensazioni e angosciosi sentimenti che animano la sua vita interiore. La sorprendente sovrapponibilità di sensazione e parola dà vita a quella caratteristica che Sonia Raiziss, traduttrice e critica di De Palchi, definisce felicemente come «staccato bits of agony».

L’idealismo anarchico di De Palchi, cominciato sul piano politico, dilaga inarrestabile in tutti gli ambiti personali ed intellettuali. La libertà da qualsiasi condizionamento retorico si può far risalire a questa medesima matrice. Ad un attento riscontro critico si rilevano nella lingua depalchiana incongruenze morfologiche e sintattiche, costruzioni e giri di frase singolarmente oscuri e difficili da parafrasare. L’esigenza di non conformità coinvolge finanche lo strumento indispensabile della lingua che, proprio perché essenziale, può risultare altamente restrittivo e condizionante. La singolarità della lingua depalchiana si riscontra in quel minimo eppur percettibile scarto dalla norma morfosintattica che, se arricchisce il verso di valori polisemici, incrementando la libertà interpretativa, rimane pur sempre un’aperta sfida alle regole linguistiche e logiche che accompagnano il discorso e la scrittura. A volte tale scarto prende le sembianze di sinestesia, come in «ispida luce»,  o in «odo / una punta di luce scalfirmi gli occhi;» altrove è un più generico accostamento metonimico a creare l’effetto di sorpresa, come in «risponde con radici d’acciaio rovesciate il ponte»,  oppure nelle espressioni «occhi sbucciati»,  «convulsioni di case»,  o nell’accostamento di due aggettivi ossimoricamente giustapposti come «vorace indifesa».

Questo scarto minimo, percettibile in ambito linguistico come caratteristica costante della poesia di De Palchi, si ritrova tematizzato in ambito esistenziale nella successiva raccolta intitolata Costellazione anonima. Il verso-chiave per la spiegazione del titolo chiarisce anche la condizione esistenziale del poeta: «spostato di quel tanto / dal mio centro intorno me stesso: anonima costellazione».  Dopo la serie di profonde e sentite riflessioni su una revisione globale del proprio vissuto alla luce dell’esperienza carceraria ne La buia danza di scorpione, la parabola poetica depalchiana di quest’ultima decade trova il suo seguito nei componimenti di questa raccolta dal titolo suggestivo ed etereo. Le poesie di Costellazione anonima si aprono ad una dimensione più vasta che non sia solo il passato personale del poeta, inglobando una meditazione sull’umanità che si sofferma a ridimensionare la capacità storica dell’evoluzione, a risolvere – o semplicemente sollevare – dilemmi e aporie ancestrali del genere umano.

L’ordine in cui sono disposti i componimenti suggerisce un ripercorrimento a grandi tappe del cammino evolutivo umano, principiando con gli stadi primordiali dell’esistenza cosmica e, procedendo di pari passo al sentiero umano conosciuto come «storia»,  approdare infine ad una trattazione più mirata, avente per protagonista il poeta medesimo. L’evoluzione viene assunta a tema poetico, oltre che essere un elemento strutturale della raccolta. Ma la visione depalchiana della storia non presuppone l’equiparazione evoluzione=progresso: con mossa aspramente ironica, l’assunto positivo tradizionale di un incrementale affinamento e perfezionamento della creazione con il fluire del tempo viene ribaltato in un violento regresso umano verso stadi primordiali animaleschi. La storia, non più concepita come magistra vitae, si trasforma in un insensato agone, in cui l’inarrestabile lotta non conosce alleati né regole di combattimento: lo spietato tutti-contro-tutti coinvolge esseri umani, animali ed elementi naturali nelle più svariate combinazioni. In «Come si può accattare la storia, la storia»,  un componimento che fin dal primo verso specifica la tematica trattata attraverso l’espediente ironico, si fa ricorso agli stadi evolutivi naturali per capovolgerne gli effetti. Anziché dall’affinamento intellettivo, il protagonista della scala evolutiva è rappresentato dalla prevaricazione. La storia non fa leva sulla costruttiva capacità di coabitazione degli esseri viventi. In un crescendo di violenza si passa dagli insetti al topo al coniglio all’uomo e, senza soluzione di continuità la scala di soprusi, che contraddistingue questa sorta di regressivo avanzamento delle specie, termina con un ragazzo che colpisce un bue:

… sotto ogni foglia al suolo si appicca
una lotta d’insetti e dovunque
di sopravvivenza: del topo del coniglio
del falco che assalta planando
del ragazzo, beccaio di ferocia allegria
che bastona il bue e con ingordigia di potere
urla ora ti ammazzo.

Il crudele susseguirsi di battaglie comincia «sotto ogni foglia al suolo»,  in cui la foglia caduta è di per sé già un referente simbolico del declino vitale in corso. Nella loro discesa verso il buio primordiale, gli elementi sfogano la rabbia della propria insoddisfazione sui più deboli; l’ininterrotto guerreggiare che ne risulta forgia il cammino agonico dell’esistenza, dagli esseri umani denominato «storia».

Storia e natura si trovano strette in un unico intrico concettuale avente come protagonista il battagliare medesimo. Se la storia si struttura come costante combattimento degli elementi naturali fra di sé nei più diversi rapporti e combinazioni, non si pone possibilità di progresso storico, né tantomeno di un auspicato superamento della spietata legge naturale. Prevaricazioni e soprusi del più forte sul più debole sono le regole imperanti della storia; unico canale su cui procede il percorso umano è la violenza. In «Triangolo d’alberi» la scala procede al contrario, muovendo dagli esseri umani, apice grottesco del violento regredire, per culminare con gli animali:

il ragazzo malmena il vecchio
il vecchio frantuma una bottiglia
sulla testa del cane
il cane intelligente, non scaltro.

La distinzione fra «intelligente» e «scaltro» non appaia solo una raffinata puntualizzazione lessicale: la delucidazione sul costrutto concettuale che la informa giunge infatti in «Nelle cave dei palazzi»,  in riferimento alla altrettanto violenta e mortale legge della selezione naturale:

la paleontologia annulla le menzogne storte
bisogna uccidere e la selezione
espediente non del più forte
o intelligente
ma del più scaltro
decide.

La scaltrezza vince la forza fisica e supera finanche l’intelligenza, assurgendo a dote conquistatrice e prevaricatrice dell’esistenza terrena, fino a dover ammettere che la ciclicità della storia ruota proprio attorno ad essa. La storia, priva del progredire verso forme più perfezionate di superiorità intellettiva umana, finisce per avere struttura concentrica e girare attorno ad un asse, sempre ripetentesi ed uguale a se stessa nel suo ciclo di violenza e sopraffazione.

Anziché su uno scarto di avanzamento che evidenzia l’alterità la storia, concepita secondo questi parametri, si struttura sull’imitazione. Gli esseri umani, alla stregua dei bruti o delle creature istintuali, non imparano dagli errori commessi; il loro agire impulsivo li spinge invece a ripercorrere il cammino già fatto. Sottolineando ulteriormente fin dal verso incoativo che «La storia nei libri nulla insegna» – e quindi alla poesia questo aforisma dà anche il titolo – il componimento ricorre ad un gioco linguistico di natura paronomastica per esprimere il concetto di una storia imitante e limitante:

l’oggi imita l’ieri
e limita il domani.

Il presente si forgia sul passato imitandolo, cosicché il futuro risulta identico sia al passato che al presente e l’operazione imitativa alla base della storia si risolve di necessità in una censura sul futuro che adombra soffocandolo qualsiasi impulso originale e creativo, sia personale che comunitario. Storia e natura si formano e si trasformano attraverso cicli e ricorsi sempre uguali, che hanno come epicentro la legge del più forte. Tale inutile andirivieni è rappresentato iconicamente dall’immagine delle onde marine che, sbattendo sulla riva sempre allo stesso modo, portano alla luce nient’altro che macerie. Nella poesia «Inarreso l’urto del mare escava macerie» si raffigura anche la compresenza e il consorzio di azione umana e naturale, ad associare ancor più saldamente quelle due componenti del panorama poetico depalchiano che sono «storia» e «natura:»

… la sabbia
rimestata da mani imitatrici
della natura che si imita.

Il contributo umano alla edificazione del fragile castello della storia a mezzo dell’elemento della sabbia risulta superfluo, visto che le «mani imitatrici» rimestano inutilmente «la sabbia della natura»,  la quale imita se stessa di sua spontanea volontà. Storia e natura sono virtualmente parodia l’una dell’altra.

Il concetto di natura umana in De Palchi si presenta invece come un interessante agglomerato di elementi negativi e positivi, che si ritrovano già presenti nella definizione che il poeta dà di se stesso quale «costellazione anonima».  Il riferimento al firmamento evoca la sublimità della dimensione aerea e celeste, e colloca la natura umana in posizione elevata rispetto agli altri esseri viventi. La categoria del sublime è unita inscindibilmente, nella definizione stessa di costellazione, alla materialità della polvere cosmica che compone i corpi celesti. Tenendo conto della natura composita e contraddittoria dell’essere umano, nella sfera esistenziale il parallelismo con la costellazione fa risaltare sia il privilegio dell’elevazione che l’abbassamento della pesantezza fisica. Analogamente al resto della cosmica creazione, stelle ed esseri umani – disposti ai due poli opposti dell’asse creazionale – prendono entrambi forma dalla polvere, ma hanno poi quale unico elemento differenziale la quasi impercettibile disarmonia (lo scarto di cui sopra) che caratterizza l’esistenza umana.

La polvere, quale sostanza costitutiva del cosmo, acquista essa stessa l’ambigua connotazione di materiale creativo e di accumulo simbolicamente decaduto e fatiscente: nel titolo della poesia appena citata si sottolinea come ci sia «Polvere dovunque su tutto polvere su ciascuno».  La scelta marcata di «polvere» anziché di «terra»,  quale materiale ritenuto costitutivo del creato, fa acquistare valenza negativa all’umanità, che si presenta creata e decaduta. Quest’immagine archetipica si lega facilmente a quella formulata altrove di umanità quale «fango su due gambe»,  in quanto contaminata ed impura, immersa nell’ingranaggio di un destino da cui non si può liberare. Alla stregua della storia, secondo un’applicazione vagamente vichiana del parallelismo storia dell’umanità-vita dell’individuo, anche l’essere umano rimane invischiato nelle pastoie del proprio destino e viene a trovarsi «fuori centro»,  costretto a fare i conti con la disarmonia insita nel proprio essere.

Rimandando la soluzione di tale dilemma disarmonico all’incertezza e alla probabilità, De Palchi tende a rintracciarne però l’origine nella primordiale libertà dai condizionamenti e dai giudizi, quale proprietà di quel «magma inorganico» degli inizi, secondo la definizione che in altro contesto applica ad esso Rosetta di Pace Jordan:

forse arriveremo all’origine
al pezzo di terra dove sarò l’indiscreto
giudice di me stesso, non muri
non leggi, tutto aperto:
porte finestre letto
dove nessun altro fango su due gambe giudicherà.

L’«origine» è l’approdo simbolico (il «pezzo di terra») della ricerca di una libertà che sia al contempo morale e psicologica, ma anche giuridica e politica; il luogo mitico della riconciliazione e del recupero di quel centro che è garanzia di equilibrio e caparra di armonia.

Il recupero e la riappropriazione delle origini, personali e dell’umanità, rappresenta il tessuto costitutivo di molta poesia depalchiana. Se La buia danza di scorpione segnava il riandare a ritroso nella propria storia alla ricerca di segnali simbolici per una missione intellettuale scoperta nella sofferenza del carcere, Costellazione anonima si spinge oltre, con il suo scavo delle origini, mitiche e innominate/innominabili (non a caso la costellazione è «anonima») degli inizi bui del genere umano e della creazione intera. Storia e natura sono in entrambe le raccolte le protagoniste che si intrecciano e si intersecano, entrambe obbedienti all’unica inesorabile e cieca legge del destino.

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