Alfredo De Palchi: “Il fuggitivo che insegue se stesso”

di Silvio Ramat

Mentre mi accingo a fornire questa breve testimonianza sulla poesia di Alfredo De Palchi, non ho davanti a me tutti i suoi libri; ma sono riuscito, per fortuna, a recuperare il primo, Sessioni con l’analista, che me lo rivelò e che recensii nel 1967. Non ho cuore di rileggere quel mio referto assai giovanile, che tuttavia ricordo motivato da effettivo interesse per la raccolta di un poeta mai sentito nominare prima d’allora: un “lombardo” (benché veneto di nascita) espatriato col suo autentico, irto cosmopolitismo nel Paese dove un cosmopolita dovrebbe meglio adattarsi. Ma non credo di aver colto, in quel mio lontano approccio a De Palchi (e come avrei potuto, del resto?), il valore non formale delle sue “forme”: instabili, talvolta perfino squassate nell’intimo; salvo che sobrietà e buon gusto dissuadevano il poeta da scoperte autodrammatizzazioni, di quelle che ambiscono a proporre l’io in un ruolo, come che sia, esemplare.

È scontato, forse, ma legittimo il suggerimento che è stato avanzato, in principio e dopo, di un legame fra la non-formalizzazione di De Palchi (io la chiamerei migrazione perpetua, in parte dettata da istinto) e l’esperienza dell’informale nella pittura. Oltretutto egli ha potuto fisicamente respirare l’atmosfera di luoghi in cui l’informale pittorico si è costituito, dissolto, per poi magari, a intervalli, riprender lena. Vivere a New York è un privilegio costoso, quando lo si faccia da “poeta”. In ogni modo, i non molti ma sempre appassionati e necessari libri che sono succeduti alle citate Sessioni – sulla linea di una fedeltà agguerrita a quell’io così antieroico e così dissipatore d’ogni virtuale o reale possesso, avvistato negli anni ’60 – ci mostrano come il tema séguiti ad essere, in De Palchi, un pretesto di per sé non condizionante. Per esempio, la prolungata sequenza erotica de Le viziose avversioni, più che sulla propria squadernata materia, mi sembra si basi sulla densità di un ritmo vitale. Sono quasi colpi violenti di spatola, son parole scagliate contro la pagina, più di quel che non vi siano calettate o poggiate su con garbo. Sussiste sí, una vicenda; ma, più che il grafico della sua trama, contano gli estri, gli umori (anche in accezione di colata materica!); conta, e fa impressione, il segno della discontinuità, il ricominciamento che si verifica in ogni singolo pezzo di questa scrittura, capace di totalizzare non altro che la propria solitudine, la propria fatale condizione di frammento.

   Sarebbe difficile dire se De Palchi – o meglio: se la poesia di De Palchi – si trovi in pace col mondo. Di sicuro, non offre né persegue catarsi; pare anzi che agisca furtiva e in economia all’interno di un mondo percepito come sostanzialmente avaro dei propri (incerti) beni. Ecco pertanto la rinuncia agli elogi dell’amicizia e delle varie virtù, del buon sentire che derivi da un raggiunto equilibrio tra esistenza e cosmo, tra io e storia. Man mano, invece di un ragionevole maturo desistere dalla coltivazione dei contrasti, si fanno più urgenti e infittiscono gli allarmi, le irritazioni. E a questo punto un titolo d’insieme, un titolo estensivo come La buia danza di scorpione risalta nella sua obbiettiva giustezza, calza a meraviglia con siffatta motilità. Lo spazio testuale diventa più che mai conciso, contratto; e le composizioni di De Palchi non le definiamo epigrammi solo perché alla sua vena disdice il concludere sentenzioso, l’esplicazione di una “morale”. La “morale” gli resta sempre nella penna, differita.

   A quando? Ogni ricorso autobiografico trascina seco ammanchi e cattiverie, più che non dia lenimenti soavi. E qui la scheda di scorta a La buia danza, per quel che accenna di relativo agli anni ’40 e ’50 di De Palchi (approdato a New York il 12 ottobre 1956), adombra un autentico romanzo, una successione di episodi romanzeschi che il lettore curioso gradirebbe, chissà, riversati con più evidenza sulle pagine del poeta. Di un tal “romanzo”, l’antico “analista” gli estorse brani, lacerti che sarebbe troppo arduo comporre in una ordinata diacronia. Più tardi, a chi sarebbe spettato il tentativo di farlo? Non a De Palchi in persona, che è uno strano poeta, un fuggitivo all’inseguimento di se stesso, con strategie che mutano durante la corsa e regole empiriche di cui il solito lettore curioso forse si rammarica; ma è inevitabile che sia così, se questa scrittura ha deciso di non lasciarsi cristallizzare (giudicare) in una forma conchiusa né tantomeno classificare in una delle tante “scuole” attecchite lungo il XX secolo.

   A me, personalmente, piace parecchio la confessione ellittica, scorciata e allusiva; piace il getto luminoso (suscitatore della sua ombra appropriata), sicché non mi sognerei di esigere da De Palchi un atteggiamento per lui innaturale, come gli sarebbe l’esporre piano e colmo. Voglio e debbo accettarlo nei risvolti delle sue segretezze, in enigmi che però avvertiamo, dentro di lui, perspicui; e qui citerei, esempio minimo eppur sufficiente del suo acceso emblematismo, quest’asserto: “solo c’è luogo / nel cranio di Villon / e sotto la palma che a lingue corrosive / spula la luce demente di Nerval / nello sguardo narcotico”.

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