Spazi e tempi nella poesia di Maria Pia Quintavalla

 

di Marisa Bulgheroni

Nell’intenzione di Maria Pia Quintavalla le Lettere Giovani sono “simbolicamente…alfabeti, lettere, in entrambi i sensi, dalla giovinezza”. Due ipotesi di testo si affrontano e si intrecciano in questa poesia: una “corrispondenza” che ha i ritmi di una narrazione compressa o soppressa, e la formulazione di una “lingua” che, mentre si pronuncia, scarta da se stessa e s’impenna, e si ricerca per consegnarsi al lettore con la forza oracolare di una poetica. Quasi che l’atto comunicativo pertinente la “lettera” si fondasse sulla rivelazione del proprio funzionamento; e l’interlocutore dovesse, per capire, i segni di un alfabeto definito operativamente sul campo.

Il tempo d’origine delle Lettere in quanto notizie o comunicazione va rintracciato non soltanto nella giovinezza come stagione autobiografica dell’autrice, ma anche nella contemporanea età aurorale del mondo delle donne – tra gli anni settanta e gli ottanta – così come il luogo di provenienza si identifica con quel “gioioso spazio femminile” (p.32) che sarà destinato – nei novanta – a subire metamorfosi profonde, dall’utopico al politico fino alla necessaria diaspora, dal corale al monodico fino alla attuale pluralità di voci. Ma, in quanto alfabeti, le Lettere si distanziano dalle loro origini per situarsi nel dopo di una crescita arditamente individuale, su un’ “isola delle parole / dove io, e sola abitiamo” (p.52): estorte al silenzio che segue alla “babele del linguaggio” femminile (p.29), molteplice, ricco, sonoro, pronunciate prima che la scrittura le imbrigliasse in segni decisivi, così che il lettore deve, a ogni testo, imparare le inflessioni e le sospensioni di una lingua nel suo decidersi. Se non vi è una trama narrativa che colleghi queste poesie, nitide fino a essere enigmatiche, un evento – la scoperta del perché e come far poesia – vi è fissato, e raffigurato con precisione visionaria, in particolare nel motivo ricorrente di Ballata (p.48):

Da viaggiatrice un giorno
tolsi un cipresso dal tuo cielo (…)
so come feci –tolsi
il cielo chiaro del mattino
dal suo mattino, presi il cipresso
dal suo cielo, così che lo conobbi
(…) Lo so come feci, il cielo chiaro
del mattino tolsi dal suo mattino
e il suo cipresso.

 

Sradicato da un abissale cielo mattutino, il cipresso ha il potere espressivo di un ideogramma: così una poesia d’esperienza, cifrata nelle forme verbali dell’azione (tolsi, feci, presi) produce nel suo percorso, una sapienza (so, conobbi) che trasforma il furto del cipresso in gesto mitopoietico – trapianto dell’oggetto nella lingua.

L’esperienza e la sperimentazione del femminile che nell’opera di esordio di Maria Pia Quintavalla – Cantare semplice – tendeva a tradursi nelle formule del canto, nella più ardua dizione o recitazione delle Lettere si è depositata in tracce e configurata in lineamenti di una mitologia personale. I “momenti di magica andatura”, là allusivi ad un incantamento di gruppo, si sono contratti qui in “passi di azzeramento” misurabili soltanto alla distanza da una “vetta” o “osservatorio esterno” (p.32) che sovrasta una scena prima invisibile. Due figure che l’indagine femminista ha recuperato dalle profondità del mito tagliano l’orizzonte delle Lettere: la madre e la sorella. E non tanto la madre autobiografica, che pure è presente in dure istantanee (“…fieramente stringevi i pugni / son’io il mondo”, p.22), quanto la madre come enigma primo dell’essere donne, primo interrogativo e ombra accecante del nascere alla femminilità, così come ricorre in alcune poesie dell’autrice ancora inedite: “materno segreto come / guardare in faccia l’eterno. / Riparare in se stessa sua luce sua / ombra” o “diniego di muta esistenza la sua incandescenza” (maternale). Nelle Lettere la madre è la custode di un idillio che può essere mimato, ma non dev’essere preso a modello perché perpetuerebbe “la catena ipnotica sotto l’imperturbato lunare” (p.25) immobilizzando le dinamiche del desiderio; è il “vortice matrice” che ha il potere di travolgere e di confinare “sull’isola dell’infanzia” chi vi si accosta alla ricerca dell’origine; è il calco monumentale che sbarra altre possibilità amorose: “troneggiava come corpo la madre, verticale / nel sogno le accecava lo sguardo…” (p.66); è l’arcaica “madre Elettra” che alimenta un’impossibile “volontà di potenza” (p.74). Ed è, infine, una perduta nebulosa che si disintegra in tardive “meteore-madri” (p.75): annunci non più attesi e, dunque, non più leggibili. In una mitologia personale che accoglie le suggestioni della tragedia greca come quelle del melodramma settecentesco (l’epigrafe di Lettere giovani è tratta dal Don Giovanni di Da Ponte/Mozart) la madre è insieme la seduttrice e la punitrice: la notturna cucitrice di amorosi nodi e la convitata di pietra.

Come l’idillio con la madre, agognato e impossibile, crea una molteplicità di modelli comportamentali seducenti e luttuosi, così la sorellanza – ora “spinosa”, ora “felina”, ora “remota” – non si esaurisce nella figura dell’amica, sorella e compagna di viaggi Nadia C. a cui sono dedicate nove tra le quarantasei poesie della raccolta. Al contrario, da questa figura che la sparizione ha reso imprendibile e onnipresente, si diffonde in altri testi a lei non dedicati una sapienza degli estremi, un’estatica dottrina di giovinezza che appaiono più radicali in quanto materialmente tacitate, recise. La sorella – doppio o ombra che si muove simultaneamente al corpo di ogni donna finché ne abita la mente – spostandosi, come oggetto di lutto, nell’”inabitabile del tempo” (p.37) svela che la specularità è una fase conclusa, o da concludere. Contro la vertigine della simultaneità dei ruoli – l’essere insieme “regine” (p.67) -, contro la fusione e l’immersione in comuni acque natali, l’io-corpo del poeta si afferma per partenogenesi come energia di crescita autonoma, “albero nuovo” che sa “digerire” tutti i suoi “rami” (p.43), o sperimentare “spietati nodi di gioia ai rami delle mani” (p.69) o “fiera sorgente” che rinnova una “risoluta promessa” (p.64). L’impronta delle madri, delle sorelle, della collettività femminile è presente ormai soltanto nel miraggio di una lingua comune che l’usura polemica ha ridotto a “lingua-lite intestina” (p.74), creatura dalle sette teste la cui voce si è arrochita.

C’è un testo, Natalizia femminile (p.35), in cui i vari momenti della ricerca femminista contemporanei all’ideazione delle Lettere sono fissati in una parata di modelli decaduti, feticci e prove d’identità, sperimentati e rifiutati nella dura traiettoria verso la conquista del sé:

Pensate ai neri budda che eravamo
donneunuchi neri androgini
maschere vive e sante
ma sopratutto magre,
magri cavalieri moderni.

 

La sacralità del corpo femminile nel budda, la femminea virilità mutilata dell’eunuco, la trionfale unificazione di maschile e femminile nel mitico androgino, irradiano una nera santità: bizzarro calvario di maschere che le protagoniste devono indossare una ad una prima che l’investitura a cavalieri le disperda per le vie della diaspora, simili a moderni donchisciotti agguerriti nello scontro con i sogni. E, come in Natalizia, così in altri testi sembra ripercuotersi l’eco sommersa di un dibattito, quasi di un combattimento, tra l’io e gli altri, tra l’io e il corpo, tra il corpo e la parola. Ma la voce delle Lettere, pur ricca di risonanze babeliche, ha le sue vere radici in una “taciturna sesta percezione” (p.20), in una muta memoria linguistica che da baratri di silenzio riemerge con un lessico modellato dalle profondità. In Dichiarazione di poetica (p.63) Maria Pia Quintavalla può, allora, attribuirsi una lingua “apneica”: scandita da un respiro allenato al rischio mortale della sospensione e della pausa – a quella “discesa libera infinita / sottomarini a noi stessi” a cui si allude in altro inedito (Liebe). Una lingua che, rara e frugale nella denotazione, si fa “godiva” nella connotazione, ossia fastosamente trasgressiva, serpentina, sinuosamente aperta al capriccio interpretativo del lettore. La doppiezza annunciata nel titolo della silloge, e presente nelle figurazioni mitiche, si rivela qui pertinente soprattutto la dizione poetica.

Scoperte o no, le dichiarazioni dell’autrice incrociano la pratica del suo poetare su un territorio che è di ricerca,di volontario disorientamento e di conquista di un punto preciso di ambiguità semantica e sintattica in cui si giocano le polarità simmetria/asimmetria, dissenso/conciliazione. Una mitica geografia personale  di ponti e strade stellari, di luoghi fertili e sontuosi, di colline di neve e alte città, si struttura segreta su cardini esistenziali che impongono metodi e strategie linguistiche precise. Così le immagini si ritraggono dalla propria ricchezza metaforica per ridursi con forza al referente, all’oggetto: se il mare è la “quintessenza dell’inchiostro” (p.20), le “perle vere” (p.18) non alludono ad altro che all’arcano del proprio costituirsi dentro la conchiglia. Così le forme si ribellano alle geometrie consuete: la strada si vuole “rotonda” e l’oblò “quadrato”; l’esperienza è raffigurata come un “rettangolo raggiunto” (p.32). E, nel mosaico sintattico, ogni tessera mette a repentaglio l’altra in concatenazioni che tendono a minare. Con le sequenze spaziali e temporali, anche le sicurezze  della contiguità e della successione, sbalzando il lettore negli interstizi vertiginosi delle pause in assenza di punteggiatura. Una lingua sotterranea o sottomarina scorre nelle profondità del testo e, mentre minaccia di spaccarlo, in realtà lo modella secondo le proprie forti tensioni e inversioni che contraddicono la nozione stessa di “linearità” simbolica e grammaticale del testo. Ed è proprio in questa sfida incessante al “Signore dei tratteggi / delle cuciture e dei viaggi”, musa paradossalmente invocata nella poesia d’apertura (“per un giorno cambia le linee…”) che le Lettere giovani s’impongono come testo e come alfabeto di una iniziazione poetica compiuta nell’atto stesso dell’invenzione. Si potrebbe rovesciare, per Maria Pia Quintavalla, l’affermazione del grammatologo  James Peter Thorne: “Leggere una poesia è spesso come apprendere una lingua”. Qui non è il lettore, ma, al contrario, il poeta che, scrivendo, impara a modulare il proprio alfabeto tramite sequenze di atti comunicativi soppressi e situati nei bianchi, nei margini, in quelli che vengono definiti “duri spazi-sogni” (p.67). Il lettore dovrà, a sua volta, non inseguire quella nuova lingua nelle sue cadenze temporali, ma ubicarla nella rigorosa spazialità visionaria in cui è inscritta.

“Poesia”, riflette Paul Celan, “…può essere una svolta del respiro”. E s’interroga: “Forse…con questo io affrancatosi qui e in tale modo…si libera ancora qualcos’altro?”

Una svolta del respiro separa l’avvenuta iniziazione poetica delle Lettere dagli ancora inediti Canti di Estranea (canzone) di Maria Pia Quintavalla. Nella ritrovata scansione del cantare si libera quel flusso temporale che nella mitica geografia della giovinezza appariva estaticamente cristallizzato. Il dibattito tra corpo (natura, temporalità fuggitiva) e parola (spazialità, geometria, durata) viene esposto fin quasi a farsi materia narrativa. Il Canto secondo registra “la sensazione del tempo che passava / nello spazio e lo lisciava / lo pettinava e arava a lungo / (…) / Diveniva cosa tangibile in altre (cose, in nuova vita)”. Al furto dell’oggetto-cipresso come evento mitopoietico in Ballata corrisponde e si contrappone qui il nascere della cosa-tempo, fecondata in zolle profonde e dolorose della mente, che accetta, nei cupi anni novanta, la discesa nell’inferno abitato dai contemporanei. Al poeta non basta più la storia quale si è depositata nella lingua, quale si può – in essa – innestare – nel contrappunto tra arcaismi e neologismi. E’ necessario, ora, riconoscere le “storie” degli “altri” – degli “automi”, coinvolti in guerre e faide perenni, della “perduta gente” e della “beata beata” ingorda di attualità – per opporre ad esse la forza di un poetare non attuale, ma vigorosamente contemporaneo al secolo. Dapprima in sordina, in sommesso canticchiare, poi sempre più martellante e disteso, un leitmotiv canoro penetra nel tessuto poetico e lo accende di luci (una “lucciolata”): sono “canzoni”, in costante divenire nel loro rimare assiduo con “stazioni”, “tenzoni”, “menzioni2, nel loro caricarsi di connotazioni: “bianche eternivate”, “risuonate come le scarpe intatte”…Una inedita temporalità si profila: “futuro passato” di “altre/avventure, avvenute delusioni / del domani”, e si delinea una nuova poetica: tocca alla parola del poeta il compito epico di misurarsi con l’attuale impossibilità a narrare; e di trasformare il limite in varco aperto per l’invenzione.


Bibliografia

Cantare semplice, postfazione di N.Campana, Tam Tam Geiger, 1984
Lettere giovani, introduzione di M.Cucchi, Campanotto Editore, Udine, 1990
Il cantare, Campanotto Editore, Udine, 1991
Le Moradas ed Estranea (canzone), inediti.

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