Lucetta Frisa: ‘La follia dei morti’

 

 La follia dei morti

Lucetta Frisa

1993

Campanotto

“Parlami della morte in provenzale” – scrive la Frisa – ”È più dolce e lontana in provenzale/ sono dolci le parole in provenzale./ Parlami delle parole perché qualcuna torna se parli./ Nell’aria e per l’aria/ si muovono i versi./ Sibili melodiosi spezzano il ponte./ Senza aria si muore”. Dunque le parole antiche perché il nuovo riacquisti il suo significato. Diceva Marx che, dopo Hegel, bisognava far camminare l’uomo sui suoi piedi e non sulla testa a cui lo obbligava la filosofia idealistica. Ebbene l’uomo non cammina né sulla testa né sui piedi: ormai cammina sulla pancia. La poesia della Frisa, ma la poesia in generale, e si sforza invano di “muovere le parole” e di ricostruire l’antico sentire dell’uomo. Come nel quadro di Bruegel, i ciechi trascinano gli altri ciechi, e non ascoltano. Così si spegne la sete della vita.

(Franco Loi, “È dolce la morte in provenzale”, recensione a La follia dei morti. In “Il Sole 24 ore”, 24/8/1993)

 

La poesia della Frisa è uno dei volti di Ariele: la rarefazione pura non intesa come spiritualità ma come leggerezza e presenza del lato diverso della lingua e della mente. Ed è per l’appunto il filo a costituire l’immagine centrale e ossessiva di questa poesia. Il filo è continuità, durata, vita, ma anche leggerezza, docilità, spinta all’inermità. A due diverse declinazioni del filo si scandiscono i due tempi della poesia della Frisa; in I miti e le leggende e Ritmi del filo la poesia aveva andamenti fiabeschi, sia per l’esigenza della distanza, sia per costituirsi attraverso le varie leggendarie figurazioni, in una sorta di sarabanda cinetica di immagini, che ostentano nel loro aggrumarsi la corposità del filo.
[…] Credo che sia proprio il rapporto tra il ritmo del filo e la sua obliterazione ad aver promosso il secondo tempo di questa poesia. La costruzione del freddo, Modellandosi voce e La follia dei morti sono le diverse tappe della progressiva costruzione di una dimensione altra, in cui il viaggio del filo sia più durevole  e meno precario; ciò ha comportato un più robusto innesto di concetti a immagine e la conseguente crescita di un simbolismo sui propri materiali fiabeschi. Questo neosimbolismo non ha però valenze metafisiche o spirituali, anzi quanto più la poesia appare rarefatta tanto più assume un corpo fatto di ritmo, parole-corpo, voci, con evidente propensione a una teatralità del testo) ed una sua irrinunciabile vocazione tattile. Scaturisce una forte identità della poesia fino alla sua forma più limpida, nell’essere canto, dove la sicura misura delle varie magie in opera (dal ritmo all’immagine) permettono anche di recuperare il tempo minore dell’io o addirittura una personale interpretazione di poesia civile.

(Stefano Verdino, Il filo della poesia. In ”Nuova Corrente”, n. 112, 1993, pp. 253-254)

Giunta al suo quinto libro di poesia, l’autrice conferma in questo canzoniere d’amore la sua vena fra lirica e favolosa, senza peraltro perdere di vista né la lezione del passato (consistenti vi ritornano gli echi trobadorici e poi via via petrarcheschi, anche nella stessa orditura delle canzoni, senza peraltro che tali componenti appaiano studiate), né l’attualità del presente (la guerra del Golfo del 1991 suggerisce alcune tra le pagine più dense del volumetto). La qualità più rilevante del testo consiste nella sua ricca e originale invenzione linguistica, che non solo non ne riduce il margine di comunicativa intelligibilità, ma si rende apprezzabile per la costante tensione di ricerca che non impedisce il raggiungimento di un sorprendente esito di freschezza.

(Francesco de Nicola, scheda per La follia dei morti. In «I Limoni», Caramanica, 1994, p. 105)

[…] Ma l’abbandono, fuori dall’utilitarismo crudele e distruttivo della quotidianità, non è una facile fuga, una liberatoria dissennatezza (nella follia poetica il senno come senso e sensualità è vigilissimo), è piuttosto il punto d’arrivo (o di partenza) della parola come materia libera da ogni finalizzato orpello. La fuga non è verso il fuori, bensì verso la liberatoria prigionia del dentro. È l’in-significanza, non è la mancanza di senso, bensì la sensualità viva e terrigna, biologica e magmatica, dell’in come dentro, nella chiusa maniacale particolarità di un microcosmo dagli eventi innumerati, inarrestati e metamorfici. L’ozio oraziano e dionisiaco di questa follia della F. è il segno edificato di questa cocciuta volontà di essere nel cuore della materia e quindi dell’unica vita possibile, quella della presenza spaziale, oltre ogni nostalgia e rammarico.
Esemplare, entro l’articolata esuberanza di questa materia verbale che si dipana, ed è forte e resistente per le tredici parti della straordinaria plaquette [La follia dei morti] (sicuramente un punto di arrivo, e di partenza, nel lavoro ormai più che ventennale di Lucetta Frisa), rimane il capitolo primo Canzoni della canzone, che già nel titolo dichiara quel programma di edificazione materica al quale poco fa accennavo. Dire come dire il dire. Essere come essere. in cui si rivelano, indicibili in altro modo, per altra via che non sia quella della poesia i quando, i dove, i perché, i come.

(Gio Ferri, da «Materia e poesia», in «Arca», 2, 1998)

C’è qualcosa di scandaloso e di dickinsoniano – una palpabile, terrestre, sensualissima metafisica – in una poesia che, come questa, non si accontenta della sua istintiva musicalità ma cerca, dalla sua matrice sonora, di ricostituire un senso nuovo, che sia simultanea conquista di pensiero e di forma. Non abbandono compiaciuto alla tastiera delle parole, dunque, ma strumentazione adeguata di questo suono, costruzione di una sintassi che non prescinde dalla musica verbale ma che da essa e con essa, attraverso polifonie  e monodie, ridondanze e cesure, asprezze e assonanze, cerchi di “significare”. È come percepire un coagulo di immagini che non vogliano ostentare la loro supremazia, ma al contrario torcersi verso un pensiero, un discorso – qualcosa di simile a un logos che rinuncia alla sua autonomia filosofica e concettuale per essere soltanto pensiero laterale, riflessione che scaturisce dalle immagini che riflette. Alla sentenza di René Char: “Che cos’è la realtà, senza l’energia dislocante della poesia?”, risponde la definizione di Marina Cvetaeva: “Il poeta è un medium posseduto da voci”. Ecco l’ambiguità del poetico: essere chi perde la ragione, posseduto dall’estasi del canto; e chi, dentro quella magia, trova, non per miracolo ma per necessità, un testo che esprime e tradisce l’estasi iniziale. Nell’opera di Lucetta Frisa l’oggetto poetico, all’inizio, è il frammento di qualche architettura dimenticata. Ma la sintassi ipnotica e vigile del testo consente la misteriosa ricostruzione, fra ironia e malinconia, di quell’oggetto perduto, il viaggio à rébours verso una forma che resta sempre matrice e pozzo dell’opera a venire – forma che non si esaurisce mai con le poesie che porta alla luce ma è sempre traversata dal buio del prossimo verso.

(Marco Ercolani, Fra suono e voce, in “Arca”, n. 2, 1998, pp. 93-94)

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