Fabiano Alborghetti: ‘L’opposta riva’

 

L’opposta riva

Fabiano Alborghetti

2006

Lietocolle

La materia cui Alborghetti ha messo mano con questa sua opera di poesia, di particolare intensità e singolarità come si vorrà notare, non è di quelle che si possa fingere di ignorare.
Riguarda infatti gli emarginati, i fuggitivi, i “sans papier”, tutti quegli uomini insomma che riassuntivamente vengono chiamati in una parola “clandestini”.
Problema spinoso del nostro tempo, al quale qui si vuole soltanto accennare, e che trova il Paese coinvolto direttamente e duramente.
Alborghetti ha voluto avvicinarlo e approfondirlo non da osservatore neutrale, ma facendosi uno di loro, conquistandone la fiducia, avendone in cambio le confidenze, dividendo con loro i dolori e le asprezze della loro grama vita.
Tutto questo per un periodo di notevole ampiezza, perchè la scrittura apparisse lontana da ogni forma di approssimazione e di superficialità.
L’Autore, che ha già al suo attivo un a raccolta di poesie pubblicata dallo stesso editore, si presenta quindi al lettore con la preziosa originalità di questa seconda prova, la sua effettiva e rilevante novità.
La forma, lo stile che ne caratterizzano la qualità, stanno in un linguaggio chiaro, diretto, a volte teso, che non concede niente alla retorica e fa segnare al percorso espressivo di Alborghetti, infine alla sua poesia, un momento importante di raggiunta e compiuta maturità.

(dalla Prefazione di Giampiero Neri)


E dove altro credi possibile la mia presenza
se anche la mia terra è contro? Non rimane niente altro
che la cancellazione ripeteva un dirsi presenti

anche senza il luogo. Adesso conta diceva
fai la somma dei rimasti. Sottratti gli urti i lampi
i sacchi senza nome o le cataste di arti e bocche colme

di vuoto avrai la misura del rimanere, l’innominata ampiezza

E’ la la poesia che apre L’opposta riva (LietoColle 2006): il poeta si fa portavoce di un migrante, la cui presenza (in Italia) si sostanzia nella “cancellazione”, nel non-esserci; invisibilità già cominciata nella terra natia (“la mia terra è contro”) e conservata, quale ultima risorsa identitaria, qui, nell’opposta riva, che prende in consegna l’ombra, ciò-che-non-è-mai-stato. E’ come se la terra dei vivi fosse già da sempre aldilà, regno delle ombre, traghettate da un terzo mondo morituro ad un occidente fantasma, che le impiega poi per far funzionare quel fuoco eterno, laico e tutto esposto chiamato progresso.

L’identità migrante si gioca dunque nella cancellazione di un soggetto che per noi si costituisce, semplicisticamente, attraverso le sue parti anatomiche e i suoi bagagli (sacchi senza nome, cataste di arti, bocche colme di vuoto): è il tristo paesaggio di un ponte di nave stracolmo, disumano perché fatto di un unico corpo mostruoso (braccia, teste, denti estranei), un corpo plurimo che nasconde ai nostri occhi l’umano, che lo maschera e, così facendo, lo custodisce. In questo senso, “cancellazione” non è soltanto la risultante di un atto di censura violenta da parte delle burocrazie nazionali, ma può diventare una risorsa per chiunque riconosca, in questo denudamento biografico-oggettuale, in questa scarnificazione, “l’innominata ampiezza” dell’umano: soltanto interrogando “la cancellazione” possiamo infatti avvicinare il resto, ciò che rimane d’essenziale, ciò che resiste al mercato, all’omologazione: tolto tutto (il visibile, il catalogabile ecc.) qualcosa ancora chiede udienza: è, appunto, il resto, l’inavvicinabile, il differente in quanto tale, che è l’umanità stessa e che, nei derelitti, quasi affiora, quasi diventa tesoro sopravvissuto al disastro del capitalismo avanzato. Impariamo da loro almeno questo, sembra dirci, qui, Alborghetti.

(già su Blanc de ta nuque)

Stefano Guglielmin
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