Un’astrazione reale – Marco Ercolani su Gabriela Fantato

1.

«E il tempo intanto s’allunga/ ruga precisa dentro l’occhio». Strade a picco – prima sezione di Northern Geography (Gradiva Pubblications, 2002) di Gabriela Fantato – evoca il dilatarsi del tempo attraverso il segno preciso della ruga. Il verbo  «allungarsi» indica un tempo non lineare, non cronologico, filtrato dalla fantasia e dalla memoria, che cresce magicamente, come accade in sogno, e acquista componenti elastiche, proteiformi. I due versi della Fantato illustrano un suo procedimento, non tanto retorico e linguistico, quanto strutturale. Il pensiero si riflette in immagini concrete e sensuali, che vibrano di questo pensiero e lo testimoniano in segnali. L’autrice invoca il «martirio» – cioè il sacrificio di sé – «al fondo del bicchiere denso», in un bar «perso di fumo». Nessuna riflessione è separabile dalla sua ombra. L’emozione provata dal corpo vivo diventa lo specchio immediato, la traduzione simultanea di un pensare poetico lontano da formule filosofiche ma vicino a immagini sensoriali. L’«andare avanti, in furia», «piegati a terra dentro al camminare» indica come il poeta non possa mostrarci nulla senza questo tragico essere «piegati» – lontano ricordo gli hollow men della poesia eliotiana. L’annotazione metropolitana, il dettaglio domestico, sono elementi fondamentali di questa poesia «astratta e allarmante», come nota Milo De Angelis nella sua prefazione. Può, una poesia astratta, essere allarmante? Le forme chiuse dovrebbero conferire pace, solidità, confini. Ma, in questo caso, l’astrazione non viene a patti solo con l’accurata riduzione del mondo a poche righe ma con la sua molteplicità, sospesa tra figurazione misteriosa ed esplosione delle forme. La parola resta un segno ambiguo nell’aria e si modella all’interno delle sue stesse immagini. «Era un male di luna» – scrive – «quel passo lasciato indietro». Accennando a un dolore lunare, femminile, instabile, contraddittorio, non cerca il clima dell’evocazione. Va oltre, descrive corpi che passano, soffrono, lasciano segni: «quel passo lasciato indietro». La parola ha bisogno di riflessi, come la luna dei luoghi che illumina e dei corpi che attraversa per generarne rifrazioni, «ma le schiene si perdono/ tra le pietre di sempre». Potrebbe trattarsi della ripetizione rituale di un’angoscia, ma ciò che resta nella mente è solo l’immagine di schiene in mezzo a pietre. Fantato suggerisce l’analogia delle schiene con la rigidità della pietra. Rimanda alla durezza dell’osso, delle vertebre, che però non nomina. Se il dolore è inevitabile, per la poesia è necessario parlarne con immagini ellittiche, senza caricare la lingua di astratti simbolismi o didascalie morali. La parola poetica autonomina se stessa con una sintassi affidata a una sonnambolica lentezza, a una particolare obliquità. Si forma mentre viene detta, restando in qualche modo un grumo amniotico che tende a lacerarsi: «questa tenerezza di passi/ sopra stanze strette e tavoli/ di cibi che conosco/ somiglia a quella barca/ al molo, ricordi?/ Un anno fa/ che piccola mary si chiamava/ (la chiglia buona di ciliegio/ lustro e potente, ma il fondo/ proprio il fondo/ restava senza forza tra rive/ e l’azzurro aperto dentro gli occhi)». I passi nelle stanze, le mani strette sui tavoli, diventano una barca immobile, guardata da occhi spalancati. Gli oggetti descritti dalla memoria sono un luogo complesso, tumultuoso, modellato da un’energia violenta che non ammette separazioni con l’immaginazione. Il pensiero poetico è questa terra instabile, magicamente caotica, paragonabile, nel suo intricato svilupparsi, a un albero dai molti rami e dai molti frutti – con tortuose, invisibili radici.

2.

«Tentiamo la cima del tempo prima/ dell’infanzia: le ore segnate/ abbraccio dentro l’acqua./ I racconti salvati nel bisbiglio/ di una madre. Si potrebbe sentire/ la linea del legno, le schegge/ sulla pelle. Qualcuno lo farà./ A dopo il regno della voce, a dopo». Questi versi, tratti dal poemetto Frantumi, pubblicato ne Il tempo dovuto che raccoglie tutta la poesia dell’autrice fino al 2005, evocano il regno di una voce non ancora formata, un «essere a picco» delle parole, emblemi di un’asprezza ellittica, icastica, straniante, lontane da concilianti e innocue Stimmung. «È l’insonnia a riparare/ il danno? – chiedi e svaporano/ i dettagli incisi nel diario». Molti temi affiorano e si contrastano: desiderio di un’«intimità tra poro e poro», improvvise angosce regressive «domani avremo sguardi a gancio/ indietro il battito del cuore», in un andirivieni tra aperto e chiuso, tra segno vivo e trappola che ingoia, «del silenzio nutre quell’abbracciare/ quel tanto vorticare a notte». Poesia dopo poesia, si sviluppa una cantata profana che ondeggia tra libertà e prigionia, sull’orlo di una sintassi che libera  la parola nella frenesia del balzo o la riassorbe nel bianco del foglio. La lingua, scabra, si aggira su questo bordo inquieto, in uno spasmodico movimento di metamorfosi e fissità, a volte speculare, a volte discontinuo. I versi di Fantato hanno una ritmicità da variazione o da fuga, un loro canone interno che suggerisce stati di sopore e di trance. Sembrano animali violenti e non ammansiti, appena domati nello spazio chiuso di una forma breve, rigorosa e tenace, «Accadeva un pomeriggio/ il balzo, un farsi aria. Poi nulla»; combattono, all’interno della pagina, per spezzare una chiusura e provocare un’apertura, una ferita. In questo senso si potrebbe parlare di una poesia materica, che sonda la cieca pulsione del corpo per restituirla nell’onda della frase poetica, come la nitida incisione che rappresenta un paesaggio vulcanico. Ma Il tempo dovuto non è un libro magmatico o informe. I versi sono asciutti e solari. Delineano. Stagliano. Disegnano. Si tratta di una “musica da camera” ma anche di una pittura da interno psichico. Le immagini della mente, per l’autrice, sono forme chiuse e rigorose, ma sempre innescate da una violenza interna, che le rende acuminate, inservibili a qualsiasi consolazione. Questa poesia è un oggetto spinoso ma liscio, selvatico ma impenetrabile, dove al furore trattenuto delle parole risponde, immediatamente, la necessità del limite, la geometria della rappresentazione. In questo slancio, affilato dal rigore, Fantato  modella il suo stile. Propone una poesia affabile e intensa, ma tragica nella sua nudità linguistica, necessaria nel suo aderire a una natura interna ed esterna «Tento di ricongiungermi/ spalle e braccia come i sassi/ alla terra», che non indulge a facili consolazioni e trova le sue immagini più significative in certe scene quotidiane intraviste come percezioni anomale, come paesaggi estremi dell’anima. «Gabriela Fantato propende per una poesia che sia in grado, rispondendo alla sua primaria vocazione, di parlare a tutti e di scavare nell’intimo di chi scrive: secondo questa concezione appare chiaro che l’”io” è sempre soggetto della poesia, e che l’autointerrogazione di questo soggetto è linfa vitale del testo stesso» (Sandro Montalto). Ma questo scavo, questo autointerrogare l’io, è anche osservarne la molteplicità frantumata in schegge, immagini, visioni, da ricomporre in una nuova armonia. Ad ogni verso trapela la capacità della poesia di trasformare un silenzio estraneo ed ostile, voluto dagli altri, in un silenzio fertile di parole possibili, costruito per sé.

Forse Il tempo dovuto è anche il tempo del guarire, attraverso l’esorcismo delle parole e la persuasione delle immagini, dall’inguaribile vita; del ritrovare il vero silenzio della parola nel rapporto con un’immagine metamorfica, visionaria e oggettuale, che si innesta nelle forme della tradizione per ri-formarle, de-formarle, rinnovarle. Milo de Angelis, il poeta contemporaneo a cui l’autrice si sente più legata, scrive: «Morire è dunque perdere anche la morte, infinito/ presente, nessun appello, nessuna musica/ di una chiamata personale». A questa «nessuna musica» il poeta risponde per opposizione, come se «vivere» fosse perdere «anche la vita», in questo «infinito presente», ma non perdere la propria specifica voce, certa degli abissi che la circondano ma persuasa che occorre ancora sondarli non per trovare prevedibili nebbie ma per scovare mappe diverse, confini nuovi. Il senza-limite deve parlarci proprio dei suoi limiti e l’«assenza di voce» (Agamben) incantarci con le forme della sua afasia.

 

(Da Vertigine e misura, appunti sulla poesia  contemporaneaMarco Ercolani, La  Vita Felice, 2008)

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