Gabriela Fantato: ‘Enigma – Ventidue invocazioni’

Enigma – Ventidue invocazioni

Gabriela Fantato

pp. 32

DialogoLibri (collana Caffè Letterario)

 

(dalla Prefazione di Giancarlo Pontiggia)

Luogo di strani incantamenti e di fugaci apparizioni, di insanie, di forti imprese, di cangianti avventure, la selva ha costituito, per secoli, il centro creativo e inesauribile dei sublimi e sognanti cicli cavallereschi. “Sacro bosco”, in quelle pagine remote e favolose, era espressione frequente per dire un bosco magico, fatato, sovrannaturale: come le selve paurose in cui si perde Angelica nei versi meravigliosi (“O caro immaginar!”) del Boiardo e dell’Aristo. A quei “sacri boschi”si ispirarono, nel corso del Cinquecento, gli orrorosi, labirintici, sensuosi giardini delle ville italiche, là dove, come scrisse il Tasso nel sontuoso episodio degli amori di Armida e Rinaldo, “di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imiti”. Da uno di questi stregati ed enigmatici giardini, il cosidetto Sacro Bosco di Bomarzo, voluto dal principe Vicino Orsini nella seconda metà del Cinquecento, la pittrice Coca Frigerio aveva tratto spunto qualche anno fa per reinterpretare i XXII Arcani Maggiori dei Tarocchi, disposti contro uno sfondo di selve notturne e illuminate. Ed è proprio entro questo gioco di selvosi e magici trapassi, di suggestioni leggere ed inconsce, che si sono andati formando gli Enigmi di Gabriela Fantato, collocati nel “sacro bosco” della poesia come i misteriosi animali fantastici e mitologici nello spazio selvoso e araldico della villa di Bomarzo. Giardini veri, selve letterarie, tarocchi: spazi dove reale e immaginario s’intersecano e si potenziano in gemmate e frondose memorie, alla confluenza dei più ardui e iniziatici percorsi intellettuali con un sentimento concreto e popolare della vita. E’ il gusto antico dell’enciclopedia, il desiderio di inventariare il mondo che si fonde con la moderna indagine del profondo, i suoi emblemi più ciechi ed elementari. Gabriela Fantato guarda a quei simboli come un catalogo aperto ed inesauribile, spinta da una tensione immaginosa e conoscitiva che non disdegna tuttavia lo scatto didascalico, l’ingiunzione realistica. Tra sospensione e incessante flusso metamorfico, erratica visione e terrestre compimento, la vita sembra annunciarsi in questi versi per rapidi ed enigmatici scorci, fiorendo dalla materia dura ed esatta dei pensieri (petrosi, mineralizzanti) come le erbacce e i muschi dalla pietra severa di un gruppo scultoreo. Nell’alveo sentenzio so dei metri, dove il ritmo pare generato dalla marea obliqua e ondulata dei sogni, le parole si attorcono per festoni e spirali, ibridandosi, contaminandosi in linee curve, in tralci di suono, in aeree concavità di simboli e di antiche memorie, in spineti di immagini arcane e mutevoli. Se l’attitudine è manieristica, in simbiosi con le sue fonti visive, la sintassi non ignora moduli classicistici (come l’inversione; il lessico alto e storicamente stratificato; l’uso di anafore, anche strofiche, che ritmino, bilanciandolo, il flusso delle immagini; le ricercate allitterazioni dei suoni), mirando a una sorta di ieratica staticità. Il verso, nella sua misura libera ma ricca di echi della nostra tradizione, resta il centro immaginativo e modulare dell’ispirazione: soglia del pensare e confine del dire. Come la mica rilucente nei blocchi rocciosi di Bomarzo, come l’oro che fiamma nelle notti fosforescenti dei Tarocchi di Coca Frigerio, anche qui, dalla scorza dei versi rilucono parole-guida, parole-emblemi di un immaginario collettivo che è insieme, per sua natura, arcaico e moderno. La raccolta si costituisce dunque, al termine, quale opus alchemico e morale: attraverso le sue disarmoniche e contrastanti opposizioni. Anche nel “sacro bosco” di Bomarzo un’enorme testuggine regge sopra il guscio una donna con le ali e due corni, manieristico incrociarsi della Fama e della Fortuna, entrambi instabili e volanti. Festina lente, come dicevano i latini, che mi pare il giusto modo per avvicinarsi a questi versi, rapidi a occultarsi nella densità misteriosa dei simboli, ma anche lenti, ieratici nel loro fisso permanere, nella loro fuI gente sentenziosità.

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