Parola ai Poeti: Marco Giovenale

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Come ho potuto senza troppa ironia suggerire in occasione di un’altra inchiesta (promossa da Nazione indiana), a me sembra che numero e forse anche qualità delle scritture di poesia in Italia siano in condizioni quanto meno floride. Moltissimi autori, moltissimi, scrivono e anche pubblicano. Sono una quantità eccezionale, o normale in un contesto dominato dalla grande distribuzione di mainstream o nelle tante situazioni e strade fuori circuito, indipendenti, on line, eccetera.
La qualità si adegua a questo, come al momento storico. Statisticamente, è comunque impensabile che in tale situazione non ci siano standard, scarti dalla media, picchi di qualità e abbassamenti deplorevoli, eccetera, se appunto il numero degli scriventi è altissimo. Direi che è un fatto matematico, elementarmente statistico.
Questo implica anche, dedurrei, una certa prudenza nel giudizio. Proprio la quantità impressionante di scriventi, e anche di scriventi non pubblicati nella classica forma-libro, o non pubblicati affatto se non in piccole strutture, rende complesso il giudizio critico, tutto da articolare, tutto da pensare e ripensare.
Va anche detto che internet ha cambiato in parte lo stesso gesto del giudicare, per certi aspetti, lo ha reso magari più problematico, ha creato comunità che non si reggono sul giudizio in base a criteri testuali ma talvolta su affinità e consonanze che il testo non sa mettere in crisi, o anche semplicemente sulla “notizia” (di edizione, di collaborazione, ecc.) diffusa. Non solo la scrittura di qualità ha trovato online modo e nodi per fare il nido, ma anche il sottobosco e le scritture di medio-bassa o bassa o impresentabile qualità hanno costituito reti, sedi, siti, strutture, sodalizi. Né è certo se, in un contesto in cui tanto la scuola quanto l’università vanno perdendo rigore e capacità formative, ricompariranno più (almeno tra quelli che provengono da corsi di laurea in materie umanistiche) critici e autori capaci di analisi testuale, dotati di competenze filologiche, eccetera.
I poeti come stanno? Stanno bene, soffocati al caldo (della [auto]diffusione) come sono. O stanno malissimo, per la stessa ragione.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Non so altri, ma personalmente non ho affatto capito il momento giusto. E infatti, come accade a chi è giovane, e neanche tanto giovane da poter dire di mancare di esperienza (e io perciò, infine, colpevolmente), ho pubblicato, in rivista eccetera, troppo presto. Meglio sarebbe stato aspettare, saggiamente. Pubblicare più tardi. Poi di fatto – dopo l’errore quasigiovanile degli anni Ottanta-Novanta – ho pubblicato daccapo nel 2002, a 33 anni suonati. Considero ora questa ulteriore uscita la prima effettiva, vera. (“Matura”, direi, se il vocabolo ha un senso).
Bon. Avevo aspettato sette-otto anni in quasi assoluto silenzio, che in verità è stato fitto in senso laboratoriale, di studio, prima di decidermi a ricomparire, stavolta con qualcosa che (non per mio giudizio, cito altri) era pubblicabile, ma non semplicemente e solo pubblicabile.
In questo ahimé secondo, non primo (e però fortuntamente maturo, mi si dice) momento, la scelta è stata in parte non mia. È stata un’amica, fotografa, a volere accanto alle sue immagini il mio lavoro in versi. Era pronta una sequenza testuale, insieme alle foto, e l’editore e gallerista della mia amica ha felicemente accolto sue immagini e miei testi: così è nato Curvature, con Francesca Vitale, uscito per La camera verde di Andrea Semerano. Non avrei potuto scegliere meglio. Il dialogo con Andrea è stato prezioso anche negli anni successivi. Anche negli anni in cui non è stato il mio solo editore. Ma essendo il primo e il più sensibile, non può che essere stato al tempo, e continuare ad essere ora, per me, cruciale.
Di fatto, poi, la Camera verde è diventata ed è non soltanto e semplicemente un’idea editoriale. È un’idea della vita e un modo di essere, una comunità, prima di tutto. E, insieme, sì, galleria, casa editrice, luogo di eventi, letture, mostre, musica, proiezione di film.
Altra cosa fondamentale di Curvature, o forse la prima cosa, di questo che non è dunque cronologicamente il primo libro che ho visto pubblicato ma lo è emotivamente e letterariamente, consiste nel fatto che è mio solo a metà, la metà testuale. Il versante fotografico ne fa un testo complesso e di Francesca Vitale, che torno a ringraziare qui, ancora, pubblicamente, per questa idea, che ha rappresentato anche per lei in effetti un primo passo nel mondo editoriale.
Cosa mi aspettavo? Semplicemente ascolto per quella che pensavo essere (ed era, direi) scrittura di ricerca, e fotografia di ricerca. Non posso e non devo lamentarmi. A mio avviso il libro fu recepito come tale, opera di esperimento anche se ovviamente negli ambiti forse ristretti di chi legge poesia e si interessa di fotografia.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Sarei terrorizzato, nell’occuparmi di poesia in Italia. Vorrei, come editore, che altri eroi finanziatori redattori e tipografi procombessero loro al posto mio. Dico questo con sorriso, ma non troppo sorriso. La situazione, forse proprio in virtù degli autori infiniti che rumoreggiano, è difficile da gestire. Anche perché sì, l’Italia è il paese dove i poeti hanno soffocato – crescendo in quantità – tanto i navigatori che i santi, ma se si va in casa di molti auctores a sbirciare  quanti & quali libri leggano, specie di poesia, si rimane spesso delusissimi. Ergo, essere un editore in un paese e per un popolo di scrittori che non legge, è suicida. Ma vale un bonus da Hero o Monk, evangelizzatore o eroe del testo. Quindi forse sì, se avessi energia e capitali, e fossi editore, lavorerei con e per la poesia, anche se soprattutto ne tradurrei, come spesso m’è capitato di dire, dall’inglese e dal francese. Scritture di ricerca, non liriche, o meglio non mainstream. Per il mainstream confessionale, pulp, narrativo, alato, religioso, lirico, anticonfessionale, antipulp, buonista, straimpegnato, pseudo-antinarrativo, filosofico, antifilosofico, ineffabilista, antireligioso, sadico, orfico, antiorfico, abbiamo il rumoreggiare di cui sopra. Difficile non trovarne.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Forse in parte ho già risposto. Forse no. La rete dà respiro ma anche lo toglie. Ossia: riempie lo schermo di migliaia di blog e “materiali”. Soprattutto, credo sia importante che crescano (anche in impegno e severità) i luoghi in rete che selezionano rigorosamente secondo qualità le proposte poetiche, e le rilanciano.
Per quanto riguarda le librerie, sono gettate in una durissima lotta per la sopravvivenza, e non esitano a tagliare sugli acquisti, per non dover rimandare al mittente l’invenduto o rischiare troppo. Quindi forse se i lettori non s’impegnano un po’, e non visitano mai o visitano raramente lo scaffale di poesia, e non tentano di cambiarlo imponendo richieste ed esigenze di alterità disponendosi a pagare tale alterità (perché l’editoria, specie se piccola, naviga in acque buie), col tempo potrebbero trovare anche gli ultimi spazi occupati da gialletti rosa, da noir bluemoon, e da tanti altri gioiosi colori ancora.
Il pregio di internet è la libertà di pubblicazione (o sparizione nel gran mare navigabile), il peggior rischio io credo sia l’insorgenza inarrestabile dell’ondata del sottobosco. Il sottobosco, con la rete, è diventato onnipresente e irrefrenabile, proprio sfrenato sfrontato. Su myspace e altre “piattaforme sociali” ha poi una tale quantità e varietà di sortite da sostituire alla grande qualsiasi programma di funnies televisivo. I cuoricini e le ali, il vento frusciante, le rose in boccio, spesseggiano come le api sul campo. Robe da culto e da pianto.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Scrittura, complessità, competenze, gusto del dialogo, scambio di suggerimenti, letture comuni, distonie e sintonie, divergenze e contraddizioni, hanno sempre formato comunità, e hanno sciolto comunità. Dovrebbe essere, questa, la vita normale entro i confini del sistema letterario o più ampiamente culturale di un paese, di una lingua.
Internet facilita i contatti, ma rende anche più visibile e tutto-immediatamente-presente il sistema medesimo, il panorama. La mappa allo specchio. Questo rende complicato, in primis ai critici, orientarsi. E orientare.
I critici sono degli indicatori di rotte, e dei suggeritori, degli esploratori talvolta, al séguito degli – e perfino in anticipo sugli – scrittori. (Quando, per dire, individuano delle vie inedite in paesi stranieri, e le rendono note nel proprio). Ma in un sistema coeso – globalmente – grazie alla rete (per chi ne fa uso), questo ruolo rischia la crisi strutturale. Se i critici sono cartografi, e lavorano alle mappe, e danno indicazioni di percorso, come e con quali ulteriori addenda sapranno porsi, in un contesto storico in cui ci sono i navigatori satellitari, google maps?

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Il canone si stabilisce non appena apriamo bocca senza parlar di noi stessi. I primi nomi che ci scappano detti, siano effàti per elogi o ludibrio, di fatto costituiscono “canone”, e come canonizzati (o dissacrati, cioè formanti un calco negativo di canone) verranno presi. Dunque sarà sempre inaggirabile la “lista”, la tabella delle influenze, la pagellina dei somari a fronte di quella dei fuoriclasse, eccetera.
Non capisco invece la domanda che mi chiede se “nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento”. Guardando a quello che scrivo, almeno, ci sono a volte degli  omaggi e naturali semiconsci pedissequi calchi di regole (vogliamo parlare del novenario pascoliano?), e in altri casi delle libertà che “eccedono” nelle direzioni e oltre le direzioni delle avanguardie storiche. Mi piace o semplicemente mi sono rassegnato a essere considerato un lirico da quelli che sperimentano, e uno sperimentatore dai lirici, così resto sul gozzo a tutti e confermo la regola secondo cui la poesia non vende, e non vende perché è autolesionista.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Non posso esprimermi sull’attuale dicastero – dunque fare un riferimento puntuale al presente – e me ne rammarico, sì; di fatto non posso permettermi un’ennesima vicenda giudiziaria. Quindi taccio.
Su un piano “di principio”, la politica (italiana, in particolare) farebbe bene a stare lontana dalla cultura, ma è pur vero che un tot di aiuti sosterrebbe un’editoria altrimenti fragile, e poi festival, iniziative, eccetera. In un paese storicamente corrotto come il nostro, va detto, la faccenda gira male. Non so: detto con franchezza, non ho soluzioni. Se non, personalmente, la scelta (ormai ultradecennale) di lavorare in indipendenza, e anche con autoproduzioni e piccole realtà.
Per promuovere la buona scrittura, letteratura, poesia, basterebbe rimettere in piedi la scuola e l’università, seriamente. Cosa, questa, che è tecnicamente e materialmente impossibile non dico realizzare ma proprio pensare, per l’attuale classe politica (sinistra moderata inclusa). Una classe di imbelli pagati (non solo da chi li ha votati) per restare tali. Se un’utopia potesse auspicarsi, sarebbe quella dell’integrale immediata scomparsa di tale classe (un virus? una radiazione extraterrestre? meteoriti? alla fantascienza rispondere).

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Scuola, università. Ma in parte ne ho detto…

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Ogni poeta è differente, così come ogni cittadino o apolide è differente. Per un autore le responsabilità implicite nella (presa/posizione di) parola sono però oggettivamente più serie di quelle di un assenso (per esempio alla dittatura, al potere) che sia senza conseguenze comunicate. Di suo, d’altro canto, molta parte della scrittura migliore erede del Novecento – se veramente tale – è difficile che possa essere strutturalmente incline al potere. Almeno per una parte di autori che ancora possano considerarsi figli degni di quel secolo, insisto, è estremamente improbabile dirsi sia superficialmente apolitici sia retoricamente/frontalmente impegnati. (Ciò non toglie che ci siano tanto gli apolitici svagati e opportunisti, penso, quanto i sonatori di piffero, per dirla con la celeberrima battuta di Vittorini).

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

La parola ispirazione dovrebbe essere – nel belpaese della lirica facebook – sempre bombardata con i raggi N: e diventare così “inspirazione”, e riferirsi al semplice sistema respiratorio, con (appunto) generale sospiro di sollievo.
Disciplina e indisciplina sono fondamentali nell’iter (si spera assai arduo e lungo) delle giovani leve, come delle vecchie e noiose.
La scintilla è causata da tutto e da niente, come penso accada in ciascuno di noi, nel quotidiano (e spesso impoetico) esperire il senso – ovunque.
Il senso non siamo noi a tenerlo acceso, sostengo; accade il contrario: è quello che ci fonda. (Si tratta di essergli fedeli di volta in volta in modi plausibili, e secondo uno stile, anche).

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

L’idea di “comunicazione” in poesia, nelle arti, come mera trasmissione di informazioni anche complesse o travaso di visioni ed emozioni, è stata fortemente criticata, e giustamente, da Adorno, Barthes, da Deleuze, da tanti. Sono di questo stesso avviso. Siamo circondati per non dire assediati dalla comunicazione e dalle emozioni. È letteralmente impossibile accedere a un qualsiasi canale di passaggio di segni (tv, radio, giornali, libri, chiacchiere da bar, web, e altri mezzi di trasporto) senza venire trascinati dalla fiumana di info & feelings. Altrui e – mediati o diretti – propri.
La scrittura è sempre stata altro. È sempre stata la messa in evidenza, e il contemporaneo parziale e paradossale nascondimento, di un’occasione di senso, anche priva di significato, effimera, irrappresentabile, irriferibile; o apparentemente tutta-limpida. L’eco – il darsi di eco – da questo modularsi del senso-non-senso ha sempre creato il differente, il non atteso, quello scalino di alterità che costituisce i rilievi a cui merita dedicare la percezione attenta, l’ascolto attento.
Come la lingua non è uno “strumento” (nessuno si sognerebbe di chiamare “strumento” il proprio articolare parole, pensieri; la propria voce, le proprie mani, il viso: sono corpo, qualcosa di più e di meglio che “strumenti”), così la scrittura sensata, la scrittura poetica, così quella (diversa) post-poetica, e comunque la letteratura, l’arte, sono elementi costituitivi sia del nostro ambiente che del nostro corpo. Sono i laboratori o meglio l’acqua in cui cambiamo, mutiamo, nuotiamo, ci ricostruiamo e destrutturiamo. Ma – come in un nastro di Moebius – non si tratta di luoghi esterni a noi, ma di percorsi che imbocchiamo nel momento stesso in cui ci costituiscono. Formano la nostra stessa carne, la nuvola di segni che orienta le nostre decisioni.
La poesia ha messaggi storici, certo. Ma questi riguardano i critici, i lettori (di qui il loro importantissimo attivo agire ermeneutico, analitico, esplicitante…), assai meno l’autore, che talvolta non può aver del tutto chiara l’ampiezza o integrale entità, il peso, di quello che scrive. (Anche se può esserne o può volerne essere cosciente, tentare di esserlo).

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Pensano che la scrittura può diventare o non diventare parte della loro vita. Ci sono delle pagine che possono cambiare idee, modi di vedere le cose, ragionare, sentire. E delle pagine incapaci di offrire occasioni di conoscenza e cambiamento. Tutto questo – il positivo come il negativo – dipende tanto dal testo quanto dai leggenti.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Non so se la poesia possa essere un mestiere. Ho qualche dubbio che possa sostenersi come tale – a meno di non pensare alle varie trasformazioni del poeta cortigiano (paroliere di robe pop, o di prodotti televisivi, o di pubblicità, di slogan politici, per esempio). Attualmente, dopo 10 anni da libraio, faccio non troppo infelicemente l’editor, il traduttore, in sostanza proseguo su strade mie. Quindi non posso lamentarmi. In passato, per vivere, prima durante e dopo la laurea in Lettere, ho sempre fatto lavori che non avevano alcuna relazione con la letteratura. Anche – per non dire esclusivamente – lavori molto fisici, strettamente non intellettuali.
Ancora. Nel contesto italiano “scrivere per mestiere” ha quasi sempre un significato che comunque esula dalla scrittura “di versi”. Penso anche alla scrittura per cinema e televisione, che immagino possa far vivere (bene o male, non saprei dire); oppure al romanzo di genere o di successo, che tuttavia deve davvero vendere molto (quindi sfondare non una tantum) per mantenere un autore.

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per quanto riguarda la prima domanda, sull’orizzonte personale, ho una serie di progetti a cui tengo, anche saggistici. La produzione di senso non è affidata alla sola poesia, nel laboratorio che ho approntato – credo da sempre. Vorrei veder pubblicati dei lavori micronarrativi, dei saggi, e ovviamente continuare la ricerca poetica – che sta cristallizzando materiali credo interessanti, nelle varie direzioni indicate dalla raggiera di stili che ho nel tempo attivato e perseguo. (Tengo molto al plurale: stili. Non coincido interamente con Prosa in prosa, non coincido interamente con Shelter, non coincido con Curvature, né con il lavoro grafico e asemantico, che in parallelo porto avanti, eccetera. Il piano delle scritture è il piano del molteplice, del differire).
Per il futuro della poesia, sospetto che per l’Italia si apparecchi l’adventum di un’immensa sconfinata accorata Pangea lirica o neo-pulp neoespressionista o assertivamente antilirica (perfino peggio) che smotta verso un destino ancora incerto tra prevalere del sottobosco e autoimporsi di non sempre perdibili lirici nuovissimi-issimi. Vedo insomma un megacontinente a vegetazione uniforme, come dire pensiero unico, solo apparentemente variato: in realtà asseverantissimo sempre/ovunque. Con minime eccezioni, di specie minacciate che fanno macchia (esotica) qua e là, ruminata da rari bradipi o alieni.
Al di là del tono di sorriso, alla poesia e ai poeti oggi, cosa manca? In Italia, direi, manca non il coraggio ma spesso la conoscenza di quel che si fa fuori confine. Preciso: non la coscienza di quello che si fa in ambito neosurrealista, assertivo, neolirico, realista, eccetera. Ma di quel che si fa in ambito di ricerche e sperimentazioni (molteplici, differenti, variamente connotate, anche misinterpretabili come liriche, o perfino effettivamente liriche, ma ‘twisted’, inedite, distorte – rispetto a un aspetto sempreuguale che il mood lirico e perfino quello antilirico [ma pantagruelicamente iperlinguistico] assumono “chez nous”).

 

Postilla

Potrà forse sembrare in queste righe che io mi accanisca “contro” la lirica. (Da lettore di Gombrowicz?). Non è così, vo postillando.
Mi sta particolarmente a cuore comunque una scrittura che – minoritaria in Italia e diffusissima in mezzo mondo – non ha più affatto il termine “lirica” (e tante modalità asseverative che anche non alla lirica pertengono) come asse primario di funzionamento e base d’accordo nel contratto reciproco fra leggenti e scriventi. Diciamo che il vocabolo ha una sua utilità per la generalizzazione. Ma può effettivamente occultare i termini di un problema. Quale?
Per esempio il problema dato dal fatto che un’autrice come Amelia Rosselli, oggi, se scrivesse esattamente i libri che ha scritto, quasi certamente non troverebbe ricetto in nessuna delle collane di editoria “maggiore” in essere. Anche se si deve ammettere che una collana rigorosa come quella di Garzanti è penalizzata ora solo dalla scarsa quantità delle uscite, non dalla varietà, e nemmeno dall’apertura (essendo in qualche modo definibili felicemente ardui, ricchi/complessi, molti dei suoi autori).

 

 


 

Marco Giovenale (1969) vive e lavora a Roma, come editor e traduttore; collabora alla BiGLLI, Bibliografia  Generale della Lingua e Letteratura Italiana, pubblicata dalla casa editrice Salerno. Il suo libro di poesie più recente è Shelter (Donzelli, 2010). È redattore di GAMMM, «bina», lettere grosse, «Argo», «Sud», «Or», e di alcune pagine web non italiane.  Collabora, con recensioni, alle pagine culturali del «manifesto». È tra i curatori dello spazio “scrittura”  di http://www.privatephotoreview.com, sito della rivista di fotografia «Private». Fa parte del comitato di consulenza della rivista «La clessidra», e del gruppo di lettura della collana Nuova Poetica, delle edizioni Transeuropa. Nel 2010 ha ideato e fondato, con altri, il sito Punto critico. Suoi testi in rivista sono comparsi su «il verri», «Poesia», «Nuovi Argomenti», «Rendiconti», «Semicerchio», «Il Caffè Illustrato», «l’immaginazione», «Action Poétique», «Nioques», «OEI», «The new Review of Literature», «Aufgabe», «alfabeta2», «TRNSFR», e in altre sedi. Libri recenti: Numeri primi (Arcipelago, 2006), A gunless tea (Dusie, 2007), Criterio dei vetri (Oèdipus, 2007), La casa esposta (Le Lettere, 2007, collana fuoriformato), CDK (Tir aux pigeons, 2009), Soluzione della materia (La camera verde, 2009), Chalk (La camera verde, 2009), una semplice (issuu/compostxt, 2010), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), LIE LIE (La camera verde, 2010). Altre poesie e prose sono antologizzate in Parola plurale (Sossella, 2005), Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007), nell’antologia del Premio Antonio Delfini 2009, e nel n.30 de «L’Illuminista» (feb. 2011, ed. Ponte Sisto), fascicolo monografico a c. di V.Ostuni dedicato ai Poeti degli anni Zero (cfr. pp. 140-167). In una plaquette con Fiammetta Cirilli, autrice di Favola blu, pubblica la serie di testi Un’altra cosa notavo (La camera verde, 2009). Con i redattori di gammm.org è nel volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009, collana fuoriformato). Una sua raccolta indipendente di “prose in prosa” (e/o materiali flarf), intitolata Quasi tutti, esce nel 2010 nella collana Ex[t]ratione della casa editrice Polìmata. Per Sossella ha curato nel 2008 la raccolta di Roberto Roversi, Tre poesie e alcune prose. Una selezione di varie poesie e prose da diversi libri, curata dal sito Poesia2punto0, è leggibile all’indirizzo http://poesia2punto0.com/2010/09/11/marco-giovenale-quaderni/, ovvero: http://issuu.com/poesia2.0/docs/marco_giovenale_-_quaderni. Nel luglio-agosto 2010 ha creato un asemic google group, il blog aggregatore du-champ (con quasi mille siti di arte  e scrittura sperimentale mappati), il blog individuale/collettivo exp-net, e lo spazio online + idea + pratica della installance. La sua pagina web è http://slowforward.wordpress.com.

La foto è di Dino Ignani.

 

Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Come ho potuto senza troppa ironia suggerire in occasione di un’altra inchiesta (promossa da Nazione indiana), a me sembra che numero e forse anche qualità delle scritture di poesia in Italia siano in condizioni quanto meno floride. Moltissimi autori, moltissimi, scrivono e anche pubblicano. Sono una quantità eccezionale, o normale in un contesto dominato dalla grande distribuzione di mainstream o nelle tante situazioni e strade fuori circuito, indipendenti, on line, eccetera.

La qualità si adegua a questo, come al momento storico. Statisticamente, è comunque impensabile che in tale situazione non ci siano standard, scarti dalla media, picchi di qualità e abbassamenti deplorevoli, eccetera, se appunto il numero degli scriventi è altissimo. Direi che è un fatto matematico, elementarmente statistico.

Questo implica anche, dedurrei, una certa prudenza nel giudizio. Proprio la quantità impressionante di scriventi, e anche di scriventi non pubblicati nella classica forma-libro, o non pubblicati affatto se non in piccole strutture, rende complesso il giudizio critico, tutto da articolare, tutto da pensare e ripensare.

Va anche detto che internet ha cambiato in parte lo stesso gesto del giudicare, per certi aspetti, lo ha reso magari più problematico, ha creato comunità che non si reggono sul giudizio in base a criteri testuali ma talvolta su affinità e consonanze che il testo non sa mettere in crisi, o anche semplicemente sulla “notizia” (di edizione, di collaborazione, ecc.) diffusa. Non solo la scrittura di qualità ha trovato online modo e nodi per fare il nido, ma anche il sottobosco e le scritture di medio-bassa o bassa o impresentabile qualità hanno costituito reti, sedi, siti, strutture, sodalizi. Né è certo se, in un contesto in cui tanto la scuola quanto l’università vanno perdendo rigore e capacità formative, ricompariranno più (almeno tra quelli che provengono da corsi di laurea in materie umanistiche) critici e autori capaci di analisi testuale, dotati di competenze filologiche, eccetera.

I poeti come stanno? Stanno bene, soffocati al caldo (della [auto]diffusione) come sono. O stanno malissimo, per la stessa ragione.

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

Non so altri, ma personalmente non ho affatto capito il momento giusto. E infatti, come accade a chi è giovane, e neanche tanto giovane da poter dire di mancare di esperienza (e io perciò, infine, colpevolmente), ho pubblicato, in rivista eccetera, troppo presto. Meglio sarebbe stato aspettare, saggiamente. Pubblicare più tardi. Poi di fatto – dopo l’errore quasigiovanile degli anni Ottanta-Novanta – ho pubblicato daccapo nel 2002, a 33 anni suonati. Considero ora questa ulteriore uscita la prima effettiva, vera. (“Matura”, direi, se il vocabolo ha un senso).

Bon. Avevo aspettato sette-otto anni in quasi assoluto silenzio, che in verità è stato fitto in senso laboratoriale, di studio, prima di decidermi a ricomparire, stavolta con qualcosa che (non per mio giudizio, cito altri) era pubblicabile, ma non semplicemente e solo pubblicabile.

In questo ahimé secondo, non primo (e però fortuntamente maturo, mi si dice) momento, la scelta è stata in parte non mia. È stata un’amica, fotografa, a volere accanto alle sue immagini il mio lavoro in versi. Era pronta una sequenza testuale, insieme alle foto, e l’editore e gallerista della mia amica ha felicemente accolto sue immagini e miei testi: così è nato Curvature, con Francesca Vitale, uscito per La camera verde di Andrea Semerano. Non avrei potuto scegliere meglio. Il dialogo con Andrea è stato prezioso anche negli anni successivi. Anche negli anni in cui non è stato il mio solo editore. Ma essendo il primo e il più sensibile, non può che essere stato al tempo, e continuare ad essere ora, per me, cruciale.

Di fatto, poi, la Camera verde è diventata ed è non soltanto e semplicemente un’idea editoriale. È un’idea della vita e un modo di essere, una comunità, prima di tutto. E, insieme, sì, galleria, casa editrice, luogo di eventi, letture, mostre, musica, proiezione di film.

Altra cosa fondamentale di Curvature, o forse la prima cosa, di questo che non è dunque cronologicamente il primo libro che ho visto pubblicato ma lo è emotivamente e letterariamente, consiste nel fatto che è mio solo a metà, la metà testuale. Il versante fotografico ne fa un testo complesso e di Francesca Vitale, che torno a ringraziare qui, ancora, pubblicamente, per questa idea, che ha rappresentato anche per lei in effetti un primo passo nel mondo editoriale.

Cosa mi aspettavo? Semplicemente ascolto per quella che pensavo essere (ed era, direi) scrittura di ricerca, e fotografia di ricerca. Non posso e non devo lamentarmi. A mio avviso il libro fu recepito come tale, opera di esperimento anche se ovviamente negli ambiti forse ristretti di chi legge poesia e si interessa di fotografia.

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Sarei terrorizzato, nell’occuparmi di poesia in Italia. Vorrei, come editore, che altri eroi finanziatori redattori e tipografi procombessero loro al posto mio. Dico questo con sorriso, ma non troppo sorriso. La situazione, forse proprio in virtù degli autori infiniti che rumoreggiano, è difficile da gestire. Anche perché sì, l’Italia è il paese dove i poeti hanno soffocato – crescendo in quantità – tanto i navigatori che i santi, ma se si va in casa di molti auctores a sbirciare quanti & quali libri leggano, specie di poesia, si rimane spesso delusissimi. Ergo, essere un editore in un paese e per un popolo di scrittori che non legge, è suicida. Ma vale un bonus da Hero o Monk, evangelizzatore o eroe del testo. Quindi forse sì, se avessi energia e capitali, e fossi editore, lavorerei con e per la poesia, anche se soprattutto ne tradurrei, come spesso m’è capitato di dire, dall’inglese e dal francese. Scritture di ricerca, non liriche, o meglio non mainstream. Per il mainstream confessionale, pulp, narrativo, alato, religioso, lirico, anticonfessionale, antipulp, buonista, straimpegnato, pseudo-antinarrativo, filosofico, antifilosofico, ineffabilista, antireligioso, sadico, orfico, antiorfico, abbiamo il rumoreggiare di cui sopra. Difficile non trovarne.

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Forse in parte ho già risposto. Forse no. La rete dà respiro ma anche lo toglie. Ossia: riempie lo schermo di migliaia di blog e “materiali”. Soprattutto, credo sia importante che crescano (anche in impegno e severità) i luoghi in rete che selezionano rigorosamente secondo qualità le proposte poetiche, e le rilanciano.

Per quanto riguarda le librerie, sono gettate in una durissima lotta per la sopravvivenza, e non esitano a tagliare sugli acquisti, per non dover rimandare al mittente l’invenduto o rischiare troppo. Quindi forse se i lettori non s’impegnano un po’, e non visitano mai o visitano raramente lo scaffale di poesia, e non tentano di cambiarlo imponendo richieste ed esigenze di alterità disponendosi a pagare tale alterità (perché l’editoria, specie se piccola, naviga in acque buie), col tempo potrebbero trovare anche gli ultimi spazi occupati da gialletti rosa, da noir bluemoon, e da tanti altri gioiosi colori ancora.

Il pregio di internet è la libertà di pubblicazione (o sparizione nel gran mare navigabile), il peggior rischio io credo sia l’insorgenza inarrestabile dell’ondata del sottobosco. Il sottobosco, con la rete, è diventato onnipresente e irrefrenabile, proprio sfrenato sfrontato. Su myspace e altre “piattaforme sociali” ha poi una tale quantità e varietà di sortite da sostituire alla grande qualsiasi programma di funnies televisivo. I cuoricini e le ali, il vento frusciante, le rose in boccio, spesseggiano come le api sul campo. Robe da culto e da pianto.

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Scrittura, complessità, competenze, gusto del dialogo, scambio di suggerimenti, letture comuni, distonie e sintonie, divergenze e contraddizioni, hanno sempre formato comunità, e hanno sciolto comunità. Dovrebbe essere, questa, la vita normale entro i confini del sistema letterario o più ampiamente culturale di un paese, di una lingua.

Internet facilita i contatti, ma rende anche più visibile e tutto-immediatamente-presente il sistema medesimo, il panorama. La mappa allo specchio. Questo rende complicato, in primis ai critici, orientarsi. E orientare.

I critici sono degli indicatori di rotte, e dei suggeritori, degli esploratori talvolta, al séguito degli – e perfino in anticipo sugli – scrittori. (Quando, per dire, individuano delle vie inedite in paesi stranieri, e le rendono note nel proprio). Ma in un sistema coeso – globalmente – grazie alla rete (per chi ne fa uso), questo ruolo rischia la crisi strutturale. Se i critici sono cartografi, e lavorano alle mappe, e danno indicazioni di percorso, come e con quali ulteriori addenda sapranno porsi, in un contesto storico in cui ci sono i navigatori satellitari, google maps?

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Il canone si stabilisce non appena apriamo bocca senza parlar di noi stessi. I primi nomi che ci scappano detti, siano effàti per elogi o ludibrio, di fatto costituiscono “canone”, e come canonizzati (o dissacrati, cioè formanti un calco negativo di canone) verranno presi. Dunque sarà sempre inaggirabile la “lista”, la tabella delle influenze, la pagellina dei somari a fronte di quella dei fuoriclasse, eccetera.

Non capisco invece la domanda che mi chiede se “nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento”. Guardando a quello che scrivo, almeno, ci sono a volte degli omaggi e naturali semiconsci pedissequi calchi di regole (vogliamo parlare del novenario pascoliano?), e in altri casi delle libertà che “eccedono” nelle direzioni e oltre le direzioni delle avanguardie storiche. Mi piace o semplicemente mi sono rassegnato a essere considerato un lirico da quelli che sperimentano, e uno sperimentatore dai lirici, così resto sul gozzo a tutti e confermo la regola secondo cui la poesia non vende, e non vende perché è autolesionista.

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Non posso esprimermi sull’attuale dicastero – dunque fare un riferimento puntuale al presente – e me ne rammarico, sì; di fatto non posso permettermi un’ennesima vicenda giudiziaria. Quindi taccio.

Su un piano “di principio”, la politica (italiana, in particolare) farebbe bene a stare lontana dalla cultura, ma è pur vero che un tot di aiuti sosterrebbe un’editoria altrimenti fragile, e poi festival, iniziative, eccetera. In un paese storicamente corrotto come il nostro, va detto, la faccenda gira male. Non so: detto con franchezza, non ho soluzioni. Se non, personalmente, la scelta (ormai ultradecennale) di lavorare in indipendenza, e anche con autoproduzioni e piccole realtà.

Per promuovere la buona scrittura, letteratura, poesia, basterebbe rimettere in piedi la scuola e l’università, seriamente. Cosa, questa, che è tecnicamente e materialmente impossibile non dico realizzare ma proprio pensare, per l’attuale classe politica (sinistra moderata inclusa). Una classe di imbelli pagati (non solo da chi li ha votati) per restare tali. Se un’utopia potesse auspicarsi, sarebbe quella dell’integrale immediata scomparsa di tale classe (un virus? una radiazione extraterrestre? meteoriti? alla fantascienza rispondere).

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Scuola, università. Ma in parte ne ho detto…

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Ogni poeta è differente, così come ogni cittadino o apolide è differente. Per un autore le responsabilità implicite nella (presa/posizione di) parola sono però oggettivamente più serie di quelle di un assenso (per esempio alla dittatura, al potere) che sia senza conseguenze comunicate. Di suo, d’altro canto, molta parte della scrittura migliore erede del Novecento – se veramente tale – è difficile che possa essere strutturalmente incline al potere. Almeno per una parte di autori che ancora possano considerarsi figli degni di quel secolo, insisto, è estremamente improbabile dirsi sia superficialmente apolitici sia retoricamente/frontalmente impegnati. (Ciò non toglie che ci siano tanto gli apolitici svagati e opportunisti, penso, quanto i sonatori di piffero, per dirla con la celeberrima battuta di Vittorini).

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

La parola ispirazione dovrebbe essere – nel belpaese della lirica facebook – sempre bombardata con i raggi N: e diventare così “inspirazione”, e riferirsi al semplice sistema respiratorio, con (appunto) generale sospiro di sollievo.

Disciplina e indisciplina sono fondamentali nell’iter (si spera assai arduo e lungo) delle giovani leve, come delle vecchie e noiose.

La scintilla è causata da tutto e da niente, come penso accada in ciascuno di noi, nel quotidiano (e spesso impoetico) esperire il senso – ovunque.

Il senso non siamo noi a tenerlo acceso, sostengo; accade il contrario: è quello che ci fonda. (Si tratta di essergli fedeli di volta in volta in modi plausibili, e secondo uno stile, anche).

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

L’idea di “comunicazione” in poesia, nelle arti, come mera trasmissione di informazioni anche complesse o travaso di visioni ed emozioni, è stata fortemente criticata, e giustamente, da Adorno, Barthes, da Deleuze, da tanti. Sono di questo stesso avviso. Siamo circondati per non dire assediati dalla comunicazione e dalle emozioni. È letteralmente impossibile accedere a un qualsiasi canale di passaggio di segni (tv, radio, giornali, libri, chiacchiere da bar, web, e altri mezzi di trasporto) senza venire trascinati dalla fiumana di info & feelings. Altrui e – mediati o diretti – propri.

La scrittura è sempre stata altro. È sempre stata la messa in evidenza, e il contemporaneo parziale e paradossale nascondimento, di un’occasione di senso, anche priva di significato, effimera, irrappresentabile, irriferibile; o apparentemente tutta-limpida. L’eco – il darsi di eco – da questo modularsi del senso-non-senso ha sempre creato il differente, il non atteso, quello scalino di alterità che costituisce i rilievi a cui merita dedicare la percezione attenta, l’ascolto attento.

Come la lingua non è uno “strumento” (nessuno si sognerebbe di chiamare “strumento” il proprio articolare parole, pensieri; la propria voce, le proprie mani, il viso: sono corpo, qualcosa di più e di meglio che “strumenti”), così la scrittura sensata, la scrittura poetica, così quella (diversa) post-poetica, e comunque la letteratura, l’arte, sono elementi costituitivi sia del nostro ambiente che del nostro corpo. Sono i laboratori o meglio l’acqua in cui cambiamo, mutiamo, nuotiamo, ci ricostruiamo e destrutturiamo. Ma – come in un nastro di Moebius – non si tratta di luoghi esterni a noi, ma di percorsi che imbocchiamo nel momento stesso in cui ci costituiscono. Formano la nostra stessa carne, la nuvola di segni che orienta le nostre decisioni.

La poesia ha messaggi storici, certo. Ma questi riguardano i critici, i lettori (di qui il loro importantissimo attivo agire ermeneutico, analitico, esplicitante…), assai meno l’autore, che talvolta non può aver del tutto chiara l’ampiezza o integrale entità, il peso, di quello che scrive. (Anche se può esserne o può volerne essere cosciente, tentare di esserlo).

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Pensano che la scrittura può diventare o non diventare parte della loro vita. Ci sono delle pagine che possono cambiare idee, modi di vedere le cose, ragionare, sentire. E delle pagine incapaci di offrire occasioni di conoscenza e cambiamento. Tutto questo – il positivo come il negativo – dipende tanto dal testo quanto dai leggenti.

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Non so se la poesia possa essere un mestiere. Ho qualche dubbio che possa sostenersi come tale – a meno di non pensare alle varie trasformazioni del poeta cortigiano (paroliere di robe pop, o di prodotti televisivi, o di pubblicità, di slogan politici, per esempio). Attualmente, dopo 10 anni da libraio, faccio non troppo infelicemente l’editor, il traduttore, in sostanza proseguo su strade mie. Quindi non posso lamentarmi. In passato, per vivere, prima durante e dopo la laurea in Lettere, ho sempre fatto lavori che non avevano alcuna relazione con la letteratura. Anche – per non dire esclusivamente – lavori molto fisici, strettamente non intellettuali.

Ancora. Nel contesto italiano “scrivere per mestiere” ha quasi sempre un significato che comunque esula dalla scrittura “di versi”. Penso anche alla scrittura per cinema e televisione, che immagino possa far vivere (bene o male, non saprei dire); oppure al romanzo di genere o di successo, che tuttavia deve davvero vendere molto (quindi sfondare non una tantum) per mantenere un autore.

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per quanto riguarda la prima domanda, sull’orizzonte personale, ho una serie di progetti a cui tengo, anche saggistici. La produzione di senso non è affidata alla sola poesia, nel laboratorio che ho approntato – credo da sempre. Vorrei veder pubblicati dei lavori micronarrativi, dei saggi, e ovviamente continuare la ricerca poetica – che sta cristallizzando materiali credo interessanti, nelle varie direzioni indicate dalla raggiera di stili che ho nel tempo attivato e perseguo. (Tengo molto al plurale: stili. Non coincido interamente con Prosa in prosa, non coincido interamente con Shelter, non coincido con Curvature, né con il lavoro grafico e asemantico, che in parallelo porto avanti, eccetera. Il piano delle scritture è il piano del molteplice, del differire).

Per il futuro della poesia, sospetto che per l’Italia si apparecchi l’adventum di un’immensa sconfinata accorata Pangea lirica o neo-pulp neoespressionista o assertivamente antilirica (perfino peggio) che smotta verso un destino ancora incerto tra prevalere del sottobosco e autoimporsi di non sempre perdibili lirici nuovissimi-issimi. Vedo insomma un megacontinente a vegetazione uniforme, come dire pensiero unico, solo apparentemente variato: in realtà asseverantissimo sempre/ovunque. Con minime eccezioni, di specie minacciate che fanno macchia (esotica) qua e là, ruminata da rari bradipi o alieni.

Al di là del tono di sorriso, alla poesia e ai poeti oggi, cosa manca? In Italia, direi, manca non il coraggio ma spesso la conoscenza di quel che si fa fuori confine. Preciso: non la coscienza di quello che si fa in ambito neosurrealista, assertivo, neolirico, realista, eccetera. Ma di quel che si fa in ambito di ricerche e sperimentazioni (molteplici, differenti, variamente connotate, anche misinterpretabili come liriche, o perfino effettivamente liriche, ma ‘twisted’, inedite, distorte – rispetto a un aspetto sempreuguale che il mood lirico e perfino quello antilirico [ma pantagruelicamente iperlinguistico] assumono “chez nous”).

Postilla

Potrà forse sembrare in queste righe che io mi accanisca “contro” la lirica. (Da lettore di Gombrowicz?). Non è così, vo postillando.

Mi sta particolarmente a cuore comunque una scrittura che – minoritaria in Italia e diffusissima in mezzo mondo – non ha più affatto il termine “lirica” (e tante modalità asseverative che anche non alla lirica pertengono) come asse primario di funzionamento e base d’accordo nel contratto reciproco fra leggenti e scriventi. Diciamo che il vocabolo ha una sua utilità per la generalizzazione. Ma può effettivamente occultare i termini di un problema. Quale?

Per esempio il problema dato dal fatto che un’autrice come Amelia Rosselli, oggi, se scrivesse esattamente i libri che ha scritto, quasi certamente non troverebbe ricetto in nessuna delle collane di editoria “maggiore” in essere. Anche se si deve ammettere che una collana rigorosa come quella di Garzanti è penalizzata ora solo dalla scarsa quantità delle uscite, non dalla varietà, e nemmeno dall’apertura (essendo in qualche modo definibili felicemente ardui, ricchi/complessi, molti dei suoi autori).

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  • caro Luigi,
    confesso: la mia idea di senso è talmente smarginata da comprendere E non comprendere l’altro (in accezione amplissima). Il percorso formativo di qualunque soggetto evidentemente non è pensabile al di fuori di una ‘sociazione’, di aggregazioni, e di una ripresentazione al soggetto dei codici e delle cose e del senso condiviso/condivisibile che è stato specchiato, filtrato, differenziato, modificato da altri soggetti. Questa è assolutamente la base. (Mi pare di poter dire). Ok.

    Fatto ciò, il soggetto è estremamente indipendente. L’esperienza di senso che si fa – ad esempio – nella totalmente disinteressata osservazione di un paesaggio, viaggiando sul treno per esempio, non include nemmeno un frammento di “altro” (inteso come emittente jakobsoniano “in persona”). Non c’è nessun autore del paesaggio. Si è fatto da sé. Ovviamente: se ci parla è perché arriviamo a osservarlo con occhi “umani”, ossia formati da miliardi di occasioni di senso esperite in un consesso – appunto – umano, e in una storia (personale e collettiva) che include un processo complessissimo di sociazione, di suddivisione inconscia di segnali, di aggregazione di dati e – appunto – occasioni di esperienza di senso, …

    Ma poi di fronte a quel che vediamo siamo totalmente liberi e soli. (Certo, entro una “Solitudine troppo rumorosa”, per rubare un titolo a Hrabal).

    Sul discorso della decostruzione, continuo a non capire. La decostruzione in Italia non è passata assolutamente. Trovi tanto storicismo, tante storie, tanti narratori: l’Italia, ben che vada, si è fermata anzi si fermò a una (cattiva, spesso) idea di strutturalismo. Almeno questa è la mia impressione. Non vedo proprio nessuno che “smonta il giocattolo” (che – insisto – NON è comunque il lavoro della decostruzione). (Rinvio al precedente commento). E se lo vedessi lo criticherei anch’io, perché non è con una pratica di puro smontaggio che si combina qualcosa.

  • Grazie Marco – magari sono io quello un po’ “peso” che chiede sempre le stesse cose 🙂

    Sul tema del senso: mi è parso come se tu lo facessi coincidere con una “sensazione”, una percezione che ha il suo fondamento nell’individuo che esperisce una data circostanza etc. O comunque, mi pare di capire che tu inquadri il senso – distinguendolo dal significato, importante! – all’interno del sogetto. Sono d’accordissimo sulla distinzione senso/significato, però credo che non possa esservi senso senza uno scambio: ovvero, il senso trova il suo fondamento sempre nell’altro, mentre io sono quello che lo accoglie. Anche se l’esperienza è mia, se non c’è l’altro l’esperienza non ha alcun senso – oppure, non ho strumenti per ricevere il senso dell’esperienza che è la stessa cosa.

    Rispetto alla decostruzione: il simbolo. Per me è veicolo di senso (perché polisemico/morfico) a prescindere dal significato che di era in era gli si voglia dare. Con la decostruzione – che se non è un esercizio di stile o una pippa mentale è molto “costruttiva” – io vedo un problema: a forza di smontare il giocattolo per vivisezionarne la struttura, l’impalcatura, non è che si rischia di rimanere coi pali in mano senza sapere più come rimontarlo (anche in una differente configurazione)? Insomma, la fantomatica “crisi di valori del posmoderno” è molto figlia della decostruzione. Ci tengo a sottolineare che con questo non intendo assolutamente dire che la poesia dovrebbe inviare messaggi o roba simile. Forse però la vedrei bene impegnata in uno sforzo verso la ricostruzione di nuovi possibili e possibilmente variati simboli. Una specie di restituzione di senso.
    È pur vero che il tentativo di certe poetiche è quello di includere il lettore in questa costruzione.

    La conclusione è: anni di studio 🙂

    Luigi B.

  • Non mi va di aggiungere altra carne al fuoco, perché mi pare sia stato detto davvero tantissimo, forse tutto.

    Però mi sento di sottolineare una cosa che per me è molto importante e che, a mio parere nessuno sottolinea.

    L’importanza di schiettezza, di onestà, di limpidezza, nel fare poesia. L’importanza di verità.

    Anche se a volte non ritrovo scelte estetiche vicine alle mie nel Grande Marco Giovenale, però mi sento di sottolineare la sua onestà intellettuale. Eccone una frase/sintomo:

    “Non so altri, ma personalmente non ho affatto capito il momento giusto.”

    con i miei migliori pensieri,
    con grande rispetto,
    ma fuori dal rifugio

    Riccardo Raimondo

  • caro Luigi, grazie del commento. Parlo sempre del senso nell’accezione legata al Kant letto da Garroni (è un ritornello stancante, questo mio: mi rendo conto di essere noioso e me ne scuso). Il senso “è” una faccenda inafferrabile generalissima che sta (col suo sfondo di non-senso; altrimenti non lo vedremmo neppure) in tutto quel che facciamo. La comprensione immediata e istintiva e inavvertita (per questo da noi non curata come cosa di gran valore) di una regola di funzionamento di un meccanismo, la riuscita di un dialogo, il riconoscimento di un sapore, una magistrale partita a scacchi, tutte possono essere esperienze di avvertimento (e godimento conseguente) del passaggio del senso.

    In breve: non c’è un perimetro o luogo elettivo dove il senso abita. Proprio perché di senso si parla al momento del suo passaggio, e come condizione di possibilità del nostro esperire in generale (esperire “qualsiasi” esperienza) e non come zona circoscritta a una determinata “categoria” di robe (tipo: “l’opera d’arte”).

    Questo distingue l’estetica (che *non* si occupa solo di arte; che *non* è un’area “speciale” dell’esperire) dalle poetiche, che possono essere tante, e in queste ognuno ha gioco di far quel che meglio crede, offrendo ai lettori/osservatori il suo proprio specifico modo (“di zona”, “di area”, limitato) di circuire cortocircuitare sottrarre edificare esibire quello che per lui è un senso (o un’occasione per goderne il passaggio).

    Lo fa attraverso (appunto) una poetica. E attraverso una sensibilità personale che, entro quella poetica, gli fa scegliere una prassi di scrittura (opera) o un’altra.
    *
    Sul tema della decostruzione invece penso di non aver capito bene la domanda. Decostruire può voler dire osservare le impalcature di una costruzione che si dimostra essere (grazie all’osservazione stessa) meno internamente ‘fondata’ di quanto pensavamo; più aperta a negazioni interne, a deviazioni. “Decostruire” viene spesso assimilato a “demolire”, e questo fa tornare in campo una logica dualista (=”se non si costruisce si demolisce soltanto”) semplicemente inutile, quando proprio va bene.

    Uhm, ma termino, per ora. Mille altre questioni entrano in campo. Come fare per navigarci dentro? Al di là del rimettersi al passaggio degli anni (di studio) non saprei come rispondere.

    Un esempio di decostruzione (ma ‘pensata’ secondo una poetica che a sua volta non è esterna a una decostruibilità, a una messa in crisi) è nelle sibille asemantiche, per dire. Non so. O nel lavoro dissipativo di alcune scritture installative, monolitiche e inaffrontabili serialmente. Cose che stanno un po’ a cavallo fra testo e scultura, insomma.

  • Il canone si stabilisce non appena apriamo bocca senza parlar di noi stessi.

    credo sia questa l’affermazione che mi ha colpito di più dell’intera intervista: me la segno.

    Di tutto il resto, invece, credo che sia assolutamente necessario sviluppare in maniera molto, ma molto seria la questione del web-sottobosco-critica. La mia principale difficoltà è proprio quella di orientarmi nel marasma generale, tra il mainstream polpettone ufficiale, il mainstream aggressivo e frustrato del sottobosco, la roba seria e sconosciuta, gli sperimentalismi venuti male, i critici che latiteggiano, i critici markettari e le recensioni da 4 di copertina sui giornali. Insomma: una faticaccia. A tutto questo va aggiunta la inacettabile impossibilità di leggere tutto quanto viene scritto sul pianeta terra.

    Altra cosa che mi ha molto incuriosito:
    prima l’affermazione

    Il senso non siamo noi a tenerlo acceso, sostengo; accade il contrario: è quello che ci fonda.

    con la quale sono assolutamente d’accordo. Ciò che non mi è chiaro è: il senso che ci fonda da dove viene? o, meglio: da chi? (se c’è un chi.

    Altra domanda importantissima (per me): lo scrittore/autore può fondare, può fungere da Altro che fonda con un senso? Se sì (ma anche se no), in questo discorso come interviene la “decostruzione” che caratterizza la gran parte delle nuove scritture?

    Luigi B.

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