‘Aprile degli anni’, di Francesco Dalessandro – una nota di Domenico Vuoto

Aprile degli anni 

Francesco Dalessandro

2010, pp. 78

Puntoacapo

Non è poesia ciò che non porta in sé e cattura
altra poesia, e ne è infine contaminata.

Anonimo

Parafrasando Mallarmé, potrei dire: Ahimè, la carne è triste, e io non so molto di poesia. Potrei precisare che il mio rapporto con la poesia è immediato (o quasi), affidato al gusto, all’amore per la parola poetica, più che a una conoscenza specifica della poesia – e del fare poesia.
La mia, insomma, è una semplice – e sicuramente imperfetta – testimonianza.
Andando all’opera complessiva di Francesco Dalessandro, non posso non accennare, ma senza quelle piaggerie dettate da un malinteso senso dell’amicizia, al carattere schivo e, aggiungerei, umile del suo autore, alla sua inclinazione a un lavoro che non contempla l’urlo, il proclama; al suo non volersi rappresentare come emblema di ruoli e sentimenti universali.
La sua stessa poesia è discreta, composta nelle forme di una classicità che tuttavia non disdegna fratture e sussulti, seppure controllati, nel dispiegamento delle parole e dei versi. I quali sono caratterizzati da un rigore linguistico e da un’intensità di pensiero che si ritrovano in Aprile degli anni, raccolta monotematica, dove è centrale, nel gioco delle sue variazioni, l’amore. Il libro, bisogna aggiungere, più inevitabilmente strutturato della sua produzione – la monotematicità imponendo del resto una costruzione sorvegliata e perfino, se il sostantivo non suonasse un po’ inquietante, premeditazione. E dove gli echi di altre esperienze poetiche, classiche e contemporanee – dalla poesia trovadorica e stilnovistica, passando attraverso quella barocca italiana e spagnola e poi leopardiana, fino a poeti come Cummings – finalizzate al racconto del sentimento in questione, sono dall’autore, inesausto rabdomante, scoperti e riletti con rispettosa e onesta denuncia delle fonti, e infine rielaborati in composizioni autonome con esiti, a mio parere, eccellenti.
Nella raccolta, alle attese, alle invocazioni o alle preghiere d’amore – nei riguardi della Poesia e per il sentimento in sé – fanno seguito i ragionamenti d’amore – e sull’amore. Un’esemplare partitura che affida la sua piena riuscita a quella che definirei “intelligenza del cuore”. Con una precisa scansione in movimenti che sembrano rievocare le stagioni vivaldiane. In forma di nuvola di pioggia, Ore leggere, Aprile e gli anni, Canti più incerti del canto, i titoli delle quattro sezioni, sono già di per sé estremamente evocativi.  In ognuno, lo svariare del sentimento trova conferma in quello dei toni. Versi di cristallina distensione, come: Oh mattini fragranti di dicembre / (che aprite il cuore ravvivando / la brace del segreto e i due segni / della sua gloria oh passeri)…, si alternano a brani nei quali la poesia si accende in una tempesta dei sensi e l’erotismo, formidabile arte del desiderio, raggiunge punte di inusitata “sfrontatezza” lessicale che riecheggiano le temerarietà di altri poeti (penso, per rimanere al presente, a Jude Stéfan): … l’agitato / estuario fra le tue gambe dove tumida / e aperta spande profumi la carnale / ninfea rosa…
Delle attese e invocazioni d’amore danno ampio conto i versi-esergo Aspettando la poesia, in una stazione della metro che hanno un loro specchio sconsolato (l’allontanamento della poesia davanti al distante indaffararsi della gente / (e la smorta espressione di volti/ brutali come morti ambulanti, alle immagini di una realtà privata di senso, osservata dal poeta dalle finestre della metro) nell’ultima composizione, In una stazione della metro. A leggerla e meditarla, sembrerebbe che la poesia si allontani disgustata e offesa dalle brutture del mondo e al poeta tocchi certificare con dolente rassegnazione la propria resa e impossibilità del canto. Ma, almeno per questa parte, si potrebbe addebitare alla bella poesia di Francesco Dalessandro un eccesso di pessimismo.  L’autore, infatti, non ha mai smesso di cantare.

(di Domenico Vuoto, già su LPELS)

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