Gianni D’Elia: intervento Poesia Festival ’07

 

Il campo semantico del significato della parola “eresia” ci rinvia alle teologie, alle ideologie politiche e alle teorie scientifiche. Diciamo che è un movimento contrario all’ortodossia. Cercherò di parlare della libertà del dire, ma anche della libertà poetica di essere, perché nella poesia, che, a differenza di tutti gli altri discorsi che sono solo razionali, pensati e scientifici, è un discorso vissuto, ecco che immediatamente la libertà del dire coincide con la libertà di essere e la libertà poetica è sempre libertà di dire ma anche di essere.

In un paese come il nostro, come l’Italia, questa libertà si trova ad essere assai vilipesa. Anche se l’Italia è un paese democratico e sulla carta ha una delle costituzioni più belle che ci siano in Europa, tuttavia il distacco della costituzione materiale dalla costituzione ideale è ancora largo, cioè il cammino da fare della democrazia è ancora abbastanza lungo. Io penso che la poesia sia uno dei nuclei che possono aiutare di più questo cammino. Non lo penso soltanto dal punto di vista dei poeti, perché sarebbe egoistico. Non è solo una questione di chi scrive la poesia, ma è una questione dei cittadini italiani, è una questione italiana. Se la cultura poetica si allarga, si allarga la cultura democratica. Questa è un po’ l’idea. Quindi anche i modelli per i giovani dovrebbero avere al loro centro la poesia, nell’educazione fino ai sedici anni almeno in tutti gli ordini e gradi delle scuole, perché quello a cui noi assistiamo anche negli episodi più atroci e in quelli più brutti di cronaca, nella situazione dei crimini in Italia, è proprio questa volgarità e questa ignoranza tremenda dei sentimenti e delle emozioni. In un paese un po’ confessionale e clericale come l’Italia, soprattutto in questi ultimi dieci anni ha ripreso molto questo atteggiamento in cui pochi vogliono scegliere per tutti. Io la dico così, un po’ come Pasolini, provocatoriamente. C’è stato un poeta, Giuseppe Giusti, poeta dell’ottocento, che come sapete ha ribattezzato l’Italia “la Gran Pretagna”. Ve lo riporto perché noi viviamo ancora nella Gran Pretagna; solo in un paese come questo si può assistere a delle esilaranti esibizioni a Porta a Porta o nei telegiornali di discorsi che, se fosse vivo Pasolini, cadrebbero in un secondo, perché lui sarebbe capace di dire che non bisogna contrapporre i credenti ai non credenti, ma che anzi bisogna avvicinare il cristianesimo e il marxismo e bisogna rompere le scatole e scombinare le carte ovunque perché gli stereotipi vanno abbattuti. Invece si sta consolidando sempre di più l’idea che l’Italia è divisa in due fazioni e che è la faziosità è la cosa più bella del mondo.

La parola “eresia” vuol dire scegliere, vuol dire scelta, perché in greco αiρέω [airèo] vuol dire “io scelgo”, “io decido”. Poesia quindi come scelta socratica della ricerca del Vero. Da questo punto di vista la poesia non è semplicemente un’occupazione estetica, ma è una critica politica del presente, perché intesa come scelta socratica per la ricerca del Vero, la poesia costringe il poeta a stare dentro la polis, dentro alla città e non soltanto dentro alla sua torre oppure nella sua stanzetta.

La poesia è un genere nel suo complesso sentimentale, cioè parte dal sentire ed è da lì che costruisce il pensare, non il contrario, come si fa oggi dappertutto, perché è la verifica del sentire che produce il pensiero nuovo e si innesta su quei sentimenti vitali e fondamentali, che sono il sentimento del congedo e il sentimento della sorpresa. Continuamente nella vita di tutti i giorni sentiamo che moriremo, che “siamo per” e “in cammino verso”. Questo dato esistenziale di fondo, l’essere per la morte, non è solo dei filosofi, è una cosa che riguarda tutti. E accanto a questo, accanto al congedo, a pensare che anche le persone che incontri oltre a te stesso sono passanti – noi tutti passiamo, siamo nel passare, non nel restare – accanto a questo c’è la sorpresa, ovvero la bellezza. La sorpresa e il congedo costituiscono la vita libera da dogmi. Dalla relazione con il momento vitale nasce il pensiero, che è relato e relativo all’esperienza vissuta, quindi l’esperienza dell’assoluto è anch’essa relativa all’apertura sentimentale dell’individuo.

Il pensiero poetico è il più antico pensiero che l’uomo abbia, è più antico del pensiero teologico e più antico anche del pensiero filosofico, razionale e scientifico. Giovanni Pascoli nella sua bellissima relazione intitolata “L’Era Nuova” rimproverava alla scienza di non aver risolto la questione della morte e ai poeti e a se stesso di non aver ancora risolto la questione di una poesia che lui in quel saggio chiama “poesia dell’emanazione poetica della scienza”, criticando la vecchia poesia, che chiama “poesia illusiva”. Al posto della poesia illusiva bisogna mettere la poesia come emanazione scientifica. E dice di se stesso “Sono dei vecchi! Anch’io!”, cioè ha coscienza che il cammino della poesia verso la realtà più integrale dell’uomo è ancora molto grande. Ora, questo fallimento del pensiero filosofico e tecnologico secondo il grande messaggio dell’eresia poetica di Leopardi e di Baudelaire, che appunto arriva fino al Pascoli, probabilmente spingerà l’umanità a tornare verso il pensiero poetico, che custodisce il sentimento dell’ignoto.

Oggi, invece, esiste nel mondo una vera dittatura del noto. Noi viviamo nella dittatura del noto, tant’è vero che ci sono addirittura delle trasmissioni in cui si parla dei più famosi, dei noti. Ora, questa dittatura del noto, del predicato, del rivelato, è l’esatto contrario della poesia. La poesia ha fiducia nella parola che verrà, non nella parola che è già stata scritta o che è lì, già fissata, la poesia ha fiducia nella parola nuova, nella parola che non si conosce, non nella scrittura che c’è già. Anche la fissazione del mondo occidentale per la scrittura, ovvero che in base alla scrittura si debba decidere la vita di tutti, anche del presente, non è affatto poetica, è una concezione molto totalitaria, secondo me, appunto in chiave eretica, prendendo la parola eresia da “errare”, cioè camminare, andare, rischiare anche di sbagliare. Errare, errore e rischio, non le cose già garantite. Non c’è niente di garantito nel pensiero e nella poesia. La poesia difende lo spazio del mistero e dell’ignoto della realtà, difende lo spazio del pensiero e del sentimento e ha fiducia nel dire più che nel detto, nel ritmo più che nella lapide, nella voce più che nell’epigrafe.

Quando parliamo di eresia italiana novecentesca, è chiaro che Pasolini non arriva per primo. Pasolini arriva ultimo di una catena di pensiero eretico, poetico, che ha in Italia una forza straordinaria, che soltanto la miseria del presente, ma non la ricchezza potenziale che è dentro di noi e dentro la memoria culturale italiana può ignorare. Quando parliamo di eresia italiana novecentesca e facciamo il nome di Pasolini, ci colleghiamo immediatamente anche alla lezione di Delio Cantimori e il suo fondamentale “Eretici italiani del Cinquecento” che uscì nel ’38, ci colleghiamo a quella rinascimentale che da Giordano Bruno e Tommaso Campanella arriva fino a Vico, a Leopardi, per prendere il segno comunista o liberale di Gramsci e di Gobetti di fronte al dogma clerico-fascista, cioè di fronte al dogma del fascismo (perché anche il fascismo è stato un dogma e si è stranamente collegato con il clericalismo). “La religione del mio tempo”, scritto da Pasolini negli anni ’50 e pubblicato nel ’61, è un libro sconvolgente ancora oggi e oggi ancora di più perché si credeva negli ultimi trent’anni che fosse finito questo clericalismo, questo conculcare le idee negli altri, e invece non è così. Potremmo partire da Dante che è il primo eretico di tutta la schiera, perché come sapete fece una sua battaglia contro il potere temporale, cioè contro la Chiesa, per la divisione dei poteri, cosa che in Italia ancora non si è realizzata appieno, né nei partiti, né nel Parlamento, né nella Repubblica. Dante è il primo eretico di tutti, fino ad arrivare a Saba e a Pasolini.

E allora ecco i versi di Pasolini da “La religione del mio tempo”:

 

“che il peccato
altro non è che il reato di lesa

certezza quotidiana, odiato
per paura e aridità; che la Chiesa
è lo spietato cuore dello stato”

 

Questi versi scritti nel ’57-’58, cioè cinquant’anni fa, ci dicono che il peccato è un reato, contro cosa? Contro la certezza quotidiana, “lesa certezza quotidiana, odiato per paura e aridità”. Contro il potere temporale troviamo Pasolini, il Dante del ‘900, cioè è un umanista in rivolta e che ha dietro di sé tutti gli umanisti prima di lui. Quindi non è solo, anzi, fa parte di una linea che deve ancora essere studiata, perché non è semplicemente atea o laica, ma è intrecciata col cristianesimo e, per dirla con Ernst Bloch, un teologo straordinario della liberazione, è una linea che ha a che fare con l’utopia concreta. “L’empirismo eretico”, titolo di un libro di Pasolini di saggi, costituisce l’atto politico di denuncia di questo dualismo che ci opprime. È un dualismo manicheo, reazionario, che si serve delle vecchie e delle odierne crociate, agitando contro la dittatura del relativismo le sue cannonate.

Dobbiamo capire cos’è questa dittatura del relativismo, perché in questo modo si conserva il proprio dominio professando dei dogmi assoluti. Ora, è molto curioso che si parli di dittatura del relativismo da parte di chi professa un dogma, perché nel dogma, in ogni dogma, c’è la vera dittatura dell’assolutismo, è cioè la dittatura di un assoluto che si pretende sia la verità di uno per tutti da predicare e imporre in ogni modo. Che cosa ha avuto il genere umano per reagire a questo? Ha avuto la Rivoluzione Francese, perché da lì in poi il pensiero è libero da dogmi. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo dice che l’uomo giudica in base alla propria ragione, che il corpo dei popoli è libero dai re e che l’individuo non può essere più né ricattato, né vessato, né torturato, né bruciato per una propria fede particolare.

Allora io arrivo a dire, parlando da poeta, che la poesia è come l’eresia e l’eresia è come la poesia, perché che cos’è l’eresia se non il diritto di credere a quello che si sente? Se la poesia è basata sul sentire significa che io riuscirò a capire qualcosa essendo stato vivo sulla terra solo perché ho sentito delle cose e ho sentito magari anche l’ignoto, lo spavento e anche l’oppressione dei poteri che mi vogliono far pensare in un certo modo e che non mi lasciano la libertà di pensare, il tempo di avere la mia costruzione sentimentale, ma subito mi devono spiattellare la verità a cui devo aderire immediatamente.

Quello che sto facendo non è un discorso antireligioso, è al contrario un discorso religioso, della religione di tutti però, la religione del sentire, che per uno può essere cristiana e per un altro può essere poetica, o essere agnostica, non avere un’etichetta. Ora, io penso che nella libera concorrenza delle fedi ci sia sempre la tentazione del monopolio spirituale dell’umanità. Si parla sempre delle tre religioni monoteiste, ma non si tiene mai molto conto della vita spirituale particolare dei laici e dei non confessionali, cioè del sentimento di molti che sono dubbiosi, silenziosi, e sono tacitati anche dalla propaganda del capitalismo e delle confessioni, che vanno di pari passo, una propaganda a ritmo battente di tutti i giorni; sia il capitalismo che le chiese al telegiornale hanno il loro spazio, sempre e continuamente. Ma lo spazio poetico dov’è? Non c’è, nemmeno a notte fonda. Forse all’1:30, alle 2:30, alle 3:30 si vede affiorare un poeta che dice una poesia, magari è Saba, un vecchio spezzone, o Montale che mastica i suoi versi. Ma anche quelli contemporanei, chi li conosce? Nessuno. Ora, l’ente preposto alla cultura nazionale sarebbe la RAI. Viene detto che è la più grande istituzione culturale italiana. Cosa fa la RAI per la poesia, cioè per la libertà mentale dei cittadini? Non è un discorso corporativo, solo dei poeti, ma riguarda la cittadinanza. Esiste una cittadinanza poetica, non c’è solo la cittadinanza politica. Siamo espropriati molto della cittadinanza poetica in Italia e nessuno fa quasi niente, tranne alcune meritorie manifestazioni, come questo Festival. Questo raduno nelle Terre dei Castelli mi fa pensare ai trovatori, a un medioevo prossimo venturo, a una democrazia dal basso, a un’idea che può far ritornare la poesia grazie a un uditorio, ai cittadini, ai paesi, ai luoghi precisi dove la gente sta.

Cosa dire dell’eresia moderna? Abbiamo detto che le eresie antiche sono perlopiù teologiche, ma possono essere anche scientifiche o politiche. Ciò che suggerisco è questo: l’eresia moderna è la poesia. Non è la religione, l’eresia moderna è la poesia. Baudelaire e Leopardi ci dicono che universale è solo la religione poetica, perché è di tutti, non è confessionale, è la prima religione naturale; la vera voce religiosa non è nei papi, è nei poeti, solamente che i poeti non hanno una chiesa per farsi sentire e neppure un partito. La religione che promette la pace, il riconoscimento di tutti i corpi e di tutti gli animi, la conoscenza scientifica del reale e la ricerca del mistero è la poesia umana. Queste cose vengono sempre contrapposte, mentre invece sono insieme.

Questo canone eretico riguarda un opporsi al discorso che va contro la dittatura del relativismo. Pensate ad Einstein, è possibile che nel discorso contro la dittatura del relativismo venga inglobata anche la Teoria della Relatività? Sì, perché in fondo Einstein questo ha spiegato, ovvero che esiste una relatività scientifica del tempo, e forse anche della morale e dell’ideologia, e il tempo è relativo alla velocità di un corpo nello spazio, così come, aggiungo io, alla velocità dello spirito nel mistero. A canone dogmatico, il canone eretico. Anche il discorso di Antonin Artaud, cioè l’invettiva contro il papa cane e la sua famosa “Adresse au Pape”, non era tanto qualcosa di blasfemo, ma era un punto di vista spirituale, nel nome della libertà dello spirito.

Un’altra cosa che voglio dire riguarda i bambini. I bambini non vengono lasciati liberi di sentire, perché le parole parlano chiaro, sono nate prima di ogni religione e questo mistero è più misterioso dei misteri allestiti per il controllo della vita e della morte. E quindi l’indottrinamento dei bambini significa che non si può scoprire niente da soli. Questo è il più grande peccato che il mondo abbia commesso, tutto deve essere spiattellato astrusamente come in una litania, e chissà se queste cose, diventati adulti e come dice Rimbaud “complici degli assassini”, si possono più dire. Io penso solo che “bisogna deludere – come dice Pasolini – e pagare il ridicolo dei pensieri infantili primari”.

Esistono anche i piccoli uomini, che non sono i bambini, ma sono i piccoli uomini della letteratura, i critici fasulli, quelli che impediscono che la poesia circoli liberamente, quelli che fanno le bucce alle scarpe, ai temi e agli argomenti dei poeti, quelli che non vogliono la poesia civile perché dicono che è attardata, etc. Ce ne sono tanti. La gente è lontana dalla poesia a causa di costoro. È lontana, cioè, a causa del discorso che viene fatto da decenni sulla poesia, che continua ad essere un discorso accademico, universitario e anche molto geloso, molto borghese o piccolo-borghese, e non è un discorso popolare come invece questo Festival, che fa incontrare i critici e i poeti con l’uditorio.

L’ultima cosa riguarda la maleducazione in cui viviamo. Il canone politico è ormai quello di un’Italia binaria, insopportabile e noiosa, stereotipata al punto che molta gente se ne stacca o insorge con delle parolacce, che chiaramente non sono un’alternativa al potere, perché i “vaffa’” o i “vaffanculo” non sono la poesia. Negli anni ’70 abbiamo perso a causa del linguaggio: la generazione della contestazione aveva un linguaggio terroristico e non se ne rendeva conto. Quando gli altri, i veri terroristi, hanno cominciato a sparare e ammazzare ci siamo accorti che era stato anche il nostro linguaggio a produrre quelle azioni. Ora non si può più fare l’errore di quegli anni, bisogna capire subito, dalle prime avvisaglie, che anche nel linguaggio passa la felicità futura e che chiaramente non può essere costruita sui vaffanculo, bisogna dirlo una volta e poi dire un contenuto buono, vero, e una parola giusta, saggia e anche bella per le persone. Questo è quello che penso di questi giorni.

Ora, di fronte a questo nuovo potere, che non è più solo il potere della civiltà dei consumi o del consumismo, Pasolini non aveva previsto qualcosa, cioè che l’omologazione culturale degli italiani (il consumismo) e la mutazione antropologica delle classi dominanti (il qualunquismo), hanno portato in dono un nuovo clericalismo. Questo non era stato previsto, cioè si diceva che la chiesa fosse ormai inutile al nuovo potere del neocapitalismo, perché il consumo, l’edonismo, la falsa tolleranza, il laicismo da supermercato avrebbero vinto su tutto. Ora qui non è in gioco, lo ripeto, il valore religioso della vita, che per ognuno può essere e deve essere cercato nel mistero, nell’ignoto di cui parla Baudelaire, ma qui sono in gioco il controllo sociale e il controllo ideologico. Di fronte a questo la poesia non può stare zitta, ecco perché la poesia in qualche modo è eresia, cioè scelta, ricerca del Vero e, per dirla con i due grandi poeti che secondo me guidano il moderno, Baudelaire ha scritto: “Au fond del l’inconnu pour trouver du nouveau” (in fondo all’ignoto per trovare qualcosa di nuovo) e Pasolini dice: “ Taci, taci voce di ogni ufficialità, qualunque tu sia”.

(trascrizione dell’intervento a cura di Claudia Bellucci, pubblicato su Gianni D’Elia)

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