Giancarlo Alfano intervista Gabriele Frasca

 

[Intervista rilasciata a Giancarlo Alfano e apparsa in Giancarlo Alfano, Andrea Cortellessa (a cura di), Tegole dal cielo. L”effetto Beckett” nella cultura italiana, Roma, Edup, 2006, pp. 252-265 su  Il porto di Toledo scarica qui il pdf]

 

Ti sei dedicato a Beckett con un saggio, Cascando, pubblicato nel 1988; le traduzioni maggiori sono invece venute qualche anno dopo. L’incontro con l’autore è stato dunque originato innanzitutto da motivi di studio, oppure il tuo costante incrocio tra attività di ricerca e attività creativa ha fatto sì che la tua frequentazione beckettiana diventasse produttiva già prima di quella data?

Non ricordo adesso bene che cosa sia venuto prima, se il desiderio di dire Beckett in italiano o quello di riscriverlo in un saggio. Prima di ogni altra cosa, naturalmente, va posta la passione del lettore, quella che induce a ridirsela tutta, inseguendola disordinatamente come la si trova, l’opera nella quale chissà come ti sei imbattuto. A un certo punto finisce che te la ritrovi parte di quello che, anche grazie a come questa stessa opera ti ha rimesso in funzione, stai diventando. Càpita a tutti i lettori appassionati, e in quanto tali disposti sempre a farsene qualcosa di quanto vanno via via eseguendo, qualcosa di equiparabile a una cura, e a una presa in cura; e càpita fortunatamente più volte nella vita. Succede così che ti fai la tua schiera di autori di riferimento, con un corredo di testi virtualmente inesauribili; ci sono delle opere che fanno presto a diventare gli spartiti della nostra vita, e siamo consapevoli già alla prima esecuzione che torneremo a eseguirli, perché sentiamo che non hanno ancora rilasciato tutti i loro elementi, e forse proprio in virtù del fatto che presentano quell’eccesso, quel “di più di noi” che sembra sfuggirci solo per invitarci a tentare ancora. Per finire ancora. C’è un sottile piacere in questa sensazione d’inadeguatezza (Beckett, con tutte le sue tecniche d’insipienza, la sapeva davvero lunga), perché è esattamente questa che ci rimette in funzione, ed è così che al contempo un’opera sciama. Con l’opera di Beckett per me è andata proprio in questo modo, e dunque il lavoro critico e quello di traduzione rimandano in verità allo stesso desiderio di eseguirmi l’opera. Se poi tali esecuzioni sono divenute nel corso del tempo pubbliche (a fronte di altri autori amatissimi che eseguo solo raramente per altri, e talvolta addirittura solo per me), lo si deve a una serie di circostanze, non ultima la poca fortuna in Italia di questo autore. Se ami un’opera (non già l’autore, di cui si fa presto a diventare gelosi, arcigni custodi o umili sacerdoti, fa lo stesso) – e la ami solo se la senti rivoluzionaria (se insomma è stata in grado di “rivoluzionarti”, metterti in funzione ecc.) – allora ti scoppia dentro, non hai voglia di tenerla per te, vuoi che si diffonda. Saranno state considerazioni di questo tipo a stanarmi. A un certo punto credo di aver realizzato che se davvero tanto mi aveva dato, e continuava a darmi, avrei dovuto restituire qualcosa a quell’opera, e che era tempo che mi dessi da fare, perché qui da noi, se si esclude un numero ristretto di intellettuali e intermediari, qualche regista entusiasta, qualche attore folgorato, Beckett sembrava la “cosa dallo spazio profondo”, cioè un oggetto ignoto, spaventoso e in fin dei conti ripugnante, da mettere in scena magari solo per la consueta sudditanza coi cugini transalpini (se loro ci uscivano matti, beh magari…). Del resto le cose non sono cambiate poi tanto, no? E dire che la cultura italiana aveva significato tanto per Beckett, e tanto anche per Joyce (che magari si nominava, e si nomina, di più, ma che a conti fatti continua ancora a fare problema ai nostri salotti di etere di stampa). Del resto, lo sai, se ci mettiamo a contarli (e se al momento escludiamo i responsabili delle messe in scena, che vivono in una sorta di circuito “parallelo”), finiamo che ce li ricordiamo tutti, tanto pochi sono sempre stati, coloro che hanno consentito per tempo all’opera di Beckett di circolare in Italia: dall’ottimo Tagliaferri, naturalmente, a Fruttero, passando magari per Oreste Del Buono, che da bravo intenditore di “generi” e fumetti, roba da adolescenti coi brufoli all’epoca, finiva con l’essere di gran lunga più sensibile, magari come quell’altro scapestrato di McLuhan che impazziva per il Finnegans Wake, a quella che per altri, per i letterati-letterati, risultava un’opera difficile quante altre mai («Incomprensibile?», aveva scritto negli anni ‘60 a proposito di Comment c’est, «Ma no. A patto che non si voglia cercare un arcano significato, una cifra magica. Occorre, invece, porsi davanti al diluvio di questa voce […] con naturale accettazione. È la vita, la voce dei libri di Beckett, la vita, non una favola, la nostra atroce vita disumana». E non aveva del resto, il nostro odb, speso parole altrettanto chiare per Pizzuto?) Così, per tornare a me, e limitarci alle riserve accademiche, da quello storico della lingua italiana che più o meno ero, e filologo moderno che più o meno stavo diventando (non avevo ancora finito il mio dottorato quando apparve Cascando), mi sono ritrovato… beckettista (e quindi comparatista, ovvio no?) Nel frattempo avevo già pubblicato il mio primo libro di versi, e un romanzo. Insomma non riesco proprio a ricordare con che cosa abbia cominciato, intendo prima dell’88 di Cascando, se col dire Beckett in italiano o riscriverlo in un saggio. Le date sulle riviste aiutano poco, perché anche quando rispettano quelle di apparizione, certo non recitano quelle di stesura; però il numero di “Alfabeta” (il 95, dell’aprile del 1987) nel quale apparvero tre mie traduzioni da poesie di Beckett, riviste e approvate dall’autore, se certo precede Cascando comunque sussegue l’uscita del primo saggio che sarebbe poi confluito in quel libro (Dante in Beckett apparve nel 1985) ed è contemporaneo all’intervento su Watt (Il “che cosa” di Beckett) pubblicato su “Il piccolo Hans” . Quello che so per certo, in definitiva, è che se di Beckett mi sono interessato in veste critica per tempo, tradurlo mi apparve sùbito una necessità: non appena ho cominciato a leggere in lingue non mie (e magari anche questa fatica – non sono equilingue, e non lo diventerei nemmeno se mi trapiantassero un nuovo emisfero del cervello – la devo a quella voglia di eseguire le opere che ho più amato, non solo quelle di Beckett), mi sono reso conto degli errori di traduzione, dei fraintendimenti, delle trivializzazioni (la lectio facilior è quasi l’insegna del povero traduttore beckettiano). Errori, si badi bene, che non sono tutti per forza di cose da ascrivere all’imperizia del traduttore (se mai alla fretta, e dunque alle pratiche editoriali), anzi: ci sono stati traduttori più o meno eccellenti (e persino qualcuno, al contrario, che eccelse in malafede), ma in parte o del tutto depistati dall’equilinguismo beckettiano (sicché si finiva col tradurre dalla lingua “sbagliata”, cioè quella della stesura successiva), e talvolta mandati letteralmente per le terre dalla scarsa conoscenza dell’opera nel suo complesso. Naturalmente un traduttore che sopraggiunge dopo, qual è il mio caso, e che ha la fortuna di avere una conoscenza completa dell’autore (non solo di tutti i testi ma anche delle relative “versioni” nell’“altra” lingua, e persino degli avantesti disponibili), traduce inevitabilmente meglio di chi si è trovato fra le mani l’opera di un autore di cui non si sapeva praticamente nulla, nemmeno con certezza in quale lingua scrivesse. Come traduttore, insomma, devo molto al critico (così come il critico fu di certo agevolato dal traduttore, magari addirittura dallo scrittore in proprio, e dunque dal lettore appassionato). È difatti al critico, a ben vedere, magari al filologo, che il traduttore deve la sensazione (mai la certezza) di aver derivato l’usus scribendi del suo autore, di cui ritiene se non altro di conoscere tutto ciò che torna (al livello lessicale, sintattico, stilistico e persino tematico). Alla fin fine, quando ami un’opera, e ne scrivi, e la ridici in un’altra lingua, prima o poi ti ritrovi a essere il virtuoso di un circolo vizioso. Molto molto beckettiano, ovviamente.

 

Dici che il tuo primo incontro da traduttore è stato con la poesia di Beckett, mentre nel tuo libro e in generale nel tuo lavoro successivo l’accento è piuttosto caduto invece sulla prosa. Nei capitoli che all’autore hai dedicato in altri tuoi libri come La scimmia di Dio e La lettera che muore hai insistito però sul fatto che la distinzione tra poesia, teatro e romanzo non ha realmente corso per Beckett. E allora chiedo: è utile parlare per quest’autore di distinzione dei generi?

Innanzi tutto vorrei chiarire un facile equivoco: il titolo del mio saggio, Cascando, che ho avuto la fortuna di concordare con l’autore, si riferisce al radiodramma e non alla splendida poesia omonima. Credo che la lettura di quel radiodramma, e del suo testo gemello, ossia Words and Music (entrambi del ’61), mi abbia finalmente fatto capire quanto Beckett stesse riflettendo sul medium, e sui media in generale (da quel momento in poi ho compreso finalmente chi era l’Innominabile, quanto insomma fossi innominabile io – l’«ultima persona», direbbe Beckett, aggiungendo sùbito: «via lasciamolo perdere» – nell’atto stesso di leggere). Insomma, leggevo Cascando, il radiodramma, finalmente nella sua lingua (il francese), e mi sono dovuto figurare la ricezione, immaginarmi lì accanto alla mia radiolina, subito dopo l’annuncio del titolo e dell’autore. Ecco, mi predispongo all’ascolto, e d’improvviso una voce, una voce della radio, sussurra concitata: «Moi, je suis au mois de mai». Da brivido, una specie di «con me medesmo meco mi» con cui far risuonare non lo spartito di un codice, in odore di divenire preziosissimo (Petrarca era troppo “antiquario” per non far sì che la sua riflessione sul medium divenisse piuttosto la percezione dell’oggetto da collezione), ma che so il tinello di casa, la cameretta, la cucina dei nostri infiniti esilî domestici. Beckett insomma sentiva l’ascoltatore, come aveva sempre sentito il lettore. Io ero stato un lettore ammaliato da Beckett, e finalmente capivo perché. È quella faccenda della “presa in cura” di cui ho detto prima, roba da «Amor, che a nullo amato amar perdona». Avevo conosciuto la sua opera, come tutti in Italia credo, leggendo prima di ogni altra cosa i testi teatrali, da Aspettando Godot all’Ultimo nastro di Krapp per poi passare alla prosa, e Watt prima della Trilogia. Quando poi mi sono messo a leggere Beckett a tappeto ho cercato di trovare la giusta chiave di lettura, dal momento che, essendomi appassionato immediatamente al teatro quando leggevo il teatro, e immediatamente alla prosa quando leggevo la prosa, e immediatamente alla poesia quando leggevo la poesia, ebbene evidentemente doveva esserci un quid in comune, qualcosa che teneva insieme queste tre forme o generi, qualcosa che infine ho trovato più esplicitamente nelle sue radiodrammaturgie (e poi nei teledrammi), che hanno costituito per me la chiave di lettura. Se ho cominciato col tradurre la sua poesia, era solo perché fra i suoi versi potevano trovarsi testi ancora inediti in Italia. Ritradussi Cascando (la poesia del ’36), appunto, perché la traduzione non mi convinceva, e una mirlitonnade (cercando di rendere giustizia del ritmo), ma quella piccola gemma di roundelay era del tutto inedita. Mancava. Certo a tradurre mi spingeva anche la possibilità di un rapporto diretto con Beckett – rapporto che in verità era cominciato prima per motivi invece legati alla critica. Il saggio che avevo deciso di dedicare a Watt (è il libro che più ho amato in assoluto) mi portò infatti a contattare Beckett per una serie di timide richieste (scrissi in realtà a Minuit… e mi rispose lo stesso Beckett, che era un uomo di una cortesia incredibile). Mica chiedevo chiarimenti (lo sapevo già allora che Beckett non amava darne)… ma come trovare il testo, ad esempio, perché non ero riuscito in alcun modo a procurarmi l’edizione Calder (avevo solo la successiva traduzione in francese, cui Beckett aveva collaborato). Per farla breve, mi rispose, mi augurò buon lavoro e… mi fece arrivare il libro, con i suoi saluti, roba da non crederci. Era il 1983. Da allora abbiamo avuto una breve corrispondenza (un paio di lettere all’anno; ero felice di corrispondere con lui, certo, ma sapevo anche bene quanto fosse prezioso il suo tempo). E i suoi “saluti” sono diventati sempre più briosi (quello che ho posto a esergo di Dante in Beckett è quello che ovviamente, per le circostanze, mi è più caro). Insomma, dopo la prima lettera indirizzata a lui (ma sempre tramite Minuit… una volta, per restituirmi la discrezione, mi rispose tramite Corpo 10, la piccola casa editrice che mi pubblicava all’epoca…), scritta in un pavido emozionato formalissimo inglese, cominciai a scrivergli direttamente in italiano (lingua che Beckett conosceva benissimo, a sua detta meglio del tedesco… avrebbe del resto collaborato alle traduzioni delle sue opere in italiano, come fece con quelle tedesche dei Tophoven, se i nostri editori non l’avessero scoraggiato). Lui mi rispondeva o in inglese o in francese (credo dipendesse dalla lingua che stava usando in quel momento). Appena uscì, gl’inviai anche Rame (poi Il fermo volere e naturalmente lo stesso Cascando). Era un uomo di una grande generosità, e in quel periodo ha finito con l’aiutarmi molto (non credo abbia mai lesinato incoraggiamenti ai vari giovani scrittori che si rivolgevano a lui). Gli anni che sono trascorsi da allora, senza più quelle letterine dalla grafia quasi incomprensibile (fortuna, che all’epoca, stavo studiando un tardo manoscritto dantesco calligrafico…), non hanno estinto il mio debito di riconoscenza. Alla fine ho fatto in tempo a discutere qualcosa della mia traduzione di Worstward Ho (che poi però ho molto modificato… più si studia un autore, e più ci si rende conto dei propri errori). All’epoca non era ancora uscita la traduzione francese, intitolata Cap au pire, di Edith Fournier, sicché credo di averla incrociata nell’“assillarlo” con le proposte di titolo (alla fine ha prevalso Peggio tutta, quando oramai non potevo più chiedergli un parere), e magari anche lei avrà ottenuto in prima battuta la stessa utilissima risposta, quella che dichiarava il testo intraducibile in una lingua romanza, a partire dall’iniziale «On» (che poi è stato, per tutti noi che ci abbiamo tentato, uno stimolo più che una limitazione). Ecco, proprio un testo come Worstward Ho può dare il senso di quella indistinzione fra generi di cui parlavi prima; per me l’intera cosiddetta seconda trilogia (Nohow On), ma la cosa comincia prima, molto prima, non è “letteratura”, nemmeno poesia e meno che meno teatro: è una specie di home theatre. Alla fin fine mi è stato chiaro che Beckett, dal dopoguerra in poi (ma in qualche modo già in Watt), aveva scritto sempre per la voce (poesia? prosa da dictare? teatro da eseguire in proprio?) Nel momento in cui ho realizzato che avevo a che fare con delle grandi partiture per voce, per la mia voce (mia in quanto lettore), mi è diventato più chiaro sia analizzare criticamente l’autore sia tradurlo.

 

Proviamo a fare una riflessione sulla cronologia beckettiana. L’inizio poetico e il rapido passaggio alla prosa hanno significato la lunga convivenza delle due forme, sino agli anni Cinquanta, quando è maturato il pieno passaggio alla scrittura teatrale e poi al radiodramma. A questo punto, lo hai appena spiegato, emerge la particolare ricerca di una voce che risuoni. Ma la tua esperienza di traduttore anche di opere della prima fase, le poesie giovanili e Murphy in particolare, ti hanno indotto a ritenere che quella voce e quella ricerca fossero presenti sin dall’inizio oppure lì va segnata una svolta effettiva?

Beh, un po’ l’uno e l’altro (e, ovvio, «né l’uno né l’altro», disgiunzione inclusa, direbbe Deleuze). I primi radiodrammi (All That Fall e Embers) sono della seconda metà degli anni Cinquanta, però è vero che probabilmente l’attenzione alle voci della radio risale a prima: del resto, prima ancora che En attendant Godot trovasse finalmente il finanziamento per la messa in scena, già una sua riduzione radiofonica era andata in onda in Francia (e aveva suscitato un certo clamore, a quanto è dato sapere). Il rapporto con la radio – mezzo significativo non solo perché era il medium più “caldo” dell’epoca, prima dell’apparizione della televisione in Europa, ma anche perché era stato il mezzo della guerra, il mezzo col quale restare in contatto, durante la guerra (magari a Roussillon), con la guerra – è dunque un rapporto intenso e continuo per Beckett. Del resto la radio era stata fondamentale già per il suo maestro, James Joyce. Beckett ne era stato in qualche modo segretario (e chi fra i giovanotti joyciani non lo era stato? a detta di Nora Joyce, James avrebbe messo a lavoro anche Gesù Cristo, se fosse tornato sulla terra…), e persino in talune occasioni copista nelle estenuanti fasi di stesura del Work in Progress (tradusse poi, con Alferd Péron, Anna Livia Plurabelle in francese, e corresse finanche parte delle bozze del Finnegans Wake). Insomma, aveva avuto proprio molto a che fare con la «radiooscillating epiepistle» del maestro, per non comprendere quanto le voci della radio stessero mutando nel profondo la “letteratura”, riconducendola esattamente lì da dove era partita: l’arte del discorso («epiepistle», appunto). Magari sarà per questo che sin dall’inizio Beckett ha operato una strana indistinzione tra le poesie e le prose, addirittura miscelando i due livelli. Se per esempio si leggono le prime poesie in inglese, quelle che poi faranno parte di Echo’s bones (1935) – non a caso titolo derivato dall’ultima novella che avrebbe dovuto chiudere More Pricks than Kicks (1934), novella in cui Belacqua sarebbe risuscitato dal tavolo operatorio ma che fu rifiutata dall’editore –, ebbene ci si rende subito conto di essere nello stesso ambiente delle novelle o di Dream of Fair to Middling Women, il primo romanzo (scritto per lo più nel ’32) poi ripudiato dall’autore. Nelle poesie è rappresentato in soggettiva quello che nelle prose contemporanee è invece rappresentato in oggettiva: sono le stesse scene, le stesse descrizioni, e soprattutto lo stesso tipo di narrazione picaresca, e dunque oraleggiante. Il picaro in Beckett era in agguato: aspettava magari solo la lingua giusta.

 

Ciò vale forse anche per il passaggio dall’inglese al francese, fino al sostanziale equilinguismo dell’autore. Caratteristica di Beckett che pone il suo traduttore in una condizione molto particolare, giacché si trova a lavorare su un testo di cui non esiste la versione “originale”, in cui cioè le due lingue hanno proceduto quasi in parallelo.

Il bilinguismo beckettiano, lo ripeterò sino alla noia, ha purtroppo consentito molte scorciatoie editoriali. Per esempio, tutte le opere teatrali beckettiane, per lo meno fino a Play, sono state tradotte dal francese, anche quando la prima stesura era in inglese. Ed è tuttora questa la vulgata del teatro beckettiano (Happy Days, Krapp’s Last Tape, Play, Words and Music… tutto dal francese). Questo destino è stato comune anche a Murphy; prima della mia traduzione dal testo originale inglese, quella che circolava, dovuta a Franco Quadri, era stata eseguita dalla versione francese (che non si deve fra l’altro al solo Beckett). Non è colpa dei traduttori, lo ripeto (Fruttero e Quadri sono stati, comunque, bravissimi); all’epoca era tutto molto confuso, quello che riguardava Beckett (è un po’ più grave, certo, che non si senta ora la necessità di porre rimedio a questi strafalcioni editoriali). Il caso più conclamato resta comunque quello delle opere per la radio, per le quali sono state sistematicamente utilizzate le versioni francesi, persino quando non erano di Beckett, come per esempio All that Fall e Embers che furono tradotte da Robert Pinget. Casi come questi illustrano bene la situazione, e fanno capire perché uno che si era avviato allo studio dell’opera beckettiana sentisse la necessità di nuove traduzioni. Detto questo, il problema del “doppio originale” si pone in modi sostanzialmente diversi a seconda delle fasi della produzione beckettiana. L’incrocio fra le due lingue, difatti, non è sempre stato, diciamo così, a maglie strette. Le opere precedenti la svolta dovuta al passaggio alla lingua francese, ad esempio, sono state sì tutte tradotte, ma solo successivamente (il caso più eclatante è Mercier et Camier, tradotto in inglese vent’anni dopo, e violentemente scorciato). L’unico caso di traduzione quasi contemporanea, rispetto a questa prima stagione di cui stiamo parlando adesso, è quello di Murphy: appena pubblicato, siamo nel 1938, Beckett si mette a tradurre in francese il romanzo. Non se la sente però di farlo da solo, non si sente ancora padrone della lingua, sicché collabora con il solito Alfred Péron, il suo grande amico. La traduzione apparve quasi venti anni dopo, negli anni Cinquanta. Quella traduzione è un po’ particolare anche per gli anni, e le vicende, che ha attraversato: iniziata infatti nelle prime fasi non ancora guerreggiate della Seconda Guerra Mondiale, è stata conclusa quando Beckett partecipava alle attività della resistenza antinazista francese proprio insieme ad Alfred Péron, che sarebbe poi stato arrestato e che infine sarebbe morto di stenti, a guerra appena conclusa, sùbito dopo la sua liberazione da un campo di concentramento. Il testo francese sarebbe apparso dunque dieci anni dopo la fine della guerra con una dedica all’amico e senza indicazione dei traduttori (ecco perché non ci fu colpa alcuna, all’epoca della prima traduzione italiana, nell’errore di lingua). D’altra parte ci furono ragioni editoriali (da parte di Minuit) per tacere il fatto che il romanzo fosse in realtà una traduzione, giacché il testo arrivava in un momento in cui il lettore francese (dopo Molloy e quanto seguì) era oramai abituato all’idea che Samuel Beckett fosse un irlandese che scriveva direttamente in francese. Dunque, in casi come questo, il testo nella seconda lingua va considerato soltanto un ausilio, oppure va utilizzato quando innova. Sicché il traduttore deve munire il testo di un apposito corredo di note, indicando aggiunte, modifiche, e segnalando semmai i passi che sono stati eliminati perché, chissà, forse ritenuti «intraducibili in una lingua romanza» (giochi di parole e quant’altro). Le cose vanno molto diversamente per quelle opere in cui le traduzioni seguono a brevissima distanza il testo scritto nella prima lingua, finendo addirittura con l’influenzare la stessa revisione dell’“originale” (è il caso di Company, e magari anche di Mal vu mal dit, e di quasi tutte le opere teatrali a partire dagli anni ’60). Beh, allora, la questione diventa più delicata. A mio parere, occorre naturalmente sempre partire dalla lingua di prima stesura, ma il testo in “lingua 2” non può essere utilizzato solo come riprova. È come se avessimo a che fare con due “testimoni” di un originale che non c’è (situazione che i filologi conoscono bene, e che non si augurano mai, perché senza il terzo, testimone o ramo della tradizione, sono sempre dolori… occorre operare una scelta, motivarla, con tanti saluti al bel metodo lachmaniano per cui, come suol dirsi, la maggioranza vince, sia pure di misura…) È una bella questione, non c’è che dire, perché s’intravede, nell’originale che non c’è, una lingua che non c’è (french? anglais? franglais?). E bisogna, da traduttore terzo, imparare a frequentarla questa lingua che non c’è (qui torna il critico), eppure suona (qui invece si riaffaccia il traduttore), meravigliosamente, e renderla infine «in nessun modo ancora», o dirla (e magari qui l’autore in proprio dà, per quanto gli è possibile, una mano) “in nessuna lingua ancora”.

 

Hai parlato della complessità sintattica dei testi di lingua inglese. Ebbene, pensando che in questa lingua non esiste la differenza tra congiuntivo e condizionale, e che Beckett fa largo uso della subordinazione e della costruzione ipotetica, come si muove il traduttore quando ha a che fare con questa indiscernibilità direi originaria dello statuto modale della sintassi?

Innanzi tutto bisogna tener conto del fatto che in Beckett agisce un’importante “funzione Proust” (Dante… Proust… Joyce: con gente del genere s’era messo a far quadrato Beckett) Questo dà conto della straordinaria ipotassi dell’inglese beckettiano, che non è l’ipotassi di Joyce, mi riferisco al Joyce del Portrait (perché poi lo stream of consciousness dell’Ulysses avrebbe rivelato a Shem the Penman i miracoli della paraipotassi). Ebbene anche in passaggi spettacolari, come la predica del gesuita, brano che risente anch’esso di un’influenza romanza se non altro per lo statuto storico del genere “predica”, si ha l’impressione che il maestro non sia andato avanti così tanto quanto l’allievo. In Murphy e ancor di più in Watt si sente forte la presenza di Proust per quanto riguarda la sintassi. Si ha così l’impressione che sin sul nascere l’inglese di Beckett sia una lingua “smaterna”, influenzata non solo dal maestro Joyce (nonché dalle volute metrico-sintattiche dantesche), ma anche dal francese di Proust, da quel tour de force sintattico che mette in difficoltà gli stessi francofoni, abituati a una lingua che, dopo i primi secoli, ha conosciuto uno sviluppo piuttosto ostile nei confronti della subordinazione. La mia impressione è infatti che Marcel Proust sia stato influenzato dalla tradizione delle grandi lingue frequentate solo in quanto scritte, e dunque il latino e lo stesso italiano. Da questo punto di vista, la Recherche è il capolavoro della cultura tipografica, e come sempre càpita ai culmini, il suo rovesciamento. Proust aveva trovato una sorta di minimo comun denominatore fra il tempo della vita e quello della scrittura; quei «segni» di cui ha parlato Deleuze sono appunto i luoghi dove questi due tempi si annodano, mettendo in congiunzione due infiniti, quello continuo del tempo che si perde (e si perde per sempre, si perde all’infinito) e quello circolare della messa in movimento ciclica di una sua porzione. Come ogni procedimento di scrittura che racconta come si giunge alla scrittura, la Recherche programma un testacoda, come il Finnegans Wake, come la Commedia: queste opere girano, si sa, tornano da dove sono partite per ricominciare, e per poter girare, senza incorrere nella cattiva infinità, devono girare intorno al vuoto, non a vuoto. Il vuoto allora è la loro esecuzione, opportunamente offuscata da chi le esegue (sto un po’ usando Worstward Ho come grimaldello, e mi pare che funzioni). Insomma, Proust aveva identificato questi snodi (segni, eventi), elementi apparentemente disarticolati, astratti come erano dal continuo, e sapeva che, se voleva ritrovare il tempo, doveva articolarli. Non credo servissero ad altro le sue volute sintattiche: la vita di ognuno, se uno è costretto a compendiarla in un curriculum vitae, è sconfortantemente paratattica. L’ipotassi scopre l’infinità di pieghe che increspano questa superficie. «Gli scritti», diceva acido Lacan commentando il coefficiente di difficoltà dei suoi tutto sommato rari saggi, «stanno lì per essere letti», cioè approfonditi sul posto. È una dichiarazione che credo si attagli bene a Proust. Solo che, nel momento stesso in cui sei riuscito a fare, una scansione dopo l’altra, un io di scrittura, beh questo traligna, diventa un io di lettura, e si mette sùbito a corteggiare un apparato fonatorio. È il dramma (oltre che il paradosso) dell’Innommable, e sono certo che Proust l’abbia provato, e che Beckett, leggendo appassionatamente la Recherche, e scrivendone, l’abbia sentito, e si sia poi incamminato sulla stessa strada. Ecco perché il suo inglese suona quasi da sùbito “smaterno”. Quando si ha a che fare con Watt, soprattutto quando ci s’imbatte in quella sorta di grande predica secentista che è l’allocuzione di Arsene, si matura sùbito l’impressione di avere a che fare con un inglese che non è inglese, e si capisce che forse qui risiede la ragione per cui qualcosa come quarantatré, uno più uno meno (meno, meno, naturalmente, ma il 43 è un numero importante per quel romanzo della guerra), editori rifiutarono il manoscritto originario. E si capisce inoltre come mai i giovanotti della rivista Merlin (Richard Seaver, Patrick Bowles, Alex Trocchi) riuscirono a risolvere l’enigma di quel romanzo semplicemente leggendolo (fra le inevitabili risate) ad alta voce. Il medium tipografico, opportunamente surriscaldato (con Joyce, con Proust), magari tornava dalle parti di Dante… «io non so ben ridir…», che è poi la divisa di Watt, se ci pensi. Da un punto di vista tecnico, per rispondere alla tua domanda, certe volte ti aiuta il francese, che pure, guarda caso, semplifica (in francese insomma Beckett non osava fare il proustiano, al più, mi pare che pure Contini se ne fosse accorto, célineggiava), certe altre invece ti devi affidare al tuo orecchio e lasciarti andare alla grana della tua lingua per sapere che cosa deve suonare predica e che cosa deve suonare secco. È così che nel Watt italiano è emerso quello che credo di aver definito “periodo paraipotetico”. Beckett infatti ha sempre alternato non soltanto due lingue ma anche due registri sintattici, cioè l’iperampolloso (a fini comici, e catalogici) e l’iper-secco, che sono poi le due vie della predica seicentesca, con Giusto Lipsio (e da noi in qualche modo Borromeo) dalla parte della secchezza, dell’atticismo e i gesuiti (da noi, su tutti, i napoletani) dalla parte dell’ampollosità, dell’asianesimo. Due registri sintattici che sono due registri della vocalità, tra i quali Beckett gioca continuamente, con risultati esilaranti.

 

E per l’altro polo della lingua, quello del lessico, che cosa ti è capitato di riscontrare in quanto traduttore: c’è la medesima escursione oppure vi è una scelta omogenea? Per esempio il fatto che a nessuno sia mai venuto in mente di dire che Beckett è uno scrittore espressionista è dovuto alla sua precoce autonomia rispetto al magistero joyciano?

Se ricordo la definizione di Contini dell’espressionismo, specie di marca italiana, come «propagginazione dell’io in un suo corpo linguistico», posso dire che Beckett come molti altri autori che da Joyce sono partiti, piuttosto che propagginare l’io in un corpo linguistico, propaggina un corpo linguistico nel tu, cioè nel lettore. Da ciò proviene l’oscillazione tra le due forme seicentesche di cui prima parlavo. Prendiamo Murphy, cioè un testo già in parte sottratto all’influenza di Joyce: in questo caso il tenore del lessico è altissimo, vi è un numero sostanzioso di hapax e molti termini che ho faticato un po’ a comprendere e che nelle traduzioni precedenti erano stati semplificati. L’esempio che mi càpita di fare spesso è quello di «conarium»; Neary, un personaggio particolarmente colto e filosofico dice: «il suo conarium si è ridotto a niente». Quadri traduceva, credo, «cazzario», evidentemente pensando a un gioco col francese con (‘coglione’, ‘cazzone’); si tratta invece proprio del conario, ossia della ghiandola pineale. Se si cerca su un qualsiasi dizionario inglese (e francese) conarium non lo si trova, lo si trova invece nei testi cartesiani (in quella traduzione, ho dovuto fare come Joyce, senza attendere impensabili villeggiature divine sulla terra; mi è bastato sottoporre ogni capitolo a Raffaella Scarpa). Nei testi giovanili, o comunque precedenti la guerra, Beckett mostra i muscoli, sicché a livello lessicale le scelte sono particolarmente ardue (non a caso era solito usare, come Joyce, taccuini dove segnava le parole difficili che avrebbe poi impiegato). Questa cosa è vera anche per Watt, dove pure si trovano tre o quattro paroline che mi hanno costretto a un’affannosa ricerca (il ravanastron… e chi se lo scorda più!). Questa tendenza diminuisce progressivamente, ma resta sotterranea, sicché si continueranno a trovare cultismi fino agli ultimi testi, dove però restano le torsioni sintattiche, se non morfosintattiche (è il caso di Worstward Ho), il vero problema. Fatto si è che questo inglese che è un po’ francese, e questo francese che si anglicizza, a furia di torcerlo e ritorcerlo, suona, canta. Era quello che il giovanissimo Beckett cercava di spiegare del Finnegans Wake, ricorrendo non a caso al metodo frankenstein del De vulgari eloquentia. Gira gira, quello che fai in gioventù ti torna sempre, sia pure solo come il singhiozzo che tormenta il povero personaggio maschile di Play…

 

Ma allora quando è cominciato lo “sfinimento” di Beckett, per rifarci alla categoria di Deleuze, se è vero che il lettore beckettiano s’inoltra già con la Trilogia in un processo di indebolimento che riguarda sintassi e lessico, a partire da quel puntinismo sintattico saliente nella scrittura beckettiana che è poi la “unity of crawl”, l’avanzamento per piccoli lotti?

La «unity of crawl», «unità di strisciata» è espressione che proviene da Company (via Comment c’est, si potrebbe dire), e sta per tante cose, e innanzi tutto per la strisciata degli occhi del lettore sul testo. O la messa in funzione dei pixel su uno schermo, se vuoi. On, on, on… Stiamo sempre là. Emette un suono, sai, questa unità di strisciata, anche senza che vi subentri la voce, come i passi degli attori che Beckett da regista amava sincronizzare, perché si armonizzassero con le parole. Più che un autentico sfinimento della lingua, come diceva Deleuze, io credo ci sia qualche cosa che ha a che fare con quel propagginarsi nel corpo del lettore di cui parlavo. La trasformazione va in questa direzione: dall’onnipotenza joyciana (divenuta già in Murphy l’«esaurimento da parole» da cui guardarsi) alla “onnimpotenza” di Watt, poi alle pratiche dell’insipienza della “prima non-persona” della Trilogia fino alle strategie compartecipative, tutte buio e brusio, delle ultime prove. Dall’orchestrazione autoriale della terza persona al monologo da eseguire, attraverso il dialogo che infesta, fino al gomito-a-gomito radiodrammatico (la «lingua dell’immagine sonante e colorante» di cui parlava Deleuze, la lingua che «in nessun modo ancora» fa l’immagine, è radio: solo la radio sa far fare un’immagine). Ecco, col passaggio dall’inglese al francese, almeno in prima battuta, a giudicare cioè da Mercier et Camier, il francese è utilizzato in maniera dialogica (solo così si arriva al monologo insipiente della trilogia). È una lingua al presente (come nello scambio di battute di Fin de partie: «a che cosa ti servo io?» [e fa’ attenzione all’uso della “prima nonpersona”], «a darmi la replica»). Mercier et Camier prosegue la strada di Watt, che non a caso vi appare anche come personaggio, ma vi aggiunge questa dialogicità estrema per combattere quella che in quello stesso romanzo sarà chiamata la «battaglia del soliloquio», quella che per l’appunto aveva combattuto (e gloriosamente perso) il povero Watt con tutte le sue idee fisse e il suo collasso semantico. Fino a un certo punto tanto a Beckett bastò: passare dall’inglese al francese e trasformare il mumble mumble della lingua inglese, il disquieting sound di un soliloquio sotto dettatura (come dice in Watt: cioè, «i’ mi son un…» ecc.), in un dialogo senza pensiero: che è un modo meraviglioso per andarsene in superficie, e rifuggire dallo stream joyciano (e fare teatro). Poi arriva la“ prima non-persona”: il francese si sposa con la prima persona, con una prima persona focalizzabile e recitabile ma insipiente, in diretta, innominabile. Chi è io? Chi è l’io di un testo che dice io, non l’io Pinco Pallino di una presunta autobiografia, ma un io che vuole costruirsi, emergere, una strisciata dopo l’altra? È la grande questione che fa ritrovare il tempo al personaggio di Proust, non a Proust beninteso: io sono questa cosa qui che dice io. A un certo punto l’io della Recherche (non so se anche Proust, magari sì, ma in lui è soltanto un brivido) sente il lettore, insomma il corpo che lo ospita (il presente verbale ha sempre una sfumatura futura, purgatoriale: Malone, per l’appunto, meurt), e magari persino la bocca che lo mastica e risputa (e un poco ingoia). Da quando gli autori più consapevoli, magari proprio perché nel frattempo ogni cosa intorno a loro tornava a risuonare, hanno sentita finita la (breve) stagione della lettura submissa voce, e tramontata la “serietà” borghese (ma quale? quella che ci stava portando tutti, e ancora ci porterebbe, alla mattanza?), è tornata a farsi sentire la violenza, persino sessuale, dei cosiddetti “oggetti parlanti” (quei vasi, quelle fibbie con su scritto: “io sono il vaso, la fibbia di…”). La Recherche da questo punto di vista, estorce un ascolto e una voce all’ascolto, ed è sadiana, come Comment c’est: è l’“arte dell’ascolto” (che è il titolo del saggio giovanile di Arnheim sulla radio, che si attaglia però fin troppo bene al pulpito-confessionale delle narratrici di Sade). Ecco perché la sintassi beckettiana, per tornare alla trilogia, non assume l’aspetto del parlato, nemmeno quando i personaggi la faranno finita coi resoconti (le memorie di Molloy, il verbale di Jacques Moran, il diario di morte di Malone) e verrà su da chissà dove l’Innominabile (via, nessuno parlerebbe così, nemmeno, come accade a Fox nella Pochade radiophonique, sotto tortura). Non c’è parlato in Beckett, non c’è mai stato, c’è se mai il dicibile. Ecco che allora in queste opere cambia persino la punteggiatura, che assume un carattere neumatico. Nell’Innommable il meccanismo è chiarissimo, ma si riscontra già prima. L’andare verso la vocalità, d’altronde, consentirà a Beckett di abbandonare la poesia, giacché tutto sarà ormai poesia – nella Trilogia si trovano periodi pervasi da rime e giochi fonici –, e dunque tutto sarà esprimibile nella medesima lingua (Badiou parla non a caso di un «poème latent»), dal teatro alla prosa alla poesia. Tutto diventa un unico “da-dire”, nel senso del dictare, cioè della Dichtung. C’è una controprova. Nel suo ultimo testo diciamo in prosa, Stirrings Still, Beckett era proprio allo stremo delle forze (intellettuali, e magari non solo). Lo lasciò così allo stato di fizzle, incapace di procedere. Poi venne a sapere che il suo editore americano era stato licenziato in malo modo dalla stessa casa editrice che aveva fondato (si era entrati nel “virtuoso” liberismo conclamato, a metà degli ’80), ed era praticamente sul lastrico. Così Beckett decise di terminare l’opera, di modo che questi potesse pubblicarla (in edizione limitata e costosissima) per una nuova casa editrice fondata per l’occasione (The Blue Moon). Fu per lui un lavoro estenuante, terribile (già, che cosa si può scrivere dopo Quad e Worstward Ho?) Alla fine riuscì ad aggiungere due parti alla prima che aveva già completato. Naturalmente uno si aspetterebbe la solita secchezza di dettato, se mai impoverita (senza cioè la tensione morfosintattica dei testi precedenti). E invece… è impressionante, certo, ma dopo tanti anni riaffiora in quel brevissimo, faticatissimo testo il cipiglio di Watt, la sua ossessione per le domande, la sua ipotassi vertiginosa. Insomma, la stanchezza e la difficoltà nel tenere fede al suo ultimo (estremo, anzi) stile, hanno fatto riemergere in Beckett uno stile da tempo ripudiato, addirittura pre-rivelazione (la famosa «rivelazione del ‘47», quella che lo avviò verso le tecniche insipienti della “prima non-persona”), e decisamente più complesso. Si passa così dalla prima parte, dove c’è la lingua secca, la lingua balbettante o «linguatelevisione » di cui parlava Deleuze, alle ultime due parti dove comincia una ridda di domande senza risposte, tutte subordinate e incisi, che riportano a Watt, come se cinquant’anni non fossero trascorsi. Ciò dimostra che quello stile, quello successivo dico, apparentemente secco, era in realtà quello che gli era costato il massimo sforzo: non era stato un andare verso la lingua semplice, ma verso una lingua “grado zero”, o “lingua compressa” (e complessa), da dire «in nessun modo ancora». Un home theatre non prevede certo suoni inauditi, ma una separazione inaudita dei suoni. È così che nasce una compagnia.

 

Tra le tante immagini di senilità e di decrepitezza tipiche della scrittura beckettiana, ce n’è una, quella di Krapp, dove c’è una persona oramai fuori gioco che pensa alla propria vita come a qualcosa di perento e di non-conseguibile, da cui il rapporto nevrotico e micidiale con la parola già data, già consegnata, al nastro inciso. La descrizione che facevi fa pensare a questo rapporto. Da una parte la parola già data, dall’altra l’insoddisfazione per quelle memorie e per quella cadenza. Qui si pone anche la questione della “memoria interna” di Beckett: quanto questa memoria crea una compattezza specifica della sua opera?

Krapp aiuta a capire quanto la memoria sia esterna e quanto il lavoro beckettiano sia a suo modo proustiano, nel senso di una “ricerca del tempo da perdere”, non solo nel senso di “tempo da impiegare”, ma di “tempo da disperdere” (disseminare, far sciamare). La memoria in Beckett, quella proprio del signor Beckett, affiora con frammenti memoriali che sono quasi sempre gli stessi. Nella tarda Company, per esempio, i relitti che affiorano sono quelli di sempre; la voce che giunge a qualcuno riverso nel buio presenta referti memoriali che il lettore beckettiano conosce magari a memoria. Ma se tornano sempre le stesse immagini, è perché questo “pacchetto” di memorie personali Beckett è come se l’avesse alienato; alla fine, a furia di tornare, sono diventate le memorie di un “arci-personaggio” (nello stesso senso in cui si dice “arcifonema”) che non è né l’autore, né un personaggio, né il lettore. Il procedimento è semplice (e magari anche questo lo deve a Proust, e ai suoi “vegetali”, che poi già di per loro stavano lì a disseminare spore…): una volta che talune immagini memoriali, a partire per lo meno da Malone meurt, cominciano a tornare (scene ossessive dell’infanzia, amori sacrificati per l’opus magnum, come in Krapp, eventi di improvvisa intensificazione della vigilanza à la Proust), quelle memorie diverranno memorie di lettura o di ascolto (anche io lettore, o fruitore, mi ricordo, che so, della mamma che mi strattona la mano perché le ho chiesto se il cielo è più vicino, o lontano, di quanto non sembri… l’ho già trovata quell’immagine, l’ho già fatta con lui, la ritrovo… è mia). Hanno talmente tanto preso corpo in me, che quando ad esempio in Company si dice a quello riverso nel buio «tu vedesti la luce quel tale e tal altro giorno», sento l’autore, certo, e tutti gli altri eventuali interconnessi… un bel coro paradisiaco in gita premio nell’antipurgatorio. La cosa impressionante per il lettore, però, è come quelle memorie si finisce col sentirle per davvero proprie, anche se non rimbalzate da un’opera all’altra. Prendiamo quell’altro testo incredibile che è Mal vu mal dit: c’è un occhio, un occhio di carne, che fissa una donna vestita di nero in una catapecchia, ci sono intorno i campi e le pietre che avanzano a desertificarli, le pecore in lontananza, la pietra tombale ricurva, l’infinita «sera e notte» della scena; e tutto questo guardare «a morte» la «vecchia così morente» (che è ovviamente un’immagine memoriale, è la madre, ovvio, nei suoi ultimi giorni), non è altro che un procedimento narrativo di tipo cinematografico (primi piani, campi sequenza, montaggio, dissolvenze e quant’altro). Questa immagine Beckett, insomma, la costruisce poco a poco, così che alla fine del testo non hai altro che gli stessi elementi iniziali, da dissolvere uno per volta, fino a poter «aspirare questo vuoto… conoscere la felicità». Ma la cosa mirabile, alla lettera, portentosa, è che l’immagine, l’immagine così svuotata che si fa aspirare, te la aspiri sul serio, e ti resta dentro. Mal vu mal dit vede e dice altrettanto male di quanto si vede e si dice male se si ha ancora la fortuna di essere in vita… non usa il collante delle belle storie, non crea quel mondo morto in cui tutto si vede e si dice bene, che è quello dei racconti. Narra, se mai, questo testo, come narra l’epica, un po’ per volta, e ogni volta ripetendo tutto daccapo, perché l’epos è sempre stato questo, un pacchetto di memorie da innestare in ciascuno, in ciascun rappresentante di quel famoso deleuziano (via Klee) «popolo che manca», cui per l’appunto, per essere un popolo, manca sempre qualcosa. Mal vu mal dit, ecco, ti crea insomma una memoria che entra nelle tue memorie. Abbiamo tutti i nostri tradimenti memoriali, e le lacrime (quelle interiori) che si ghiacciano, come ha insegnato Dante, «in gelatina». Il bisbiglio beckettiano si è sempre accordato con il rumore di fondo del lettore (per questo è radio): vi è una consonanza impressionante tra la tua concentrazione di lettore attraversata dai pensieri, le paure, i ricordi delle persone care che se ne sono andate… e quest’immagine che si staglia dal testo.

 

Per riprendere l’espressione di Debenedetti, Beckett sarebbe allora uno “scrittore senza conversione”. Il traduttore che lo conosca tutto, ne è allora inevitabilmente favorito. Ma questa frequentazione continua come ha funzionato nella tua esperienza di autore autonomo, autore che peraltro proprio come Beckett ha frequentato generi diversi in simultanea? Ne sei stato “convertito” o invece si è inserito sin dall’inizio nella tua scrittura? Si tratta di una presenza discontinua o di una presenza originaria?

Il fatto di tradurre Beckett deriva dalla circostanza che ciascun lettore beckettiano contrae una sorta di affetto per l’autore. Cosa strana visto che, all’apparenza, è freddissimo e rappresenta punti di decrepitezza estrema che dovrebbero dunque respingere il lettore. Tradurlo è stato come pagare un debito contratto. Nell’unica mia lettera a Samuel Beckett di tono «commovente», come la definì il destinatario, gli comfidavo di ricordare ogni attimo e ogni secondo della mia prima lettura di Watt, mi ricordavo quello che stava facendo Watt e quello che stavo facendo io. L’ansia di tradurre credo derivi da quest’affetto nei confronti dell’autore. Del resto, visto che per una trentina d’anni siamo stati contemporanei, io ho avuto la fortuna per una quindicina d’anni di aspettare le sue nuove opere con la stessa ansia, ed emozione, con cui aspettavo, che so, i dischi dei miei gruppi preferiti. Quando venivo a sapere che stava per uscire un suo nuovo libro, non vedevo l’ora di metterci sopra le mani: perché chissà dove mi avrebbe condotto quella volta, dove sarei andato a finire, visto che, se non ha mai avuto una conversione, non ha però mai smesso di andare oltre. E non mi ha mai deluso. Non so quanto abbia influito sulla mia scrittura, non sta a me dirlo. Un’unica cosa so di certo che devo a lui: la voglia di riflettere sul medium, pensare lo strumento prima ancora di imbracciarlo.

 

Lo si potrebbe allora dire un “autore ulteriore”?

Quando lessi per la prima volta Rockaby mi ricordo che dissi «ma questo è rock!». Rimartellante come il rock, il punk-rock dell’epoca. Non me l’aspettavo proprio, non avrei mai creduto che Beckett tornasse a una specie di teatro di poesia, diciamo così per semplificare. Ecco, credo che sia questo il lascito di Beckett, il suo insegnamento: chiunque si occupa di arte del discorso non può, non deve fermarsi al foglio. Si scrive e si crea per tanti altri media diversi, quando hai a che fare con l’arte del discorso e non con la “letteratura” e i suoi “seri”, tristissimi lettori. Poi ci saranno anche degli influssi tematici, magari nelle poesie, nel teatro. E ce ne saranno sempre tanti anche da tanti altri autori, ovviamente. Uno che fa certe cose in proprio, io la penso così, non è mai se stesso, o è se stesso in quanto semplice punto d’incrocio. È se stesso in quanto stocastico punto d’incrocio. Diciamo che il luogo dove emerge davvero Beckett, nelle cose che ho fatto, è il non-luogo, la scelta di abitare il non-luogo, ossia di non essere né poeta, né romanziere, né cantante, che so, né teatrante, ma una sorta di metastasi che attraversa i generi e li modifica. Questo è uno stimolo che mi viene sicuramente dalla sua opera. Tanti credono che Beckett abbia colpito l’immaginario di un pubblico vasto con la novità del tema, la ciclicità, l’assurdo o cose del genere. Io sono invece convinto che quello che ha affascinato le folle («in delirio», come le intravedeva scherzosamente Clov in Fin de partie), è quello sperimentalismo tecnico che investe il suono, il ritmo, la luce. Beckett è stato un mago dell’illuminotecnica, e magari non solo sulla scena. Gli spettatori erano affascinati da Beckett per quei suoi miracoli scenici, che abbattevano sì la quarta parete, ma solo per risucchiarli nella trappola. Altro che dramma borghese… teatro barocco!

 

Spieghi in questo modo la scelta di Beckett di essere anche regista delle proprie opere?

Io credo che sia sempre stato regista delle sue opere. Era sempre presente, quando poteva, alle prove, anche prima di diventare regista in proprio, si profondeva in consigli e suggerimenti, soprattutto nei confronti degli attori, i quali avevano una vera venerazione nei suoi confronti (e che lui avrebbe poi rispettato come pochi registi al mondo…) Le persone con cui amava accompagnarsi, poi, per il consueto Jameson finale, erano i tecnici. Ma al di là di questo, se uno legge le didascalie, come ha fatto Cesare Segre in un bel saggio, scopre sì la loro natura letteraria ma anche il fatto che presentano indicazioni performative precise: tempi, espressioni, tutto. Credo insomma che Beckett volesse sfruttare intensamente il mezzo, ogni mezzo. Del resto, addirittura la sua prima opera televisiva, ossia Eh Joe, fu messa in onda per la prima volta dalla televisione tedesca, già negli anni Sessanta, con la sua regia (la prima, dunque, prim’ancora di quelle degli anni ’80). Difficile immaginare niente di più innovativo e coinvolgente. La domanda, quella che Beckett si sarà posta prima di azionare la camera, sarà stata: come abbattere lo schermo e risucchiare nella trappola lo spettatore? E la risposta è stata la connessione fra apparecchio e utente (un cyborg, se preferisci), provocata da un flusso di parole al limiti dell’udibile (vieni qua, alza il volume… non c’era mica ancora il telecomando) e dagli scatti di una zoomata persecutoria (tipo “uno, due, tre… stella!”). Ci scivoli tu negli occhi di Joe, mentre Joe si scivola dentro. Questa riflessione sui mezzi fa di Beckett, a ben vedere, l’unico joyciano più joyciano del maestro. Del resto, quando si riflette sui mezzi, questo glielo aveva insegnato Dante, si fa politica. E clinica. Cioè non si smette di cercare («si finisce col trovare», avrebbe aggiunto lui, «è una questione di probabilità»). Appunto: Dante… Proust. Joyce.. Beckett.

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