Scambi: il critico, il poeta

 

[Riproponiamo qui – auspicandoci che accada sempre più spesso – la lettura di uno scambio tra Stefano Guglielmin e Fabio Franzin avvenuto sulle pagine di  Blan de ta nuque, in occasione di uno scritto critico di Stefano sulla raccolta di Fabio 'Fabrica'.]

 

Difficile scrivere su Fabrica (Atelier 2009) di Fabio Franzin dopo gli entusiastici ed autorevoli commenti usciti negli ultimi mesi. Difficile perché Fabio è diventato, suo malgrado, un'icona della poesia operaia, visto che Luigi Di Ruscio vive altrove e scrive in lingua. Oltretutto il poeta di Motta di Livenza (TV) usa il dialetto con maestria, lo suona persino, pescando nel paese in cui vive e, in questo libro, nell'acquario industriale. Organizzato per strofe regolari dal metro che si approssima al settenario, il poemetto racconta – dall'interno e per scene esemplari – la vita di fabbrica, di una piccola fabbrica, dove, per esempio, il "titolare" si nasconde dietro i bancali, per spiare l'efficienza del dipendente; e la forza-lavoro bestemmia, si fa le peggiori carognate, probabilmente è leghista e coltiva l'orticello dell'interesse privato, bonsai dei grandi sfruttatori multinazionali. Fra operaio e padrone c'è infatti soltanto una differenza quantitativa, che Franzin accetta nella sua verità fattuale e rinforza, sottolineando l'omologazione borghese di entrambi, che si concretizza nel sogno operaio della pensione, nel desiderio di possedere una donna ("Paperina") e – visto che egli stesso è personaggio poematico – di "giocare" con le parole, ossia (e qui sta l'osservazione critica che mi permetto di avanzare) di trasformare il dramma operaio in elegia, in qualcosa di meno doloroso dei calli che vengono alle mani, lavorando. Chiaro che per Fabio, il gioco è serio: compensa, infatti, e completa, una vita altrimenti ripetitiva. la vita dell'operaio, appunto, con quel surplus di alienazione che la pervade, rispetto a molti altri lavori dipendenti. E tuttavia, a mio parere, il piglio elegiaco non basta proprio perché addomestica il conflitto, addolcisce, con una vena malinconica, la crudezza dell'agire in fabbrica, la miseria dei rapporti umani, che pure Franzin non nasconde, ma semplicemente addita senza dare, a tutto questo, libertà di parola, con tutta la forza destabilizzante che ciò avrebbe comportato. L'esito complessivo consiste nel trasformare il tempo possibile (e utopico) della storia in ciclicità naturale, in un destino a cui non ci si può sottrarre e che si riassume nel distico seguente: "che si tenga stretta la dignità, l'operaio,/ meno duce sia il padrone". Mi chiedo: sono queste le parole più potenti che la sua poesia possa pronunciare? Certo fanno comodo alla società letteraria, che s'entusiasma nel sentire la voce operaia innocua, nel trovarle la bocca piena delle stesse cose che essa pronuncia: dolore, amore, stanchezza e quel lamento verso la vita che non diventa mai pronuncia chiara. Insomma: "Io so i nomi dei responsabili" di pasoliniana memoria mi piacerebbe sentirlo dire anche a Fabio Franzin, amico cui voglio bene e che per questo metto in guardia, affinché la sua poesia non coccoli i sentimenti piccolo borghesi di tutti noi, ma ci apra la testa con un punto di vista differente, urticante, destabilizzante. Sia chiaro, non intendo ripescare vecchi miti fortunatamente morti: epica operaista, visione dialettica della storia, purezza di classe. Mi piacerebbe invece che la voce operaia di Franzin attingesse davvero dal fondo scuro del proprio disagio, nascesse dal vuoto di senso dell'agire alienato anziché dalla rotondità intellettuale, che vorrebbe un operaio illuminista, un uomo libero ma addomesticato alle regole del sistema capitalistico. Perché è proprio questo che mi porto a casa leggendo Fabrica: una proposta moderata di conciliazione fra le parti, storicamente più consona al ceto impiegatizio e cattolico che alla rabbia operaia (che in questi giorni è evidente); una rassegnata condizione di sudditanza, la cui emancipazione è solo morale e mai sociale o politica; ma anche la consapevolezza che il dialetto del triveneto (e non solo) è tutto pregno della voce del padrone, non ha parole per dirsi nella propria singolarità, se non diventando bestemmia, urlo, orizzonte contadino (comunque luogo della servitù e dell'umiliazione), deformando insomma l'universo 'luminoso' della civilizzazione borghese. Siccome Fabio Franzin è bravo ed essere poeti significa fecondare la voce, lascio a lui il compito di uscire da questa melma linguistica, che tiene fra le proprie maglie anche la verità della sua collocazione sociale.

 

La risposta di Fabio Franzin

Caro Stefano, ho letto, e ti ringrazio, davvero di cuore, per esserti occupato del mio "Fabrica", innanzitutto, e per essertene occupato davvero "criticamente", muovendo, cioè, delle critiche al mio lavoro, atto che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la tua levatura di critico davvero militante, data la nostra amicizia; ma in qualche modo sento di dover dar conto degli appunti che mi muovi: innanzitutto dirti che è lungi da me l'assurda illusione che la mia poesia conquisti chiunque, ci mancherebbe! detto questo, vorrei aggiungere che io, come uomo, vivo della biblica incisione che "chi è senza peccato scagli la prima pietra", e, come poeta, dell'altrettanto biblico, per me, assunto di Saba sul cercare di fare, perlomeno, una poesia onesta. La condizione operaia non è dissimile dalla condizione sociale in cui tutti viviamo, arranchiamo, sguazziamo (bisognerebbe rileggere il testo fondamentale di Simone Weil, vedere come lei, che pur in altri temi è stata feroce, ha vissuto l'annichilimento morale dentro la fabbrica, come le sue parole si sono piegate in un canto di mestizia e di sconforto). Io ho lavorato in fabbrica per trent'anni, e le mie cose le ho scritte davvero con tutti i miei calli e le mie ernie, ma anche con quella voglia di stare, di "giocare" con le parole, così da sentirmi ancora vivo, la sera, la notte, per sentirmi salvato dall'umana miseria di mendicare le briciole, le bucce di patata, con la ruffianeria e i piccoli escamotage che puoi trovare in ogni racconto di fabbrica, o di lager. Posso garantirti, se ce ne fosse bisogno, che in fabbrica le unghie si sono sommate alle dita che indicano, lì i nomi li ho fatti, coi cognomi e i soprannomi, pagando poi l'avversione proprio di coloro per cui ho lottato, e ho rischiato anche il mio bene familiare. Sai, e non parlo certo di te, quanti critici e poeti ho conosciuto che si esaltavano per l'esempio e il sacrificio di Majakowsky, o di Mandel'Stam, riempirsi la bocca sull'intransigente verità della parola, salvo poi vederli ruffianarsi per pubblicare con una casa editrice importante o piazzare il saggetto sulla rivista. Allora ho capito che è più importante tentare di piantare un seme piuttosto che arare, ruspare tutto, che è più importante, e onesto, indicare piuttosto che urlare "maledetta razza padrona" come Brugnaro negli anni '80. Anche perché, come nella naja, come in qualsiasi consorzio umano, gli ultimi criticano l'arroganza dei primi sognando solo di diventare primi per far pagare ad altri ultimi il dolore che essi hanno attraversato. Un altro aspetto per me importante, è che io non credo nel potere che ha la parola scritta di fare rivoluzione, sarebbe caricare qualcosa di puro di una responsabilità troppo grande, e anche questo atto sarebbe sacrilego.

 

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Stefano Guglielmin
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1 Comment

  • Trovo un po’ singolare questo consiglio di Guglielmin a Franzin. Come se dalla dura esperienza della fabbrica dovesse provenire la risposta – in forma di ribellione – alla fabbrica stessa, quella risposta che gli impiegati-borghesucci non possono tentare. Mi sembra evidente che quella risposta ormai non c’è più, e che la dura esperienza della fabbrica si limiti a modulare una sensibilità particolare ed un modo particolare di esprimersi e che i problemi generali si pongano ugualmente a tutti quanti, senza distinzioni ontologiche. Per questo considero saggio l’atteggiamento di Franzin, che si rifiuta di fare il sioux portato a spasso in costume per le corti europee, e vuole “vestirsi” come gli altri, affrontare le questioni che affrontano tutti gli altri, che sono poi quelle solite, e fondamentali, della vita.

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