Fabio Franzin

 

[ Roberto Cogo – Poesia/Poesie, Schio, Palazzo Fogazzaro, 1 marzo 2008]

Vorrei cominciare la serata chiedendo a Fabio Franzin di leggere una poesia — bellissima ed emblematica a mio parere — dalla sua ultima e recente pubblicazione in dialetto Opitergino-Mottense, riferito cioè alla zona compresa fra Oderzo e Motta di Livenza nel Trevigiano e zona di confine (anche linguistico) tra Veneto e Friuli, dal titolo Mus.cio e roe, cioè Muschio e spine. La poesia in questione s’intitola in italiano I semi e può servire, penso benissimo, a introdurre al pubblico presente la ricchezza e la stratificazione complessa, eppure immediata per partecipazione e comprensione, della poesia di Franzin. Una poesia come sentirete tutta dentro alle cose dell’uomo e della natura, tutta compressa nel seme appunto della sua forza e fragilità di esserci e di esistere, di percepire e sentire, tutta racchiusa dentro al grande e segreto processo multiforme e dinamico della vita, ma anche dentro al segno inesauribile della sua esperienza e conoscenza. (p.46)
 
Ma perché il dialetto? Perché l’uso di una lingua che è nicchia di una lingua già di per sé di nicchia come l’italiano? Perché quello che sembra un confino volontario, un farsi da parte, un esilio dai grandi numeri, dal grande (anche se in poesia , si sa, non lo è mai…) pubblico possibile? Una delle risposte, a mio avviso, ma poi il poeta stesso ci darà, se lo vorrà, ulteriori delucidazioni, una delle risposte possibili è contenuta nelle poesie della prima sezione del libro già citato, quella più ricca e copiosa dal titolo, Paesaggi e lontananze. Qui i temi prevalenti sono l’amore e il desiderio, la loro fragile presenza come la loro sofferta lontananza. Qui i paesaggi interiori riflettono quelli della natura esterna e quelli esterni divengono paesaggi diciamo dell’anima, il tutto in un continuo gioco di rimandi e di sovrapposizioni, in un caleidoscopio di riflessi e di luci, di proiezioni, ombre e chiaroscuri. Qui i corpi umani si confondono con il paesaggio e i paesaggi sono percepiti e vissuti come relazioni e corpi. Qui ho potuto incontrare e sentire una fusione alta tra percezione e sentimento, qualcosa che forse solo l’uso del dialetto può rendere tanto concreto, tangibile, palpabile con l’impasto denso dei suoi suoni e con il volo ubriaco dei suoi accenti e ritmi tutti connessi alle cose, correlati agli elementi concreti del vivere quotidiano a contatto con la terra, la natura e gli oggetti dell’agire umano in essa.
Chiederei pertanto a Fabio Franzin di leggere le due poesie d’apertura alla sezione citata e insieme anche allo stesso libro Mus.cio e roe. Gli chiederei anche di commentare, in seguito, queste mie minime considerazioni sulla base dei versi che sentirete — così carichi, a mio avviso, di sensualità e di natura. (pp. 14-15)
 
Anche la scrittura è ricondotta spesso a una naturalità immanente e pervicace — pensiamo solo alla ricorrenza della corrispondenza tra le foglie e i fogli (in dialetto ancora più sonoramente fusa e saldata nei vocaboli fojie e foji) oppure alla ricorrente presenza della pavèjia bianca, la farfalla che pare guidare la mano e il pensiero del poeta con la leggerezza del suo volo, sgravandolo almeno momentaneamente da accumuli di peso e stanchezza. Fuoriesce, dai versi di Franzin, un rispetto della natura e delle sue forme che è insieme obbedienza alle sue leggi e ricerca di un contatto profondo in cui rinnovare lo stupore e il sentimento dell’esistere al suo interno. Si tratta solo di concretizzare uno stato contemplativo e di silenzio, un cielo di luci e di ombre in cui la pavejia possa ancora fare la sua comparsa per ricondurre l’uomo, il poeta e la scrittura verso casa — verso un’interiorità non involta ma aperta sul mondo e fatta di luci e ombre, come di vento e nebbia — soprattutto dischiusa al respiro della memoria e all’ascolto del silenzio. (pp. 37-38-39)
 
Questa inoltre è una poesia di immagini. Vive nel dispiegarsi e nel susseguirsi di vedute e fotogrammi, nel loro richiamarsi e inseguirsi attraverso tutte le diverse sezioni del libro. Ma, a ben vedere, la poesia di Franzin prende costantemente le mosse da un elemento di volta in volta naturale o ambientale o temporale in riferimento a una parte del giorno o a una determinata stagione. Negli haiku classici giapponesi questo elemento stagionale, chiamato kigo non può mancare, determinandone l’aspetto complessivo, la portata e l’emblematicità, ma anche influendo sulla sonorità e sul ritmo interno alla brevissima composizione. Franzin non si ferma lì, questo è il punto di partenza che gli permette di aprire il campo a una visione estesa, a una più ampia osservazione, in cui procedere con una messa a fuoco di alcuni elementi significativi, come dicevamo, a uno svolgersi ritmico e ordinato di immagini una in seguito all’altra. L’atto della visione ricorda qui il fantastico ideogramma cinese che sta per il verbo vedere e che raffigura l’occhio che cammina sul e dentro il paesaggio. (p. 42-43)
 
Ma si tratta, come ben sappiamo, di un paesaggio in pericolo. Mancano sentinelle che vigilino e lo proteggano dall’abuso umano. Si leva, in questa poesia insieme forte e delicata, una voce di sentito ecologismo e di critica verso modelli di vita ancora infettati da un’avidità rapace, da quell’idea tanto difficile da estirpare di una presunta superiorità dell’uomo sul mondo naturale che sembra dargli il diritto di poterlo sfruttare per i propri usi e consumi. Allora ecco che la mitica wilderness il poeta se la va a scovare dietro gli angoli delle strade e delle città, nei luoghi abbandonati e remoti a un passo dalla civiltà, luoghi in cui la natura si ribella e lentamente rimette in moto la sua prorompente inesorabile azione — azione non riconducibile all’umano, come la nostra mentalità e cultura antropocentrica continuano a riproporci pensando di poter fare di se stesse la misura di tutte le cose. Ma come ci dice D. H. Lawrence, geniale interprete della relazione tra uomo e natura, con uno scatto fulminante del pensiero: “L’universo non è umano, grazie a Dio!”. (Pag. 45)
 
E qui siamo tornati al nostro punto di partenza, a quei semi che dal buio della terra si proiettano verso il cielo e la vita, per orientarci adesso verso l’umanità, con le sue pene e le sue gioie. Umanità che in Franzin trova non di rado il proprio emblema in una condizione sospesa tra il passato e il futuro. Nell’ultima poesia della sezione Paesaggi e lontananze compare la figura del padre a cui il poeta si rivolge con affetto quasi per chiedergli conferma delle sue sensazioni e inclinazioni, quasi a cercare un conforto per una fame d’altri tempi che lo visita e rode, spingendolo alla ricerca delle parole della poesia. (p. 59)
 
Da qui in avanti, saranno le storie degli uomini a prendere il sopravvento: personaggi perlopiù umili, appartati, silenziosi. Saranno ritratti di esistenze ai margini, ma non per questo marginali, tutti a loro modo emblematici, come lo sono quelli di Sherwood Anderson nei suoi celebri Racconti dell’Ohio. Ma là dove Anderson fa prevalere la loro carica grottesca, Franzin fa operare la pietas, un misto di comprensione e partecipazione al loro vivere semplice ma ben centrato e saldo. Chiederei a Fabio di leggere alcune poesie che ho scelto da Storièe e quareti (de pianura) per poi finire con qualche sua proposta anche dalle due ultime sezioni del libro Dai paesi al presepio e Aneme ambueànti. (p.62+66+85)
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