La franca lingua di ‘Fabrica’

 

di Manuel Cohen

Ci sono poeti che hanno impegnato la vita a delineare, definendolo, lo spazio della propria voce, a vivere la phoné ereditata, altrimenti koiné, quale luogo, couche geo-antropologica. Poeti la cui esperienza del mondo è avvenuta “dentro il paesaggio”. E’ accaduto, e accade, in alcune vicende paradigmatiche e eccentriche, in lingua e in dialetto: Biagio Marin, Andrea Zanzotto, Tolmino Baldassari, Tonino Guerra, Umberto Piersanti…Come in ideale continuità, Fabio Franzin, classe 1963, sembra ripartire da chi lo ha preceduto, piuttosto che dalla tabula rasa o deriva postmoderna che ha segnato con i suoi stigmi di spaesamento, quando non di compiaciuta deterritorializazione culturale, i molti esordi degli autori ‘emersi’ dalla generazione nata negli anni ‘Sessanta. Altro fatto poi, è che il nostro vada pubblicando sillogi in lingua e in dialetto veneto, nella sua varietà opitergino-mottense, che presenta vari gradi di affinità con la limitrofa parlata d’area friulana. Il dialetto veneto adottato, inoltre, risulta successivo alla sua formazione prima ( Franzin si trasferisce da Milano nel paese paterno di Motta di Livenza al compimento del sesto anno di età ). Notazioni queste che sollevano alcune questioni relative all’interlinguismo, se non propriamente al translinguismo, con la possibilità di poter passare o scrivere da una lingua all’altra ( Cfr. Steven J. Kellman, The translingual immagination, University Press of Nebraska, 2000) e pure di tradurre, come accade per certi testi in appendice a “Fabrica”, in uscita nelle edizioni di Atelier .

Comunque sia, la parola neo-dialettale di Franzin, se da un lato e solo in parte sembra richiamarsi al “parlar materno”, volgare e d’uso, appreso dalla madre, che poi è il tratto distintivo del provenzale di Arnaut Daniel, e che il Guinizelli segnala a Dante nel settimo girone del Purgatorio (XXVI. v.117), d’altro canto, sembra avocare a una matrice leopardiana, al particolare sintagma a cui fa riferimento ne La ginestra (vv. 114-115) e che di per sé prefigura un programma: “con franca lingua/ Nulla al ver detraendo”. Nel solco di una precisa linea che da Dante attraverso Leopardi, passando per Pascoli, e per l’accoglimento della nozione di “poesia onesta” di Saba, fino all’esempio di una accentuata scorrevolezza versificatoria, di lingua ‘naturale’ o basica, di Biagio Marin, vedo inserirsi l’avventura del nostro. Non tragga comunque in inganno lo ‘stile semplice’ , dimesso nelle sue tonalità, di understatement e di linguaggio quotidiano, di confessione o érlebnis: né si equivochi la dismissione della rima come assenza di gusto, o naïveté. Al contrario, “l’ampiezza dello spettro” e “l’allargamento progressivo della prospettiva, da fatti personali a eventi collettivi, dalla poesia lirica amorosa a quella narrativa, dall’autoanalisi alle storie familiari e ai ritratti di personaggi” colti da Edoardo Zuccato nella prefazione a Mus.cio e roe ( Muschio e spine, Le voci della luna, Sasso Marconi 2007) ne sono tratti distintivi. In Fabrica colpisce, già a una rapida occhiata, la rispondenza tra morfologia espressiva e motivi, sicché, anche graficamente ,la suite articolata in tre sezioni, presenta una compatta struttura strofica nelle prime due ( la prima, eponima, di 18 testi, la seconda, Per nome, di 19, mentre nella terza vengono collocati 6 testi a struttura variabile, traduzioni operaie da altri autori, quasi a conferire dinamica di coralità all’argomento) , una sequenza di 37 testi ognuno di 5 strofe pentastiche disposte a sbalzi o gradini, come a riprodurre nell’arcata versale l’immagine più caratterizzante la realtà della fabbrica, ovvero, la catena di montaggio. Versi prevalentemente ipometri variamente oscillanti tra il senario e il novenario, e dove sapientemente all’assenza di rima, dettata credo dalla esigenza di non assecondare mimeticamente un dialetto di per sé musicale, Franzin sopperisce con una melicità rastremata, data da sonorità non esibite, assillabanti (“co ‘chee camise”, “con quelle camicie”) e allitteranti(“sogni soeàdhi”, “sogni volati via”), strategicamente enjambées (“sesti/ servi”, “atti/servili”), a garanzia di ‘periodicità’ , secondo la nozione neometricista di Jean Cohen (Cfr. Strutture del linguaggio poetico, Il Mulino, Bologna 1974). Così, le figure della ripetizione, come l’anafora “varda…varda”, “guarda…guarda” (v.1), variata “vardii…vardii”, “guardali…guardali” (v. 6, v. 21) che marca la cadenza, e la pena, del testo introduttivo; o, altrove, le elencazioni: “slavi// e indiani, romèni e neri,/ atei e cristiani, musulmani/ o de Jèova, del demonio/ dea fame o del dio dei schèi,/ tuti mis.ciàdi, cussì, tuti// deventàdhi un fià pì fradhèi/ fra de lori, là, tuti tacàdhi”, “slavi// e indiani, rumeni e neri,/ atei e cristiani, musulmani/ o testimoni di Geova, del demonio/ della fame o del dio denaro/ tutti mescolati, così, tutti// già un po’ fratelli/ fra loro, lì, tutti stretti”, a connotare stilisticamente la serialità della realtà lavorativa, descritta e nominata con una lingua esatta e essenziale, enucleata nei luoghi, nei tempi, nelle pause produttive, nei vari stadi dei processi di produzione, finanche nella nominazione degli oggetti o attrezzi da lavoro, in una “lingua oggettuale, non oggettiva” (come ho per altri versi rilevato presentando alcuni inediti di Franzin su “Il parlar franco”, anno 8, n. 8, dicembre 2008) che immette nel dialetto le parole di un linguaggio settoriale specifico o tecnologico: “machine”(macchine), “luchét”(lucchetto), “guanti de gòma” (guanti di lattice), “rulière” (rulliere), “banchi” (bancali), “muéti” (carrelli), “tubi de aspirazhión” (tubi di aspirazione), “blòc de trucioeàre” (blocco di truciolato), o inserimenti allotri : “film”, “supermarket”, “jins” (jeans): registrando così pure il dialetto in un processo di moderata mescidazione e di meticciato contemporanei, piuttosto che nella fissazione o recupero oleografico e manierato di una parlata ‘originaria’…e questo, nel solco di una ‘tradizione’ che in area trevigiana rileva lo sperimentalismo plurilinguistico (in verità più accentuato) di Ernesto Calzavara, la mescidanza tra termini dialettali di varie aree linguistiche (trevigiana, padovana, litorale veneto) in Sandro Zanotto, e tra termini dialettali e termini tecnici e marinareschi; oppure nell’uso della diglossia italiano-dialetto veneto, con le allotrie dall’inglese, in Luciano Cecchinel, ad esempio, al fine di approdare a un linguaggio d’autore ‘sovralocale’, che in Franzin produce effetti di congruità e pertinenza. Le molte figure di parallelismo o similitudine che si registrano nella prima sezione (gli operai legati alla catena di montaggio come i carrelli del supermarket legati uno ad uno, la laboriosità silenziosa degli stessi, come quella delle formiche, la fabbrica come teatro, i lavoratori come burattini…) trova una ulteriore conferma nella seconda, più serrata, dove realtà umana e realtà degli oggetti si legano, si saldano negli anelli dei processi produttivi, succedendosi senza soluzione di continuità. Con un precisa lettura direi post-ideologica, dalle striature accorate e dagli addentellati irredibilmente civili, alla descrizione di un’esistenza, segue la descrizione di un ingranaggio della fabbrica, così, sapientemente, come in un romanzo popolare dai toni narrativi, epici, corali, rimarcandone la ‘fatica’ o la sofferenza di ‘pezzi’ intercambiabili, e assemblabili, quando non sostituibili, si succedono le singole storie: Marta che pensa al suo destino di levigatrice, il lavorìo del nastro trasportatore della pressa, l’affanno di Mirco, la lama circolare, la sirena, Joussouf, l’extracomunitario che vede grazie al suo lavoro ricomporsi la famiglia, il silos imponente e cilindrico, Roberto, eterna figura di yesman che ride col padrone, i guanti da lavoro, Sergio che studiava da dottore e si ritrova tornitore, le macchine nel capannone, Pietro, operaio felice…una catena di ritratti di esistenze comuni e non illustri, eppure memorabili, umanità di sogni, aspirazioni, timori e precariato, allineate a oggetti, equiparate a merci. Così Fabrica, confuta l’immagine patinata della fortuna del Nord-Est produttivo, e della penisola tutta, su cui vengono addensandosi nere nubi di recessione, sfruttamento, razzismo, precariato. L’Italia ridente delle veline e dei tronisti viene rimossa dagli effetti di uno tsunami economico che tocca il paese reale dove “è solo il male a far rima con sociale/ oggi, per chi si ostini a continuare/ a vivere oltre l’età contributiva” a sopravvivere alle “vette capovolte con il mutuo” da pagare, leggo dai recentissimi Canti dell’offesa ( apparsi su “NazioneIndiana”, 20.gennaio.2009) versi in lingua, adiacenti ai dialettali di Fabrica. E mentre registro queste note in margine alla raccolta di Fabio Franzin, mi ritrovo tra le mani una ulteriore raccolta ancora inedita, nata dalla felibre e multiforme ansia dell’autore di recuperare forse a un esordio relativamente tardivo. Ecco dunque i versi di Pòre paròe, Povere parole un poemetto in bellissime quartine di impianto tradizionale, e dove anche qui, Franzin evita accuratamente il ricorso alla rima. Non anticipo nulla se non che raramente ho letto poesie equiparabili ad autentiche, profondissime preghiere. Il ricordo va, inevitabilmente, alle Elegie istriane di Biagio Marin (introduzione di Carlo Bo, Scheiwiller, Milano 1963) per la purezza adamantina, il dato di nudità naturalistica, la sapienza di una religio naturale e remotissima, la grazia che, sarà pure un luogo comune, ma sembra sopravvivere in certe esperienze neo-dialettali, la luziana humilitas, quella adesione e aderenza alla natura fertile e vitale propria dei grandi poeti sapienziali e creaturali.

[l’intervento è apparso su ‘Atelier’,n.53,anno XIV, marzo 2009]

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