Parola ai Poeti: Fabio Franzin


Qual è lo “stato di salute” della poesia in Italia? E quello dei poeti?

Mi sembra davvero buono. Abbiamo molti poeti seri e consapevoli nel paese, poeti che spesso non riescono però a trovare una collocazione e una visibilità adeguate. Siamo ancora, a mio avviso, una terra di poeti così come lo è stato da Dante in poi; gli esiti di questo primo decennio lo stanno confermando. Se poi guardiamo a quanto la poesia sia considerata in questo paese, il discorso è molto più serio e deprimente: le collane storiche (quelle rimaste) fanno uscire pochi libri all’anno, non investono sui giovani, e i mezzi di informazione non ne danno quasi mai spazio, o perlomeno, notizia.

 

Quando hai pubblicato il tuo primo libro e come hai capito che era il momento giusto? Come hai scelto con chi pubblicare? Cosa ti aspettavi? Cosa ti ha entusiasmato e cosa ti ha deluso?

La mia prima pubblicazione, una plaquette in lingua, è un evento che ho rimosso dalla memoria, sia perché misconosco quel libretto, sia per il pessimo rapporto intessuto con “l’editore”. Sbagli di una gioventù peraltro tardiva. E’ stata una delusione sotto tutti gli aspetti. Sento perciò di dover dare un consiglio ai più giovani: frenate la smania di voler vedere racchiuse fra due copertine le vostre poesie, e non affidatevi al primo stampatore che vi propone una pubblicazione (che sia a pagamento o meno), affidate i vostri testi alle riviste, prima, e pubblicate solo quando sentite che il frutto è maturo, e che l’editore cui vi affidate sia, soprattutto onesto, o perlomeno appassionato quanto voi.

 

Se tu fossi un editore cosa manterresti e cosa cambieresti dell’editoria poetica italiana? Cosa si aspettano i poeti dagli editori?

Difficile rispondere alla prima domanda. Da quando il libro, da messale di cultura, si è trasformato in un prodotto commerciale, fare l’editore di poesia penso sia una avventura, una scommessa molto ardua. E nutro una stima profonda, un grande rispetto verso chi, conscio di questa realtà, coltiva ancora, con passione, fatica e dedizione, una collana di poesia. I poeti si aspettano solo, come ho detto sopra, che gli editori siano mossi dal loro stesso fuoco; nel mio caso, a parte la prima esperienza negativa, mi ritengo molto fortunato: ho pubblicato le opere in cui credevo con editori minori, sì, ma seri e motivati, che hanno supplito alla mancanza di distribuzione con uno sforzo di divulgazione davvero ammirevole e commovente; con loro, il rapporto non poteva non sfociare in una splendida amicizia.

 

La poesia di domani troverà sempre maggiore respiro nel web o starà in fondo all’ultimo scaffale delle grandi librerie dei centri commerciali? Qual è il maggior vantaggio di internet? E il peggior rischio?

Entrare in una libreria è ormai davvero deprimente, e non solo riguardo alla poesia. Ma per un possibile “cercatore” di poesia è ancor più frustrante e fuorviante: troverà, quando gli va bene, uno scaffale colonizzato dai grossi gruppi editoriali, e non è detto poi che fra quei volumi vi sia davvero la migliore poesia in circolazione, raro che un giovane che si accosti alla poesia trovi adeguata risposta ai suoi desideri. Ecco, internet ha il merito di aver dato spazio e visibilità proprio a tutto quel “mondo sommerso” che non trova spazio nelle librerie, e da cui è possibile fiutare e conoscere magari realtà anche migliori; il rischio però è quello opposto: troppa offerta, un “mare magnum” in cui ci si può disperdere senza le necessarie coordinate.

 

Pensi che attorno alla poesia – e all’arte in genere – si possa costruire una comunità critica, una rete sempre più competente e attenta, in grado di giudicare di volta in volta il valore di un prodotto culturale? Quale dovrebbe essere il ruolo della critica e dei critici rispetto alla poesia ed alla comunità alla quale essa si rivolge?

Quello che ritengo auspicabile, e in parte, per mia esperienza, avviene, è che si formi, soprattutto, una rete di affetto e di rispetto, fra di noi, una vera comunità, che non si attuino anche qui le solite conventicole, o che il tutto sia corrotto dall’invidia. Ciò non esclude che vi sia una scala di valori, di orientamenti (quasi sempre è il tempo, poi, a darne conto e ragione). Credo che anche in questa realtà debba prevalere quell’apertura – richiesta nelle istanze sociali: di non discriminare per credo, razza, religione -, qui rivolta a stili, lingue, temi. Nel mio caso, io parlante e scrivente dialettale (per di più di periferia), ho incontrato qualche ostracismo nel mio cammino, qualche preclusione prettamente ideologica. Il ruolo della critica dovrebbe presupporre curiosità, innanzitutto; io vedo il critico come uno mosso dal desiderio di capire, di scoprire, in qualche modo proprio di “mappare” la realtà letteraria di un paese, e per scoprire bisogna sempre frugare, spesso le cose migliori sono nascoste. Prendo ad esempio una mia passione: io amo frequentare i mercatini dell’antiquariato alla ricerca di libri rari, o per me, preziosi; raramente ne ho trovato uno là in bella mostra sopra il bancone, molto più spesso ho dovuto rimestare nei cartoni, nelle cassette, estrarlo, macchiato e polveroso, da sotto un mucchio di altri più in buono stato; bisognerebbe chinarsi, sporcarsi di nuovo le mani. Curioso poi, riguardo alla critica, che abbia “saltato”, o perlomeno non sondato come meritava, una generazione che, a parer mio, ha dato e continua a dare molto alla poesia: quella dei poeti nati negli anni ’60, quella cui appartengo; generazione chiave per capire la storia del nostro paese. Pierluigi Cappello ha detto recentemente in una intervista che noi siamo stati gli ultimi a scrivere lettere a mano; aggiungo che noi siamo stati lo snodo fra i motorini aggiustati col filo di ferro nei garage e internet, testimoni della fine di una civiltà contadina, e ora di quella industriale.

 

Il canone è un limite di cui bisognerebbe fare a meno o uno strumento indispensabile? Pensi che nell’attraversamento della tradizione debba prevalere il rispetto delle regole o il loro provocatorio scardinamento?

Non ho mai conosciuto atleta che possa aver fatto il record senza ci fosse l’asticella della misura. Il canone, la tradizione, sono l’asticella, il limite di fronte all’atleta pronto per la rincorsa, per il salto. Penso che ognuno di noi si sia formato studiando e amando, confrontandosi con chi ci ha preceduti. Dopo, è vero, bisogna necessariamente staccarsi dagli dei, evitare l’epigonismo, cercare una propria voce. Nella letteratura, anche chi ha inteso spezzare l’asticella, è destinato a comparire poi rinchiuso nelle antologie in compagnia di coloro da cui aveva fatto di tutto per separarsi.

 

In un paese come il nostro che ruolo dovrebbe avere un Ministro della Cultura? Quali sono, a tuo avviso, i modi che andrebbero adottati per promuovere la buona Letteratura e, in particolare, la buona poesia?

Un ministro della cultura dovrebbe lottare per convincere chi di dovere che essa è un bene essenziale in un paese, in ogni paese, anche, e soprattutto, in tempi di crisi economica; dovrebbe strappare fondi anche quando è un azzardo reperirli. Trovo legittime e sacrosante le critiche all’attuale ministro Bondi, però, nonostante non nutra una grande simpatia per lui, per il governo di cui fa parte, bisogna essere onesti nel dire che lui paga, nel caso specifico, per una deriva in atto da decenni. Riguardo alla poesia si dovrebbero garantire, soprattutto agli editori minori, condizioni vantaggiose per la distribuzione delle opere.

 

Quali sono i fattori che più influiscono – positivamente e negativamente – sull’educazione poetica di una nazione? Dove credi che vi sia più bisogno di agire per una maggiore e migliore diffusione della cultura poetica? Chi dovrebbe farlo e come?

Anche qui, come spesso faccio in poesia, parto dal microcosmo, dal personale per dire come la vedo: io ho un figlio che ora ha diciassette anni; non gli ho mai consigliato o imposto di leggere un libro, non gli ho mai fatto discorsi o pistolotti su quanto sia importante leggere, informarsi. Però lui è cresciuto con l’immagine di un padre spesso alle prese con un libro fra le mani e, da solo, ha iniziato a coltivare il gusto di leggere, ora a confrontarsi con me, a chiedermi consigli. Che sia in casa, a scuola o chissà dove, è sempre l’esempio a fare la differenza, non “l’educazione”.

 

Il poeta è un cittadino o un apolide? Quali responsabilità ha verso il suo pubblico? Quali comportamenti potrebbero essere importanti?

Il poeta è l’essere più concreto che ci sia, perché deve coniugare il sogno con la realtà, la parola con l’esperienza. E si sente, poi, quando la parola deriva da una esperienza. Penso a questi tre versi di Majakovskij: “e invece si è saputo che i poeti / prima di cominciare il loro canto, / vanno in giro a riempirsi di calli”.
La responsabilità, per me, riguarda sempre, Sabianamente, fare una poesia onesta, e che questa onestà sia aderente al modo di stare fra gli altri, con umiltà e rispetto. Da mio padre ho ereditato solo questo. Mi sembra un tesoro immenso che coltivo con fatica e fedeltà.

 

Credi più nel valore dell’ispirazione o nella disciplina? Come aspetti che si accenda una scintilla e come la tieni accesa?

Credo in entrambe, anche se per me l’ispirazione è il fuoco, la passione, la disciplina una creatura dispettosa da domare. Non aspetto la scintilla, o scocca o amen, non mi ha ordinato il dottore di scrivere, e la poesia non è una medicina, scrivo solo se mi sembra sia necessario, per me; poi, mentre scrivo, penso se può essere importante anche per gli altri. Poi bisogna vivere, fare esperienze, leggere,  perdere, amare.

 

Scrivi per comunicare un’emozione o un’idea? La poesia ha un messaggio, qualcosa da chiedere o qualcosa da dire?

Credo nel ruolo di poeta come testimone, come partigiano, sentinella vigile agli strappi della realtà.
Chiunque scrive per comunicare. Se non fosse così, se non sentisse il bisogno di rivolgersi all’altro, all’ignoto, farebbe meglio a dedicarsi ad altro. Anche Kafka, in fondo, ha dato le sue cose in mano all’amico Max Brod sapendo che lui non avrebbe mai avuto il coraggio di distruggerle. La poesia deve sempre chiedere: attenzione, affetto, volontà. Quando poi ciò che un autore chiede al lettore è compensato da ciò che l’autore intende donare al lettore, allora lì, in quell’attimo, c’è il miracolo, la bellezza, lì l’opera si compie.

 

Cosa pensano della poesia le persone che ami?

Che sia un dono immenso, sia per il poeta sia per il lettore. Questo quando la poesia parla, è concreta, sa andare sino al nucleo dei sentimenti e della realtà. Quando è uno sbrodolamento di buoni sentimenti o un guazzabuglio di lemmi colti, allontana anche il lettore più fedele. Credo in una poesia che possa/sappia di nuovo arrivare a tutta una comunità; non ho mai creduto in una poesia di elite, allora mi sembra solo un, pur nobile, trastullo.

 

Sei costretto a dividere il tempo che più volentieri dedicheresti alla poesia con un lavoro che con la poesia ha davvero poco a che fare? Trovi una contraddizione in chi ha la fortuna di scrivere per mestiere? Come vivi la tua condizione?

Ho da sempre condiviso il tempo per la poesia con una vita da operaio, in fabbrica. E se all’inizio mi sembrava un destino crudele, col tempo ho compreso che invece poteva essere una possibilità ulteriore. Mi piace quando Franco Loi mi racconta di quell’operaio milanese che un giorno gli disse: “vedi, io lavoro in una officina meccanica, mi piace lavorare qui, perché dal ferro imparo un po’ del ferro, e un po’ di me”; ecco, si ritorna a quei tre versi di Majakovskji succitati: è dai calli che nascono nuove parole, che nascono più vere. Pensiamo anche alla lingua, a come si è impoverita proprio perché ora gli strumenti del fare si sono allontanati dalle mani, e con essi anche il loro nome, o il nome è inglese; pensiamo a come il dialetto è stata la lingua che” battezzava” gli strumenti della vita dandole il nome: se erano oggetti che non servivano agli scopi della vita spesso erano “chea roba” (quella cosa).

 

Cosa speri per il tuo futuro? E per quello della poesia? Cosa manca e cosa serve alla poesia ed ai poeti oggi?

Per me spero, prima di tutto, di stare in salute, e poi di ritrovare un lavoro, ora che l’ho perso, e spero che così sia anche per tutti quei ragazzi che hanno smesso anche di cercarlo, ormai, un lavoro, o quando ce l’hanno è precario, in tutti i sensi. Spero, e confido, in una società migliore, meno ingiusta. Quando lo sarà, cambieranno in meglio anche le sorti della poesia.

 


 

Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato alcune opere di poesia, fra cui:

Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense:

Mus.cio e roe (Muschio e spine), Sasso Marconi, Le voci della luna, 2007 introduzione di Edorardo Zuccato. Fabrica, Borgomanero, Atelier, 2009, Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera), prefazione di Franca Grisoni, Motta di Livenza, Edizioni Prioritarie, 2010. Co’e man monche (Con le mani mozzate), Milano, Le voci della luna, 2011, con prefazione di Manuel Cohen.

In lingua:

Il groviglio delle virgole, Grottammare, Stamperia dell’arancio, 2005con introduzione di Elio Pecora.

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