Andrea Raos ‘Le api migratori’


Le Api Migratori

Andrea Raos

Oèdipus (collana Liquid)


di Giancarlo Alfano

A volte gli eventi del mondo reale assomigliano a un film dell’orrore. E a volte un tema da film dell’orrore può articolare armoniche complesse, su cui può organarsi un ordito poetico. È quel che capita con Le api migratori, ultimo libro di versi di Andrea Raos.

Nelle note al testo, l’autore – classe 1968 e un discreto passato di autore in proprio (esordio nel 1996) e di traduttore dal giapponese – associa il culto Lucano a una notevole bibliografia scientifica, ma anche al Ramo d’oro e ai videogiochi della Playstation2: adibizione plurale e composita che è però rilevatrice di un rapporto con le logiche della rappresentazione letteraria disponibile alla contaminazione con il complessivo immaginario della nostra contemporaneità.

Ecco che allora uno degli episodi della cronaca scientifica più prossimi alla fantascienza e alle leggende metropolitane – gli esperimenti di incrocio tra stirpi diverse di api condotti in Brasile negli anni Cinquanta (il decennio della più orripilante sci-fi) e terminati nella costituzione della nuova specie delle cosiddette “api assassine” – diviene nel libro di Raos l’occasione per una riflessione complessa sulla natura del vivente.

“Un tempo per gli organismi era facile morire”, più o meno così dice Freud all’inizio di Al di là del principio di piacere; e da qui sembra ripartire Le api migratori, ponendo la questione del rapporto tra individuo e aggregazione collettiva. L’inchiesta poetica di Raos si appunta di conseguenza sui due temi dello sciame e dell’arnia: lo sciame, ossia la creazione di un’unità sociale superiore per mezzo dell’istinto sessuale (si sciama dopo la selezione della regina); l’arnia, ossia l’appartenenza dei singoli insetti a quell’unità sociale superiore che si riconosce in una dimensione architettonica (siamo, è chiaro, nello stesso ambito della Favola delle api di Mandeville).

Ma se sciame e arnia appaiono dimensioni autoevidenti nel regime ordinario della selezione naturale, l’intervento della mutazione genetica, realizzata per via di accoppiamento tra le due stirpi, introduce una variazione disgregatrice, così che lo sciame non si leva più in volo per seguire la regina e costruirle intorno il reticolo socio-economico dell’alveare, ma per attaccare le prede di cui cibarsi. L’arnia diviene allora “arma” (gioco fonetico che nel libro diviene un fatto tematico): strumento micidiale anche perché trasforma la sessualità in una “mira” che fa della genitalità, e insomma della potenza riproduttiva, lo strumento di sopraffazione del mondo circostante.

Si spiega così il titolo del libro, dove il genere femminile dell’insetto è insidiato da una inversione al maschile attraverso cui è dichiarata la violenza di un atto che fa rifluire l’“uno” dentro un gruppo istituito dall’obiettivo comune dell’aggressione (“mentre esplode, dalla fiamma, lo sciame delle api trasformate, irrompe al mondo / il loro codice genetico tagliuzzato per distruggere […] / È senza ali, trasportate dallo sciame, che le riproduttrici in serie lo dirigono”, p. 12).

Ma l’aggressione micidiale (si veda la terribile prima lassa con l’uccisione del piccolo di orso) è distruttiva anche all’interno del gruppo, la cui costituzione collettiva è continuamente esposta al disfacimento. Ed è qui che la densità di letture, lo spessore della tradizione attiva in Raos acquista il più profondo significato creativo. È infatti a questo livello che compaiono i due autori, uno dichiarato l’altro nascosto, e intendo dire Lucano e Lucrezio, che a mio parere assumono un ruolo principale nella costruzione del senso di questa spietata “antifavola”. Se il Bellum civile è citato esplicitamente, e anzi se la quarta delle cinque sezioni s’intitola “Dialogo delle api con Marco Anneo Lucano”, ciò accade perché il fatto fondamentale cantato dal poeta dell’età imperiale è il disfacimento della societas romana, e insomma del “corpo sociale”, per lo scontro dei due partiti fu conflitto tra due clan familiari, ossia tra due gentes, che è come a dire tra due stirpi. Conflitto catastrofico che avrebbe condotto, secondo i versi delle Api, a quell’epoca in cui sarà “disciolta la compagine / del mondo” (p. 94): il che vuol dire, trasposto al numero singolare dell’individuo, l’epoca in cui gli elementi che “incarnano individuo e / società” (p. 110) concorreranno verso la propria distruzione.

Se il discorso, pur veloce, è stato sin qui chiaro, il lettore troverà a questo punto evidente il riferimento a Lucrezio. Recuperando la filosofia epicurea, ma perfezionata nel versante atomistico grazie al principio del clinamen, che è principio della variazione individuale, il poeta latino propone una concezione della natura come di un sistema al contempo singolare e plurale (per riprendere i termini della nuova metafisica avanzata da Jean-Luc Nancy): uno il mondo, uno il corpo, ma entrambi composti d’atomi infiniti, che, in caduta libera, si aggregano di volta in volta in quell’uno, ma solo per ben presto volgersi in altro, dismembrarsi.

La machina vien meno, si disfa. Le api assassine di Andrea Raos volgono infine il pungiglione su se stesse e dichiarano il loro sfinimento: “non ne posso, di passare, più” (p. 125). La poesia diviene prodigioso discorso d’anti-pietas.

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