L’irrequietezza di sguardo. Su “Aspettami, dice” di Andrea Raos


di Andrea Inglese

Nato nel 1968, Andrea Raos fa parte di quei poeti che hanno esordito intorno alla metà degli anni Novanta, mentre la corporazione dei critici era assiduamente impegnata in ambiziosi bilanci di fine secolo. Non è un caso che la sua prima raccolta di versi, Discendere il fiume calmo, appaia nel Quinto quaderno italiano (Crocetti, 1996), ossia nell’unica collana che, in quegli anni, sotto la direzione di Franco Buffoni, scandagliava sistematicamente il mondo dei poeti più giovani. Grazie al lavoro realizzato da Buffoni nei Quaderni, oggi è infatti possibile, pur nella distrazione endemica di buona parte della critica, rintracciare una configurazione minima tra i poeti italiani che vanno dai trenta ai quarant’anni. Discorso diverso va fatto, invece, per i poeti che emergono oramai a ridosso del 2000, o più tardi ancora. Essi hanno goduto di un ritorno, seppure abbozzato e frettoloso, dell’attenzione dei critici, ormai sfaccendati dopo tanto lavoro di sistemazione nei confronti del secolo trascorso. In realtà, è valso quasi sempre, sia per i poeti che hanno esordito negli anni Novanta sia per i più giovani, un potente spirito di autonomia e di “fai-da-te”: in assenza d’istituzioni letterarie in stato di veglia, i poeti stessi si sono fatti critici, teorici e agitatori culturali. Poeti e poetesse tanto diversi tra loro come Marco Berisso, Vincenzo Bagnoli, Edoardo Zuccato, Michelangelo Zizzi, MarcoGiovenale , Florinda Fusco, Tommaso Lisa, Massimo Sannelli o Flavio Santi, sono tutti accomunati da una duplice attività, di autori e di critici. A questa sparsa famiglia di poeti-critici, bisognerebbe poi aggiungere quella più rara e preziosa dei critici-critici, anch’essa giovane e proiettata sul presente, sulla galassia viva delle diverse e nuove scritture: Cecilia Bello, Simone Giusti, Andrea Cortellessa e Paolo Zublena ne sono alcuni tra i più attivi rappresentanti.

Quanto a Raos, oltre all’attività poetica, va segnalata almeno una sua iniziativa molto importante, ossia la realizzazione nel 2001 di un’antologia italo-giapponese di poesia, intitolata Il coro temporaneo. In veste di studioso di letteratura giapponese e di traduttore, Raos è stato in grado di portare a termine questo progetto ambizioso al di fuori di qualsiasi indicazione di canone novecentesco, dimostrando come la poesia nata negli ultimi vent’anni possa riscuotere interesse al di fuori delle stesse frontiere europee. Controprova, tra molte altre, che coloro che hanno confinato agli esordienti degli anni Sessanta la vitalità della poesia italiana si sono sbagliati di grosso.

Di Raos, nel 2003, è uscito il volume di versi Aspettami, dice (Pieraldo Editore). Esso contiene il lavoro poetico di un decennio, organizzato però in forma più tematica che cronologica. La struttura del libro risulta infatti composita e lascia spazio a componimenti di varia natura: sonetti, poesie dal verso irregolare, componimenti brevissimi di uno o due versi, brani di prosa ad altissima concentrazione. Questa vera e propria irrequietezza delle forme non cede mai a spinte apertamente informali, in quanto l’autore sorveglia incessantemente ogni accostamento di materiali sia sul piano del singolo testo che su quello dell’intera raccolta. E il tono che pervade i vari componimenti è assai uniforme: di concentrato distacco. Ovunque la musicalità è cercata e provocata, ma sempre per vie traverse, in virtù di rime interne o inaspettate, assonanze, ripetizioni.

La scrittura di Raos colpisce immediatamente per la nitidezza del dettato e la costruzione tormentata, sempre ardua, dell’immagine. La chiusura formale e il tenore iperletterario della lingua non permettono intrusioni di vita quotidiana od oggetti ordinari, né andamenti prosastici: l’universo dell’esperienza è vagliato minuziosamente, affinché se ne possa estrarre una fibra tersa, malleabile, e purificata. Ogni scoria dell’esperienza viene posta a distanza e lungamente custodita con l’intento di ottenerne un’espressione cristallizzata, poliedrica, in grado di diffrangere in suoni e significati diversi un flusso emozionale grezzo. Le correnti dell’astrazione tagliano costantemente ogni slancio lirico, ma non nell’intento di parodiarlo, bensì in quello di purificarlo da elementi troppo biografici e contingenti.

Fin da subito la poesia di Raos esibisce un’indubbia perizia tecnica, che diventa a volte virtuosismo. Ciò non la rende immune da rischi di compiacimento, laddove l’attenzione dell’autore sembra esaurirsi nella costruzione di un raffinato e suggestivo artefatto verbale, privato però della capacità di rinviare al mondo. In tali circostanze, l’oggetto del dire (l’extratesto) appare remoto o addirittura nullo. Ma più spesso Raos raggiunge il suo obiettivo, che non consiste nel rinunciare alla figurazione della realtà, bensì in quello di riorganizzare la visione stessa, secondo movimenti e scorci imprevedibili. L’oggetto diventa sì secondario, ma perché il lavoro espressivo si concentra sulla varia modalità di porlo in prospettiva. L’irrequietezza della forma si rivela, su di un piano tematico, come un incessante bisogno di spostare lo sguardo sul mondo, cercando di cogliere la sua ricchezza di superfici. Il dato dell’esperienza, nella sua contingenza e gratuità biografica, conta meno della possibilità di trasformarlo, sottoponendolo ad un’angolatura inedita. Anzi, è proprio la densità emozionale di certi eventi traumatici e frontali a scatenare in Raos l’esigenza di scorci anomali. Nella sezione “Distruzione, eco”, marcata dall’esperienza del lutto paterno, si legge:

 

Ho, ben sai, crudeltà bastante, pure
mai ti immaginai campo di ghiaccio
chine le foglie al soffio, tu stormire
rauco nel bosco di cannule e timer,

i contatori abbarbicati ai solchi
tubolari nei due bracci, grida
verdi, disegnate, delle arterie
ferite a simulare ogni singulto,
gli sbalzi vascolari: tic tic tic.

 

In conclusione, ci si può chiedere quale sia il contributo di questa raccolta alla poesia italiana contemporanea. Io vi scorgo una caratteristica almeno che, seppure non è esclusiva della poesia di Raos, rappresenta di certo un’acquisizione importante per il genere. Si tratta della volontà di smarcarsi dal manierismo, che è divenuto in questi anni una sorta di orizzonte “naturale” della scrittura poetica. Con tale termine voglio innanzitutto indicare una rinuncia all’idea di possibili innovazioni sia sul piano stilistico che tematico. A tale disposizione, si affianca un’arrendevolezza poco consapevole nei confronti dei repertori metrici e stilistici della nostra tradizione. Per il manierista odierno, i confini della lingua poetica sono variamente tracciabili, ma definitivamente assodati: raramente si è disposti, con sana arroganza, a ridisegnarli secondo linee di fuga impreviste. Credo che questa sommaria definizione di manierismo debba però essere completata da un’ulteriore definizione. La ritrovo in un breve e assi denso scritto di Stefano Dal Bianco dal titolo Lo stile classico, apparso su volume nel 1995 (in La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, Marsilio). Per Dal Bianco, il manierismo odierno ha sopratutto a che fare con la presunzione dello stile individuale. Nell’ottica classicista di Dal Bianco, salvaguardare la forza dello stile e la sua “istanza di comunicazione” implica uno “stile in quanto rifiuto dello stile”. Ora io credo che, indipendentemente dal partito preso classicista, l’indicazione di Dal Bianco sia importante. E con Raos ne abbiamo una controprova. In lui il rifiuto dello stile individuale è animato da un sotterraneo sperimentalismo, che non cerca mai di saltare la mediazione con l’eredità letteraria in tutta la sua ricchezza. Non vi è nessuna tentazione da parte sua di acquisire una lingua naturale, capace di aderire ad un’essenzialità delle cose filtrata da una sensibilità autonoma e sorvrana. In Raos, le forme sono utilizzate in modo ipotetico, e così anche la lingua, poiché è non è assodato che la poesia porti oltre se stessa, verso un riconoscimento di esperienze fondamentali. Ma tale scetticismo non implica l’accettazione di un gioco iperlettarario fine a se stesso, bensì l’impegno costante per il ritrovamento di una visione della realtà attraverso gli strumenti offerti dalle istituzioni poetiche, considerate come un punto d’avvio del processo espressivo individuale e non come un punto d’arrivo.

Un buon esempio di quanto appena sostenuto può essere questo sonetto tratta dalla sequenza “Nessun frammento”, scritta sullo sfondo delle guerra nella ex-Jugoslavia.

 

Salendo alta nell’aria, questa voce,
Facendosi più calde, meno rare
Le correnti, si unisce alla precoce
Sera, si incrina e increspa contro il mare;

Invece in quella terra da cui parte
Il grido, quella parte d’ombelico
Di uno che intravisto da una parte
Tremare dentro recita al nemico

La ferita dando ogni forza all’erba
Che ne accoglie le membra e si distacca
Poco a poco una pelle che non serba

Più acqua o proteine, in cui la sacca
Dell’uretra si scassa e quanto innerba
La lacca delle urine gela in biacca.

 

La scansione dell’endecasillabo a maiore, che rende ancora più precipitoso l’uso dell’enjamebement, è qui punteggiata da rime ed assonanze interne, quasi a rendere la dimensione sonora ancora più ipnotica e uniforme. Ma in questa ricerca di parallelismi fonici gioca in senso opposto, verso l’irriducibile molteplicità del discorso, lo spettro ampio ed eterogeneo del lessico, compreso tra il vocabolo medico “uretra” e quello letterario “innerba”. E nella tensione tra identità sonora e diversità lessicale, si fa strada una figurazione concreta e crudele del corpo offeso. È in tale intensità e simultaneità di effetti che la poesia di Raos raggiunge il suo più alto grado di concentrazione, tenendo assieme le più misurate esigenze ritmiche con le più incandescenti esigenze figurative.

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