Andrea Raos: ‘Aspettami, dice (poesie 1992-2002)’


Apettami, dice (Poesie 1992-2002)

Andrea Raos

2003, 128 p., brossura

Pieraldo (collana Incipit)


di Franco Buffoni

«Le scelte linguistiche sono vissute più a livello di langue che altro», mi scriveva un giovanissimo Andrea Raos nel 1989, accompagnando un primo embrione di quello che oggi è diventato il suo libro di poesia. Un libro dove la parole si è fatta programmaticamente strada fino a proporsi – addirittura – abbigliata in forme chiuse, in guisa di sonetto. Nel frattempo l’autore ha concluso a Parigi il dottorato di ricerca in letteratura giapponese e ha soggiornato a lungo a Tokyo: insomma è cresciuto, con tutto ciò che di grandioso e di doloroso – in altri termini, di polisemico – il fatto in sé comporta.

Un esempio di tale polisemia è già riscontrabile nel titolo della prima parte di questa silloge, che dati gli studi compiuti dal suo autore – può facilmente evocare esotismi e orientalismi di maniera. Lanterne rosse e butterflies. D’altronde, proprio Corrente fredda è il titolo del memorabile contributo che Andrea Raos regalò alla rivista “Testo a fronte” nel 1994 con le versioni inedite dal cinese del X secolo di Meng Jiao. Ma se leggiamo con attenzione i testi che – specificamente – vanno sotto il titolo di “Discendere il fiume calmo”, comprendiamo che, sì, il timbro “orientale”, come in tutto il lavoro di Raos, in qualche misura è riscontrabile; tuttavia esso appare mediato, completamente trasceso da un altro elemento, molto più vicino e riconoscibile da chiunque viaggi, lavori e studi nell’hinterland milanese. Il flusso è quello dei pendolari, studenti e operai che al mattino defluiscono dai treni e dalle metropolitane. Il fiume calmo è composto da esseri umanamente formicolanti. (Anche in questo, però, volendo, è riscontrabile qualcosa del cliché orientale).

Il fiume calmo non viene contemplato con distacco zoo-antropologico come nel famoso passaggio della “Waste Land”, né stigmatizzato alla Pound di Ripostes (“In a Station of the Metro”), dove ciascun elemento del “formicaio” è un petalo sul ramo nero bagnato); piuttosto, qui avviene qualcosa di simile a ciò che Seamus Heaney racconta in Station Island. Pellegrino tra i pellegrini sull’isoletta-purgatorio della sua infanzia bigotta e contadina, a un certo punto, senza apparentemente rinnegare nulla, l’io narrante di Station Island comincia a imboccare al contrario il flusso dei pellegrini. È sì tra la gente, continua a non tradire il suo popolo per la torre d’avorio, tuttavia li vede tutti in faccia, perché è un’altra la sua direzione.

Questo è ciò che accade a Raos, con un doppio schermo di autoironia e sarcasmo: dopo anni di passaggi in flusso, secondo la corrente, gli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza, del liceo classico a Varese e dell’università a Venezia, è giunto il periodo del flusso al contrario. Ed è il periodo delle delusioni e delle frustrazioni. Quale altro potrebbe essere lo stato d’animo di chi – laureato col massimo dei voti – si trova a dover accettare un posto di portiere notturno in un albergo milanese frequentato da turisti e uomini d’affari giapponesi? Egli al mattino rientra intontito, da solo, risale il flusso per raggiungere la propria abitazione e dar corso con un po’ di sonno ai propri orari sconvolti. E quegli studenti sono il fiume calmo, loro si possono ancora permettere di essere massa e gruppo, di scherzare.

La prima parte del libro di Raos tuttavia non è solo questo. Composta nell’arco di tre anni (dal 1992 al ’95) essa risente di altre e diverse occasioni e sperimentazioni, motivate anche dal fatto che Raos non intende proporsi in modo autobiografico. Nelle sue parole: «Le diverse esplorazioni che conduco nel corso della raccolta le ho vissute volendo a priori non considerarle scrivibili». L’uso del sonetto, in particolare in “Nessun frammento”, è da leggersi in quest’ottica. Una tragedia in televisione (si tratta del dramma dell’ex Jugoslavia). «Quale poeta, in quanto essere umano», si domanda Raos, «non sentirà il bisogno di gridare il suo sdegno?». Ma ancora: «Quale poeta non capirà il cinismo di volerne fare un’opera d’arte?». In altri termini, pur parlando, o almeno alludendo alle grandi tragedie dell’umanità, Raos prova fortissimo il pudore di ammettere che la poesia, in questi casi, dovrebbe «denunciare la propria completa incompetenza territoriale».

Con la sequenza “Diario immaginario” il registro e l’intendimento paiono mutare radicalmente. Si tratta di variazioni su un romanzo (se ne vedano le note apposte dallo stesso Raos a piè di pagina) giapponese del Novecento. Poiché per noi occidentali (salvo che per pochi yamatisti) il testo di partenza virtualmente non esiste, non ci resta che goderne la forza narrativa attraverso le variazioni proposte da Raos. Egli stesso così mi ha commentato la sua scelta di inserire tale sezione in questa raccolta: «Il testo che si propone come traduzione o commento di un altro testo fittizio è uno degli artifici letterari più vecchi del mondo. Ma mi divertiva l’idea di utilizzarlo con un’opera che , in realtà, c’è. Il che mi sembra sapere molto di vita». In altri termini, questa sezione potrebbe essere globalmente intesa come una riflessione sulla “memoria”, e particolarmente sul suo venirci a mancare: sul suo soccorrerci venendo a mancare.

Quanto al perché della conclusione in prosa della prima parte e di altri brani in prosa presenti nella seconda parte, Raos ha cercato di spiegarmelo con argomentazione che mi hanno ricondotto a quelle sulla langue di tredici anni fa. l’obiettivo era chiaramente quello di rivendicare la possibilità e la forza dell’immagine letteraria contro ogni tipo di mimetismo (verso compreso). Il “complesso” dell’autore – la sua costante messa in discussione di sé e della propria scrittura – lo porta ad affermare di non sentire alcuna forma, alcuna scelta lessicale in grado di «esprimermi naturalmente». Ogni volta che scrivo, confessa Raos, «guardo più in fondo che posso», e ogni volta «sento il contenuto slittare e i versi dietro, più titubanti. Proprio slittare».

Una spiegazione avvalorata dalla nota d’autore: tra le due parti di questo libro intercorrono cinque anni che non furono di silenzio della scrittura, ma di silenzio editoriale. Lettere nere è il titolo del romanzo composto in quel lustro (per indirizzare il lettore in estrema sintesi si potrebbe forse richiamare al riguardo il taglio etico-estetico del primo Moresco): un romanzo che Raos non può fare a meno di sentire presente in questo suo libro di poesia. Un romanzo che presentava alcune parti in versi.

Proprio per questa ragione si consiglia di porre molta attenzione ai brani in prosa presenti in Aspettami, dice; in particolare alla loro essenzialità nel rimarcare certi passaggi, certi sfondamenti di senso, certi soffocamenti dell’io lirico a favore di un narratore onnisciente che pretende i propri spazi e li ottiene.

La seconda parte del libro – “Distruzione, eco” – si apre con una quartina esemplare del metodo compositivo di Andrea Raos: «Quanto all’amare chi lo sa se ho mai / amato – o se soltanto ho colto / quattro stracci e una viola del pensiero / mentre appassivo piano anch’io». In una scrittura stratificata, complessa, colta, volta alla speculazione, all’etica, attenta a contenere e cancellare ogni sbavatura, ogni “spiegazione”, risulta ancora di più come un atto di coraggio poetico e intellettuale esordire in modo così esplicito e tenero, così indifeso. (Si consideri a questo proposito anche il verso incipitario di “Distruzione, Eco – 2”: «Dobbiamo distruggere o creare? tu che pensi?»).

Egualmente si potrebbe dire delle “citazioni” di Raos, delle menzioni d’autore, da Sereni a Baudelaire: non a caso due tra i massimi poeti del XX e del XIX secolo che si sentirono fortemente indotti a cedere alla tentazione della prosa. E con Sereni è il verso più nudo e famoso («È la mia sola musica e mi basta»); e con Baudelaire è una imitazione da “Les Phares”, dove Raos – per altro – ha modo di esporre apertamente la propria perizia metrica inanellando due endecasillabi incipitari – il primo in crescendo; il secondo in levare –: «Maledizioni bestemmie e lamenti / Estasi grida tedeum e pianti». Si noti come i due versi si pongano specularmene, il primo con ictus in posizione avanzata (di 4, 7 e 10); il secondo in posizione arretrata (di 1, 4, e 7), così da creare un effetto-rincorsa musicalmente splendido del secondo verso sul primo; e da togliere ogni rigidità alla gabbia metrica.

Gusto per l’endecasillabo e gusto per la citazione incontrovertibile che l’autore mostra limpidamente anche quando non sono coinvolti i grandi maestri. Si considerino a esempio il verso «non placida costanza o guizzo altrui», oppure il distico «con il vento così forte / l’acqua impazzisce». Quest’ultimo non è una citazione, ma è ben più che se lo fosse.

In “Distruzione, Eco”, tuttavia, l’aspetto più innovativo rispetto a “Discendere il fiume calmo” ci pare il tentativo (riuscito) dell’autore di riecentrare la riflessionepoetica sulla propria soggettività con conseguente meditata misurazione dei limiti dell’io, della memoria, della percezione: una intonazione – se si vuole – da poesia “filosofica”, dove il logos («evento vitale e mortale, comprensibile / e fondamentale / che fa dell’esistenza un’estinzione / non solo all’apparire in fieri»), il ragionamento sostanziale («Ma si è notato mai che se si libra un passero, come si fa strillo?») parrebbero prevalere, fino a prefigurare quasi una storia della specie: «Di tutte quelle specie che esistenti» (si rifletta sulla purezza stilistica di questo attacco) «immaginavano tracciati mille / filamenti di milioni di tinte / che portavano da un luogo a un altro, / da un paradiso a un continente, / un monte».

Ma è l’autore stesso che – sempre nella seconda parte del libro – ci fornisce l’antidoto alla prevalenza del logos, in particolare con la leggera e forse “giapponese” “Caròla d’acqua”, per poi ritornare alla prosa con le dense concrezioni poetiche di “Distruzione, Eco – 3” («Eppure, la parte tranquilla dell’aria è ancora lì»; «Dalla massa di ghiaccio si stagliano le vene azzurre e quelle appena più scure»; «La cortina della pioggia ferma inghiotte sì ogni crollo»), fino a sfociare in quella sintesi di prosa e poesia, di logos e di impressione dei sensi che costituisce la “Sequenza Madre”: un testo che chiude – è vero – questo libro, ma nel contempo svela ulteriori – e affascinanti – prospettive di crescita per la poetica di Andrea Raos.

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