Eugenio De Signoribus: ‘Ronda dei Conversi’


Ronda dei conversi

Eugenio De Signoribus

2005, 140 p., rilegato

Garzanti Libri (collana Collezione di poesia)


di Massimo Sannelli

Chi si è rinchiuso in una fortezza o in un bunker (o in una specie di Purgatorio) per non essere rinchiuso in un Lager (ma ne ha ben presenti i “camini stretti”) non può non avere, insieme, un’infinita disperazione e un’infinita speranza nei confronti dell’uomo.
La Ronda si compone di nove sezioni: una non numerata (un dittico: Premessa-Promessa), sette parti numerate, un Congedo eponimo, di nuovo non numerate. Il centro del percorso è dunque la sezione VI (pp. 67-68), abbastanza eccezionale nel curriculum poetico di De Signoribus. Il Dialogo di A e B, in sette battute (A-B-A-B-A-B-A) è evidentemente l’idea platonica di un dialogo: in primo luogo per la bassissima narratività e per il lessico evocativo (“non m’abbandona la nostalgia…. C’è un discrimine sul sentiero”, “Ho seguito il rumore dell’acqua fino a che s’è interrata”, “Puoi sfoltire l’amarezza”); in secondo luogo per l’astrazione dei personaggi e dei loro sentimenti, che diventano assoluti (né la nostalgia, né la felicità, né l’amarezza hanno un contenuto esplicito). L’ultima battuta di A è emblematica: “Mentre vai a quella sembianza, io, fermamente, ti / ascolto… e, senza fatica, ti vengo incontro…”. Venire incontro è una variante del camminare accanto, proposto già a p. 11.
Il centro, spaziale e concettuale, è l’incontro-ascolto tra A e B, persona e persona. Nell’incontro agiscono la persona fisica dell’altro e la “parola che si sostanzia” (p. 36), “rinascente” (p. 37) anche in tempi di decadenza (“la parola è in chi resta / nella volgente era… / da lui a te e a me… in me / miserere”: p. 52). La nostra lingua, diversa da quella senza suoni (una non-lingua e non-musica), è salvifica, in potenza, e pellegrina con noi. L’Invocazione di p. 87 è chiarissima: “o uni, o altri sconosciuti / in vista anche voi del nuovo fronte, / ci chiami il sangue che fedele / ci onori!… c’è una lingua di là / che non ha suoni / e che forse non ci perdonerà… // che ci salvi la nostra / che ci accompagni nell’alterità”.
La “parola” letteraria implica quasi in un percorso di transustanziazione, dall’interno all’esterno. Se la Premessa apre il libro (p. 9) con una fenomenologia orale (sfilante parola-grido-gorgogliare) e forse con un ricordo, fioco, dell’incontro e della cena in Emmaus , il Congedo (p. 127) mette in scena una deviazione: il poeta si separa, interrompendolo, dall’intervallo temporale (un lusso) che ha costituito il libro, e si introduce volontariamente e certamente (“ora vado”) in un continuum di tempo umano, che non è più la lingua contemplativa (passiva) del libro e la lingua-libro (ma già nel Dialogo, prima, a p. 67: “C’è un / discrimine sul sentiero. Come se un piede poggiasse su / un piano e l’altro su un piano diverso. Come se, già / nello stacco per farsi passo, cogliesse un dolo / insopportabile… Del moto, non ho che l’immaginazione / e l’ascolto”). Quindi: “ora devo deviarti / lingua di nostalgia / lingua di lunga scia / ancora un lusso è amarti // coro dell’anteprima / nel chiuso del sipario / nell’atro ventre strina / l’opera del sudario // ora vado dove sosta / la gente detta attiva / la mente che si sposta / dall’opera passiva” (p. 127). Nel Dialogo mediano il letto si trasforma sùbito nel detto; nella seconda metà del libro riappare un testo metalinguistico e metapoetico: “quando nacqui al silenzio / d’una bellica soffitta / era già lì la mia lingua // ventre nel ventre vero / dove l’altro mondo s’apriva / per una bassa feritoia… // solo in ginocchio si riusciva / a vedere l’offerta del fuori / come un suolo straniero”.
Il dovere di deviare – un clinamen etico-poetologico – porta dall’“interiore tenda” (p. 84) all’“esternante vita”. Chi si è rinchiuso in una fortezza o in un bunker (o in una specie di Purgatorio ) per non essere rinchiuso in un Lager (ma ne ha ben presenti i “camini stretti”) non può non avere, insieme, un’infinita disperazione e un’infinita speranza nei confronti dell’uomo (e del popolo: le occorrenze di questo lemma nei percorsi di De Signoribus mostrerebbero una tensione civile molto alta, quasi metafisica, come a p. 122, ad esempio: “ecco: non troverò il mio popolo salendo, / mi lego a voi dispersi del tempo”).
Se vox populi vox Dei, il ricorso al coro nella sezione VII si lega sia all’impianto letterario del libro sia alla sua speranza “esternante”. Prima del congedo-deviazione iniziano a parlare alcune voci plurali, come se il “principio del giorno” le accettasse solo in una zona liminare, quasi uscendo dall’evocazione interna-interiore del libro. E’ il caso del Coro terzo, a p. 116: “dalle ombre delle fonde zone / dai venienti dai camini stretti / dopo i fuochi della vitamorta / ti giunga la fraterna voce // dove vince il grido dei bambini / dove tocchi la pietà dei vecchi / casa per casa, ora per ora, / la città morente è già risorta”.

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