Quello che si vede / Andrea Inglese


Quello che si vede

Andrea Inglese

2006, 28 p.

Arcipelago Edizioni (collana Chapbooks)


di Massimo Gezzi

Il caimano di Nanni Moretti non è un film eccelso. Contiene però una scena magistrale, capace di riassumere la storia dell’Italia degli ultimi vent’anni molto meglio di tante parole: la telecamera, dal basso e di notte, riprende con una lenta panoramica un condominio. Attraverso le finestre baluginano i bagliori azzurrini, tutti uguali, di tante televisioni accese, probabilmente sintonizzate sullo stesso canale. La voce fuori campo è quella del Berlusconi del 1994, che spiega agli italiani i motivi della sua scelta di scendere in politica, con la celebre calza tirata sopra l’obiettivo per attenuare i segni del tempo. È una scena che sintetizza mirabilmente il processo di erosione sistematica della coscienze critiche che la televisione berlusconiana ha messo in atto a partire dai primissimi anni Ottanta (“Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta”). Andrea Inglese è un poeta assai consapevole di tutto questo, un autore che rifiuta di considerare la poesia come una sorta di territorio incontaminato, di riserva elitaria del bello in cui autorecludersi per eludere il conto che la storia presenta quotidianamente a ognuno di noi. Una poesia del libro d’esordio di Inglese (Inventari, Zona 2001), per esempio, fotografava quegli stessi bagliori azzurrini captati dalla telecamera di Moretti, seguendone la traiettoria dallo schermo allo sguardo ipnotizzato degli spettatori: “l’occhio / artificiale, il raggio azzurro / che perenne posa su mille / avide pupille” (Inventario dell’occhio). Da quelle stesse pupille Inglese riparte in questo poemetto intitolato Quello che si vede, uscito nel 2007 nella collana Chapbook creata e diretta da Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano per la casa editrice milanese Arcipelago Edizioni. Il poemetto si compone di quindici poesie che riflettono sul tema e sul significato del vedere, in un’operazione che è insieme politica, poetica e filosofica, secondo la lezione di un intellettuale e poeta rigoroso come Franco Fortini, studiato e stimato da Inglese. Per comprendere la valenza politica di questo poemetto occorre però aver chiaro il suo valore poetico-filosofico. Partiremo da questo, dunque.

Dire cos’è Quello che si vede, ci ricorda l’autore in queste pagine, è un compito tutt’altro che semplice. Ecco cosa si legge nell’incipit, scandito da quella pronuncia cristallina e sintatticamente coesa che caratterizza l’intero poemetto: “Quello che si vede, poco, / è sempre di nuovo sotto gli occhi, / come ripetendosi, ma non è / lo stesso, non tornerà mai / così, radente, evasivo, / come ora, non sarà quindi / mai visto […]”. L’atto stesso di percepire, sembra suggerire Inglese sulla scorta di nutrite letture filosofiche (da Leibniz a Merleau-Ponty) e scientifiche (Heisenberg e la meccanica quantistica), modifica la realtà del percepito, rendendolo così diverso da quel che era; ma, se questo è vero, allora “nulla […] / è stato ancora visto / una prima volta”, e i passanti che popolano “il paesaggio alla finestra” (un paesaggio che indoviniamo parigino, e che in qualche misura discende – ma non solo per questo – dai Tableaux parisiens di Baudelaire e dai Passages del suo grande interprete Walter Benjamin) possono solo sembrare gli stessi di ieri, perché in realtà tutto è travolto da un moto inarrestabile e imprendibile di mutamento, e chi guarda è “sempre nel fuoco fisso / dell’immagine mai attinta”. Dire Quello che si vede, dunque, è un problema da risolvere, più che un compito da eseguire a cuor leggero. Nella concezione e scrittura di queste poesie, Inglese sembra aver tenuto a mente l’imperativo che Husserl proclamò nell’introduzione alle Ricerche logiche: “Noi vogliamo tornare alle cose stesse”. Ma la descrizione fenomenologica di questecose si scontra con il paradosso di fondo che sostanzia il poemetto, come si evince dall’azzeccata epigrafe tolta dal poeta rumeno Ghérasim Luca: “Plus j’y réfléchis, moins je vois des choses, et moins je vois des choses, plus elles me font frémir”. Vedere e descrivere, stante questo paradosso, diventano atti problematici, da ridefinire di continuo. La verità, sembra volerci ricordare Inglese, non è data una volta per tutte, e dunque la poesia e l’arte non possono più accontentarsi di una sicura e pacifica mimesi. Come scrisse Merleau-Ponty nellaFilosofia della percezione, “la filosofia non è il rispecchiamento di una verità preliminare ma, come l’arte, la realizzazione di una verità”.

Che verità cerca di realizzare, allora, la poesia di Andrea Inglese? I quindici testi di Quello che si vede tentano una sorta di riappropriazione integrale del visibile. L’io poetante si muove per le strade della città come un disincantato e post-novecentesco flâneur, attento a scrutare attraverso le finestre dei palazzi, a misurare con lo sguardo la consistenza degli oggetti (“una cipolla dura come il vetro”, o le proprie scarpe “estive, di pelle, marroni chiare”), a seguire le traiettorie apparentemente casuali dei “passanti, che sembrano quelli di ieri”, senza distogliere però gli occhi dal male e dal dolore che accomunano, leopardianamente, tutti gli esseri del cosmo: “il gattino piccolo inarcato / attraversato da tremiti, gli occhi / scoppiati fuori”, o la ragazza Anika, con la schiena martoriata “e la cicatrice sulla palpebra, / il ventre gonfio come d’un gas / venefico”, torturata dalla zia (“quella che ora piange”) e destinata a vivere ignara che esistono dei luoghi in cui “il dolore di vivere / è evitabile”. L’occhio di Inglese opta per una scansione a tutto tondo del reale, per una rappresentazione che eviti di attivare il “placebo” che un testo di Prove d’inconsistenza (la silloge inclusa nel Sesto quaderno italiano Marcos y Marcos, 1998) ordinava infatti di schiacciare, pestare, rintuzzare, in quanto effetto di un (ormai) insopportabile e irrealistico “bello”. Quello che si vede, perciò, è insieme nitido e doloroso: “il quadro della vita è così nitido, / così ben riconosciuto, che la vista / esausta ne sanguina”, sebbene la “pietà dell’occhio”, che questo libretto tenta disperatamente di difendere dall’assedio ottundente della narcosi televisiva e post-televisiva, sia ormai “poca, residua”. Questo atteggiamento di estrema disponibilità percettiva e di chiarezza programmatica si riflette a più livelli, come si accennava, anche nella lingua e nel dettato: se la sintassi di Inglese è complessa ma nitida, dilatata attraverso le strofe da una fitta trama di enjambement che differiscono continuamente la fine del periodo e spesso provocano una sfasatura tra metro e sintassi, costringendo il lettore a una lettura attenta e meditata, dal punto di vista retorico questi testi conservano vistose tracce di quella alacrità o ansia visiva di cui si diceva: si vedano ad esempio le numerose figure per aggiunzione che scandiscono i versi, figure di ripetizione (per esempio polisindeti e anafore: “esigeva l’alba / […] esigeva su quell’asfalto”; “guardo nei vani dov’era il succo, / guardo il loro piccolo vuoto”), oppure di accumulazione (come climax ed enumerazioni: “Non hai confinato la tua mente al frammento, / al pezzo separato, al detrito d’immagine”).

Come si premetteva all’inizio, però, l’ossessione sincronica e sinottica dello sguardo, rinfocolata dagli innumerevoli verba videndi disseminati in tutti i testi, di per sé non garantisce la conoscenza né la verità. Lo sguardo, ci viene detto in diversi passaggi, deve fare i conti con “l’esistenza inconcepibile”, quella che avviene al di sotto della superficie del visibile (“Tutto avviene in superficie, / si mangia solo con la bocca, il resto / è buia macchinazione gastrica”), oppure al di qua o al di là della sottilissima soglia del presente: i “futuri decessi”, “il collasso” che si avverte prossimo, o “le sconfitte, / anche le future”; oppure, specularmente, il tempo profondo ripercorso a ritroso, che richiama un uomo circondato da “fiamme, selci, sagome di grandi / alberi, sotto cui scavare una prima tana”. Lo sguardo interrogante, ancora, deve temere l’assuefazione e l’abitudine che “finemente insabbia, cancella” un paesaggio, rendendolo quasi invisibile, esattamente come la coscienza dei passanti tende ad abradere la “traccia indelebile”, il “rumore di fondo che più non si placa” provocato da un ossesso che urla, senza motivo, nel freddo del mattino.

In questo senso, allora, Quello si vede conserva anche una valenza limpidamente politica: mai come oggi, sollevando gli occhi dalle pagine e tornando a posarli sulla realtà quotidiana del nostro Paese, abbiamo bisogno di tornare a vedere con consapevolezza, di destarci dalla narcosi, di ricominciare a trasformare leibnizianamente la percezione in appercezione, in coscienza critica di quanto stiamo percependo. Per questo Quello che si vede è un libretto prezioso, che lascia intravedere sviluppi più ampi e articolati, e Andrea Inglese è uno dei nuovi poeti davvero necessari di questo nostro sventuratissimo tempo.

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