La strada n.3: Che cosa penso del cancellare graffiti…

 

Introduzione di Alessandro Assiri: come se la cancellazione del degrado appartenesse alla politica. Peggio, come se alla politica appartenesse la restituzione della bellezza. Il graffito spesso è un modo per rispondere a ciò che non può essere tollerato: sia pure un grigiore metropolitano senza fine o un paradiso artificiale, a questo e solo a questo è la funzione che qui dibattiamo, la funzione del muro di farsi rivelante di un’afasia. Perché non ci siamo andati a togliere quei lucchettini che spuntano da ogni ponticello? Non ci siamo andati perché rappresentano la burla dell’infinito, del sentimento, e allorFallimento, Ballaa ci fanno comodo per ricordare l’innocenza di un’apparenza. Una società convinta di usare la bellezza come catalizzatore del dolore, la stessa che appoggia fiori ai lati delle tombe, non può esimersi dal considerare degrado il graffito sul portone, ma siamo davanti soltanto all’ennesima delle finzioni, non sempre la bellezza è corretta, perché se lo fosse allora sì, troppo breve sarebbe il divario tra il malessere e l’urgenza. Invece la bellezza è sempre e soltanto all’interno di un significato. Cancellare il degrado per farsi fotografare con il pennello in mano, per ri-preparare la tela a un nuovo ri-versamento di colore, lo facciamo noi che in pittura riadattiamo superfici. Philippe Gaston alla vigilia della guerra del Vietnam si chiedeva in un’intervista perché l’arte americana dovesse rispondere con la bellezza all’orrore. Un osservatore assume un atteggiamento davanti a un contenuto ma non può esimersi da considerare sfregio la vernice gocciolante del portone di casa. Bene, lasciamoglielo fare, ma non si permetta che qualcuno scelga per me la risposta a un disgusto, non si permetta che qualcuno decida per me se siamo artisti o inbratta-muri, se siamo poeti o boccaloni.

Una questione di segni:

“La Moratti è una bacchettona, i graffiti sono la voce del popolo, altro che multe” Umberto Bossi.

IvanAnche a Bologna ce l’hanno fatta. Dopo le polemiche a Milano, dove la polizia scheda le firme dei writer come una volta faceva con gli slogan eversivi, è giunto il tempo di Bologna. Dicono che vogliono restituire la città al suo splendore, combattere il degrado, il vandalismo – quello che fanno è entrare in modo virale nella testa e nel cuore delle persone. Certo, chi non si è incazzato almeno una volta vedendo una tag o un graffito. Sul portone di casa, sul regionale delle sei e un quarto, sulle corriere straripanti di ragazzi che vanno a scuola, nel sottopassaggio – reso fosforescente dalla luce azzurra dei neon. La maggior parte delle persone si limita a questo: condannare, per il portone, per il regionale, per la corriere, per il sottopassaggio.  Lo fa da un lato perché nella città degradata (non quella delle tag e dei graffiti) non si riconosce più, dall’altro perché è la cosa più scontata da fare. Credono che i graffiti e le tag siano lo squallore, non si accorgono, invece, che sono l’espressione che alcuni adottano per opporsi al lento processo che sta disanimando le nostre città.  Le tag, per dire, vengono utilizzate dalle gang per segnare i confini del loro territorio, questo – seppur in negativo – significa abitare un luogo, fino a volerne segnare l’appartenenza e i confini. La gente non si accorge che il portone dell’illeso palazzotto dà accesso a un edificio senz’anima, che il vagone immatricolato trent’anni fa è una latta bombata piena di botulino, come la corriera carro-bestiame, che il sottopassaggio-pisciatoio è l’alternativa basso-costo di un bagno pubblico. Ma la via della condanna è la via più semplice, spontanea. E tutti noi ne siamo soggetti: viviamo in un mondo che ci bombarda di stimoli linguistici, di segni da interpretare, una realtà compulsiva e veloce; anche i processi di semiosi che avvengono dentro di noi, allora, dovranno essere compulsivi e veloci. Pubblicità e messaggi persuasivi ci attendono in ogni angolo del mondo in cui guardiamo, e ancor più in ogni angolo di città. Prendiamo per esempio un luogo di osmosi come una stazione ferroviaria: schermi che ripetono jingle del detersivo, se ci guardiamo la punta delle scarpe scopriamo sotto di noi enormi adesivi che riproducono il logo di una multinazionale di abbigliamento sportivo; apriamo il giornale, ecco che una ragazza mozzafiato ci ammicca accasciata sopra a una lavatrice. Non abbiamo il tempo di fermarci a riflettere su ognuno di questi stimoli linguistici, crediamo allora di oltrepassarli, di oltrepassare, senza contagio, un brusio di segni, questo è il nostro luogo?, o è il luogo per come ci viene consegnato, al quale ci dobbiamo adeguare passivamente. Mentre pensiamo a questa cosa abbiamo a che fare con rumore che sa essere convincente: quando non ci prendiamo il tempo di ragionare su ognuno di questi segni ci troviamo invischiati in un blob dove assimiliamo tutto nel modo in cui ci viene mostrato, i nostri processi cognitivi vengono saturati dalla narrazione del consumo.  E allora del fenomeno dei graffiti vediamo solo la punta dell’iceberg, quel qualcosa sul quale vogliono che noi ci soffermiamo; nella stazione che descrivevo prima una tag, un graffito rappresenta la volontà di una persona di spezzare l’artificialità del contesto, di creare una parentesi di umanità; è un ‘Adamo me fecit’.

«Scrivere sui muri dei luoghi di culto e su edifici storicamente importanti o con un reale valore artistico, non va bene. Conoscete i vostri nemici, stupidi! I piccioni a New York sanno mirare alla testa George Washington» Phase 2.

Questo articolo nasce dall’idea che non ci si può accontentare dell’apparente.  Ed è proprio quello che sta succedendo: si pensa che per risolvere la questione graffiti basti ricorrere a pene più severe per quelli che li realizzano e a una tinteggiata ogni tanto; questo vuol dire accettare una forma di pensiero superficiale, meccanico, questo vuol dire accettare un disegno politico marcatamente ideologico, anche se ce lo mascherano da qualcos’altro. L’iniziativa No Graffiti Day della quale ho sentito recentemente parlare e della quale sul web si è discusso abbastanza dà di sé quest’immagine – togliamo i graffiti contro al degrado, potremmo leggere la cosa in altro modo: nascondo i graffiti perché sono il sintomo del degrado, come se andassi da uno con l’ittero e mi mettesi a dipingerli la pelle di rosa per farlo passare per sano. Da iniziative di questo tipo certe realtà politiche prendono la loro forza – una galassia di azioni semplici a cui si contrappongono reazioni semplici. Ma i problemi non si possono risolvere così. In questo modo i problemi vengono nascosti sotto al tappeto, anzi, sotto al manto stradale; e non faranno altro che iterarsi in seguito. Ridipingi il portone marrone?, il treno grigio topo?, la corriere arancio?, dai un colpo di idro-pulitrice al sottopassaggi0? Bene, io te li imbratterò di nuovo, e ancora e ancora e ancora. Allora io vi chiedo di praticare nei prossimi giorni un esercizio della mente, fare un po’ di ginnastica di cervello. Ogni volta che vi incazzerete per un muro imbrattato domandatevi “perché questo muro è imbrattato?”. Ora vedete, loro sono bravi in queste operazioni virali, e noi non siamo bravi, del resto a sorvegliare. Qualcuno mi risponderà, “che cosa stai dicendo?, Casini sta facendo qualcosa di concreto per la città”, io risponderò a questi che tutte le cose meno concrete sono appariscenti e sembrano molto concrete; se un Casini volesse davvero risolvere il ‘problema’ di tag e graffiti cercherebbe di andare all’origine del problema. Ma sarebbe un lavoro difficile, un progetto a lungo termine e che, in tutta probabilità, non porterebbe nemmeno a risultati  di cui l’uomo comune, per la loro gradualità, si accorgerebbe. Ci sarebbero dietro delle politiche solide e strutturate, politiche non di stampo reazionario (tutte quelle politiche – in pratica – che questi signori non saprebbero nemmeno immaginare). Ma Casini non avrebbe le foto su Repubblica con il pennello in mano, non avrebbe la possibilità di sfoggiare davanti ai giornalisti un sorriso d’ordinanza. Mi è stato detto, giustamente, mentre ieri sera chiacchieravo alla cena della redazione di Poesia2.0 che parlo in questo modo perché non ho un mutuo da pagare per una casa che viene regolarmente imbrattata, che uno può avere centinaia di migliaia di euro di motivi per incazzarsi per un graffito o per una tag; è un discorso che capisco ma che non tiene conto, per esempio, di un vivere la città in modo consapevole. E che cosa intendo dire con ciò, intendo dire che è facile lamentarsi quando la libertà di una persona è determinata a ciò che possiede; limitano la mia libertà perché si riappropriano della facciata del palazzo in cui vivo; difficile invece è pensare a una gestione di un luogo dove non ci sia qualcuno che senta dentro di sé la necessità di “firmare un muro” solo per dare fastidio a qualcun altro. I protagonisti di questa storia, quindi, sono tanti piccoli individui soli che pensano solo a se stessi. Questa operazione di pulizia, che cancella in sostanza la testimonianza di chi si ribella a un insieme urbanistico di controllo, dove l’abitante si deve adeguare a quanto è pre-esistente, omologare alle untuose architetture fasciste, ai palazzotti figli del razionalismo più becero, rende felici i primi, quelli che ‘possiedono’ e colpisce quelli che scientemente o meno, si ribellano; se le persone riconoscessero infatti una città come la loro città, se i luoghi della città rispondessero alle esigenze dell’animo delle persone, di certo non avremmo una diffusione massiccia di graffiti e di tag;  ma graffiti e tag sono forme d’arte, nascono da delle necessità dello spirito,  è per questo che danno così fastidio, perché non c’è pulizia che tenga, la spontaneità del loro messaggio, l’esigenza dalla quale si generano esisterà sempre. Vediamo per esempio i piccoli paesi dove le anziane sono ancora alle verande, dove la vecchia Casa del Popolo funge, come in altre realtà provinciali, per polarizzare l’aggregazione, vediamo le cappelle montane dove scialbe madonne lacrimose hanno sempre mazzi di fiori freschi, in queste realtà troverete tag e graffiti?, tag e graffiti sono segni gli anticorpi che una società predispone nei confronti dei mali dell’urbanizzazione. Un’altra cosa sulla quale dovremmo interrogarci è il senso di proprietà, dove una strada e un edificio pubblico appartengono alla comunità, non è altrettanto vero che la città, in quanto sistema urbanistico complesso non appartiene alla stessa comunità?, e allora come posso dire “la facciata del palazzo in cui vivo è mia e mia soltanto”, non è anche patrimonio di tutti quelli che ogni giorno ci passano davanti portando il cane al parchetto pubblico come per andare a fare quattro evoluzioni con lo skate?

Francesco Terzago.

Wiki, Berlino, graffiti

P.s.: Nel prossimo articolo si parlerà di poesia esposta e poesia urbana: continuate a seguire la rubrica più pop. di Poesia2.0.

Francesco Terzago
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10 Comments

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  • Purtroppo i mali che riscontri di Bologna fanno parte dell’imbolsimento imbarbarimento che hanno subito tutte le nostre città. Io ritengo che Bologna abbia una suo preciso ruolo nel panorama italiano, Bologna è una grande centrifugo dove sembra che tutto stia sempre per accadere ma il riflusso universitario, ogni due-tre anni sembra riazzerare tutto. io la vivo da dieci anni e mi sembra molto più viva di altre realtà dove la sera alle dieci non c’è più nessuno in giro. Poi è vero, molti, moltissimi problemi rimangono, ma sono endemici di tutte le nostre città, non solo di bologna, a parer mio.

  • Alessandro:
    perché è più provinciale del mio paesino d’origine giù in terronia?
    perché tra le centinaia di proposte per la riabilitazione del teatro fatiscente alle spalle di Maggiore invece di un centro culturale (approvato dall’allora assessorA alla cultura) hanno costruito un centro commerciale?
    perché fittano le case in centro a 10 negri o 20 cinesi per N euro al mese rigorosamente in nero per pagarsi il mutuo della villetta a schiera nuova che hanno comprato e poi rompono i coglioni che il centro è nelle mani degli stranieri?
    perché fittano stanze singole a non meno di 400 euro al mese agli studenti e poi rompono i coglioni che il centro è nelle mani degli studenti?
    perché non danno spazio agli studenti che sono il cuore dell’economia della città e quei pochi spazi che gli studenti hanno glieli chiudono alle 22 per non fare rumore?
    perché non sono capaci di spiegare ai punamat (versione ricca e moderna dei punkabestia) che se vogliono un cane devono ripulire la merda?
    perché in via zamboni moltissimi conoscenti e qualche amico ha subito aggressioni e non era certo notte?
    perché è ormai una leggenda metropolitana la vivacità culturale della città e quelle poche realtà che ci sono sono a numero chiuso più delle università?
    non continuo per non andare troppo OT. E comunque questi non sono problemi che riguardano solo Bologna, però io lì ci ho vissuto 🙂

    Luigi B.

  • Interessante notazione, Lorenzo. Da rifletterci su…

    (Piccola postilla OT: ho vissuto circa quattro anni a Bologna: la città era un mito per quelli che andavano all’Università dalle mie parti. Quando sono arrivato è stata una delusione totale. E la colpa non era certo dei graffiti…)

    Luigi B.

  • Anch’io sono sulla linea di Fabio, ma, abbassando per un attimo il tono della conversazione, vi propongo questa nota di colore, da Bologna, che ormai è il degrado anche perché non è più il laboratorio (creativo, politico, universitario, sociale) di niente: il principale sponsor dell’operazione di pulizia dei muri è l’associazione commercianti (ascom) di bologna, che pare abbaia ottenuto, in cambio, la riduzione degli orari delle ztl in centro (sirio). e non si capisce davvero se è meglio un muro bianco taggato e graffitato o un muro lievemente spugnato di polvere sottili.

  • La questione è complessa e non si può fare di tutta un’erba un fascio, sia da un lato (no graffiti), sia dall’altro (sì graffiti). Dunque, quoto Fabio.
    Perché posso capire che un graffito in un sottopassaggio triste e buio non fa male a nessuno e può, anzi, contribuire all’arredo urbano di una città, ma un deficiente che mi scrive con l’uniposca “Giulia ti amo” sul bordo della fontana di trevi mi farebbe girare i maroni. Allo stesso modo mi farebbe incazzare se un cretino qualunque mi disegnasse un cazzo enorme sul portone di casa (nonostante possa immaginare i risvolti psicoanalitici del suo gesto).

    Quella dei graffiti (come quella di Berlusconi che va a puttane) è una pratica sociale che va riconosciuta ed accettata per essere canalizzata verso sviluppi che non danneggino nessuno e, anzi, siano a beneficio di tutti. A Londra, per risolvere il problema, i graffitttari sono stati riconosciuti socio-istituzionalmente: vengono chiamati ad abbellire alcune zone-ghetto della città; gli si offre la possibilità e lo spazio per delle performance; fanno delle gare; li ospitano nei musei: insomma, a Londra sono stati capaci di riconoscere ed accettare socio-istituzionalmente una pratica sociale utilizzandola per abbellire la città addirittura gratis. Non per nulla Londra ha Banksy. (Ricordo un giorno la ribellione di una intera città perché dei deficienti cancellarono un graffito ad una fermata di metro che si sospettava fosse di Banksy. Come ricordo che furono proprio dei graffittari a disegnare delle aree semicircolari all’interno dei corridoi delle metro che designano il “palco” dei musici di strada – altra pratica che in italia puniamo).

    Sempre a proposito di graffiti, il primo romanzo di Pietro Grossi – Touché – descrive bene il senso di un graffito in un capitolo della storia di 4 amici-artisti.

    Mi schido di qui lasciandovi una chicca:

    “L’elettore si trova dinanzi a un vero paradosso, perché a invitarlo a scegliere liberamente è un potere che, per parte sua, non ha alcuna intenzione di rispettare le regole del gioco. Eed è questo stesso potere, che ha eletto lo sperguioro a regola di vita, a pretendere da lui di prestare giuramento.[…] Per conseguenza, nessuno potrebbe rimproverarlo se eludesse la domanda e non esprimesse con il suo voto il suo “no”. […] Con questo non intendiamo certo affermare che il “no” del nostro elettore debba andare perduto per il resto del mondo. Vogliamo dire soltanto che non necessariamente esso deve comparire dove l’ha deciso chi esercita il potere. Vi sono altri luoghi in cui risulterebbe assai più fastidioso – per esempio sul margine bianco di un manifesto elettorale, o nell’elenco telefonico di un locale pubblico o, ancora, sul parapetto di un ponte quotidianamente percorso da migliaia di persone. Poche parole come ad esempio “ho detto no”, scritte in luoghi come questi, sarebbero infinitamente più efficaci. […] D’altro canto le dittature, per la stessa pressione che esercitano, mettono allo scoperto una serie di punti vulnerabili che rendono ogni attacco più agevole e rapido. Così, per restare al nostro esempio, non è neanche necessario riprodurre per intero la frase che abbiamo prima citato. Basterebbe un secco “no” e chiunque cui capitasse sott’occhio capirebbe al volo di che cosa si tratta. Sarebbe un segno che l’oppressione non è perfettamente riuscita. I simboli spiccano in modo particolare proprio su un fondo uniforme. Se la superficie è grigia, è in uno spazio piccolissimo che si ottiene la massima concentrazione. I segni possono essere colori, figure e anche oggetti. Quando hanno carattere alfabetico, la scrittura si converte in ideogrammi: acquista immediatamente vita, diventa geroglifico e, invece di spiegare, fornisce materia per le spiegazioni. […] Sarebbe un primo passo per uscire dall’universo controllato e dominato dalla statistica. Ma sorge spontanea la domanda, ha il singolo forza sufficiente per affrontare un’impresa del genere?

    (“Trattato del ribelle”, Ernst Junger, Adelphi 1990-2007. Traduz. F. Bovoli. pp 24-26).

    Luigi B.

  • caro Francesco,

    in linea generale, questo articolo mi trova d’accordo.

    poi il fenomeno, come tutti i fenomeni, non è riducibile a un solo taglio interpretativo e probabilmente dovremmo provare a ragionare anche su determinati meccanismi emulativi, coazioni a ripetere, micro-questioni di riconoscibilità nell’ambito di quelle che qui chiami “gang”, o proprio, in certi casi, mode tout court. per cui non sempre credo che dietro il fenomeno dei graffiti ci sia, anche solo a livello semiconscio, una “poetica” come quella che proponi. io stesso ho conosciuto più di un writer, almeno nella mia esperienza potendo constatare motivazioni assai meno articolate – in pratica un semplice retaggio scaturito da un certo tipo di ascolti musicali, un certo tipo di vestiario, di slang, e le tag e i graffiti bene inseriti nel quadro da micro-rapper o micro-crew etc.

    si trovano, è vero, anche cose molto interessanti – messaggi appunto di altra tipologia rispetto a quelli con chiaro ascendente modaiolo. un esempio chiaro, in questo senso, è nella prima foto che proponi.

    su uno di questi messaggi, così stridente e ingiustificabile e ossessionante e visto giorno dopo giorno per diverse settimane, andando a lavoro, o all’università, mi è capitato, un paio di anni fa, di dover tornare in una poesia che obliquamente credo possa interagire con il tuo articolo. in settimana, magari, proverò a proporla in redazione assieme alla fotografia del graffito in questione, per un micro-post da legare/slegare al tuo.

    hail,

    f.t.

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