Ritratto di poeta come organismo animale primitivo


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RITRATTO DI POETA COME ORGANISMO ANIMALE PRIMITIVO

Omaggio a James Joyce e a Dylan Thomas

 

La grande porta del possesso

L’esteriorità diviene l’usurpatrice dell’interiorità, mentre l’apparente immediato ha ormai la meglio su quanto richiede tempo per manifestarsi: il transitorio vince sul persistente.
In questo scenario, l’uomo è l’adoratore di cose che sono in continuo aumento. Il suo desiderio smisurato di possesso è portato in tutte le direzioni. La passione per la quantità restringe la possibilità di una scelta, e discernere diventa sempre più difficile.
Il nostro tempo è fatto di continue prese sul circostante: allunga mani ovunque: tenta l’appropriazione, ne sente l’esigenza. Tutto entra per la grande porta del possesso, oltre la quale lo spazio è la vetrina dell’accostamento più disparato.
Quanto allo spirito, l’uomo sa di progredire più nell’impoverimento che nella conquista.

L’autocancellazione dell’essere

Il presente si rivela come una realtà gravata da un’enorme congestione, al limite della sopportabilità e ravvicinata al punto di rottura, sul ciglio di una deflagrazione.
Tutto sta insieme: gli elementi, che hanno sguardi gli uni per gli altri, giacciono in una manifesta incompatibilità. Le dissonanze determinano masse. L’eterogeneità produce pesanti blocchi rocciosi. L’intera realtà si compone di meticolose sedimentazioni filamentose che rivelano evidenti efflorescenze sanguigne.
La realtà dell’uomo è posta su un gioco di specchi: si erige su quinte fragili come nebbie e colorate come fiori. È staccabile da uno sfondo e tranquillamente collocabile su uno sfondo completamente diverso.
Siamo figure in fuga perpetua. Volontà senza ferme radici.
Le cose ci circondano e ci corrodono alle tempie e alla fioritura dei capelli. Le lontananze prospettiche invadono la retina e i primi piani arretrano. Il circostanziato si fa mobilissimo e vago. Corriamo sulle pagine di un florilegio fatto di molteplici sonorità.
Il persistere e lo svanire sono talvolta rappresentati dal vario combinarsi di parti fisse con parti mobili. Nel paesaggio urbano è evidente la tensione alla trasparenza e all’ascensionalità, che si risolve in una specie di lenta e progressiva autocancellazione dell’essere dalla scena mondana.

 

Il risultato del progresso

Da tempo l’essere umano è privato del suo centro. Le risorse tecniche gli hanno oscurato lo spirito e lo hanno abbandonato in un mondo gremito di oggetti. Qui l’uomo è costretto a coprire il ruolo ambiguo di chi simultaneamente rifiuta con desiderio e accetta con timore.
Da tempo, per effetto di una minacciosa inversione di valori, l’oggetto si anima, mentre noi, resi inerti, ne subiamo il potere. Fuorviati dagli allettamenti delle cose, ci muoviamo in una nebbia che offusca il profilo della realtà.
Mai come oggi corrisponde al vero la riflessione che Marx registrava nel 1849: «Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere un’esistenza umana avvilita a forza materiale».
È questo oggi il modo di esistere: il soggetto si circonda di cose per un se stesso che sta sempre più in là, nel punto centrale sì, ma di una sfasatura; un soggetto che non è la copia dell’io, ma il suo progressivo annichilimento.
La nostra epoca è matrice di un’immensa distrazione. Di conseguenza, il nostro fragile equilibrio si trova esposto a tutti i pericoli.
Torna di attualità l’incipit del Contratto sociale di Rousseau: «L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene», tanto che la civiltà dell’accumulazione e della competizione appare oggi come l’unico generatore simbolico dell’ordine.

 

La scena del lutto

La finitezza è il senso della nostra esistenza. Un punto di vista assoluto non è più pensabile.
L’essere umano è un sopravvissuto che si muove tra i relitti della trascendenza, sulla scena del lutto.
Il nostro dolore non è che una scheggia della separazione tra morte e vita. Non è possibile porvi rimedio, anche se risulta comprensibile che l’uomo di tanto in tanto prenda strade più agevoli, con l’illusione di ricucire quella ferita, di rimuovere le nostre facoltà finite e di colonizzare il sottosuolo che è dentro di noi.
Sono strade che fanno affidamento sulla primavera che verrà.
Questa barriera protettiva è in realtà una prigione in cui l’uomo si mette “in posa” e tradisce la passione con cui le parole si sono date a lui.

 

La patria del poeta

Il poeta entra faticosamente in scena per dirci che l’uomo non possiede esclusivamente la realtà esterna, ovvero il campo della sua azione, ma possiede anche una realtà interna: il campo dei suoi sogni. A una realtà conosciuta e uniforme fa riscontro una realtà sconosciuta e multiforme da svelare in continuazione.
La poesia ci parla dell’elemento totalmente alieno in cui ci imbattiamo nel labirinto della nostra immaginazione.
Ricordano Deleuze e Guattari: «Non c’è differenza tra ciò di cui un libro parla e il modo in cui esso è fatto», confermando così quanto aveva annotato Rimbaud: «Le scoperte dell’ignoto esigono forme letterarie nuove».
L’ignoto: si tratta di un elemento che non può entrare in rapporto né con la ripetizione né con la variazione.
Nella sua ricerca inesausta della bellezza, il poeta viene a trovarsi a tu per tu con una ferita che si rivela incurabile. Senza più l’obbligo di vincere si affida a una produzione che coglie il carattere scisso dell’io. È consapevole, come Leopardi, che «non si vive se non perdendo». Parla della caduta come della sua patria, tanto che nel naufragare ci dà l’immagine di un eterno che scivola via, perdendosi tra i limiti del mondo.

 

La registrazione implacabile del caos

Fare poesia significa inventare nella propria lingua una nuova lingua, straniera. Da quella sfasatura il poeta osserva l’aperto. Ne assume la vertigine quale movente strutturale del disegno poetico. Con un atto ribelle, impone che il soggetto tradizionale debba essere derubricato: depotenziato da regista di pensieri a teatro di eventi. La scrittura diviene di fronte all’aperto una registrazione implacabile del caos.
La parola poetica continua a pronunciarsi entro quelle pieghe del linguaggio che celano il non detto; in un misurare accecato: attraverso il gesto inconsapevole della nascita, seguendo le tracce del cielo sulla terra e misurando il possibile della frase.
La parola poetica elegge essa stessa la voce che la pronuncerà. Nel momento in cui accade, abbiamo la sicura percezione di ascoltare una parola proveniente da grandi altezze: quella parola che da tempi immemoriali ci accompagna verso la collisione estrema, dove il cielo si incontra con la terra, là dove nulla è compiuto: un luogo che sembra lasciato vuoto da qualcosa che non è ancora.
La frase che ha scelto la voce del poeta per giungere all’ascolto scorre lungo argini, la cui propensione a incanalare non ha intendimenti costrittivi, ma tende ad assecondare le trasformazioni delle figure alveate.

 

L’altrove interiore

Circolazione fluttuante e arginature periferiche sono il risultato alchemico ottenuto dal poeta nel suo singolare laboratorio ideativo. Il grande spazio gestito da queste presenze passa con armonia dall’inerzia al respiro. Dall’esserci come dato neutro all’esserci come voce con una sua specifica ricchezza.
Colonie di frasi si spostano verso un punto indeterminabile, di volta in volta segnalato dal crepuscolo o da una mappa albale. Correnti diverse legano i componenti di queste masse in movimento, mai contribuendo a formare un disegno complessivo: si diradano e perdono luce e così lo stesso io. Si diradano verso un altrove interiore che rimane, per quanto prossimo, sconosciuto: vera e propria rappresentazione di un dire mai interamente pronunciabile.

 

La dislocazione della coscienza

In questo scenario, il poeta è una guida spontanea. Si assume l’impegno di sottrarre le parole al sistema della significazione per aprirle alla dimensione del senso. Un processo inevitabile se si vuole ricominciare a pensare in una scena tormentata come la nostra.
È per questo che leggendo un’opera poetica non si è più invitati a estasiarsi, entusiasmarsi, ma a fare esperienza del suo senso. Quando ciò accade possiamo parlare di esperienza di verità, tanto che l’incontro con l’opera produce nel soggetto un’effettiva modificazione, fino a trasformare la coscienza, spostandola, dislocandola.
L’opera vuol essere il luogo di convergenza di quelle voci che ritengono necessario rimuovere la negatività che ci circonda. Possiede il soffio impercettibile che sa animarle.
Il “disagio” che le varie testimonianze poetiche riusciranno a suscitare nella coscienza del lettore, una volta oltrepassato l’orizzonte puramente emotivo, rappresenterà l’iniziale sconvolgimento di quell’indifferentismo che corrode progressivamente la nostra esistenza.

 

La macchina del dire

Il poeta non ritiene che la frase inizi dove si posa la prima parola. La poesia anzi comincia per lui molto prima. Ed è molto meno pura di quanto si possa immaginare.
Con questo suo atteggiamento egli concorre a spezzare il fragile concetto di unità del fare inventivo. Il movente deve passare per una difficile cruna, dopo la quale si ha l’apparire dell’architettura. Questa cruna è il mezzo. Sarà poi la dimensione della scrittura il vero momento genitale.
Parola come lucida introduzione a se stessa. Quello spazio intermedio fra il pungolo emotivo e la sua traduzione in parola ha nell’opera grande rilievo, perché fa vedere la scrittura come un atto complesso e non soltanto come uno spiegamento di risultanze.
Il poeta chiede al lettore di misurarsi con tutte le condizioni che sorreggono  l’intenzione esecutiva. Preferendo trattenerlo accanto alla macchina del dire piuttosto che al suo prodotto. Contribuendo a rendere ancora più precaria la sua terra. Quasi un’assenza di fede nell’architettura verbale compiuta.

 

L’interruzione della storia

Essere poeti vuol dire affidare alle parole ciò che è rimasto non formulato. Vi è opera poetica solo là dove c’è invenzione dell’imprevedibile e interruzione della storia.
L’inesplicabile, che è un incidente per gli spiriti razionali, è un’abitudine per il poeta, il quale sta sempre dalla parte di ciò che è a-venire. Nel farlo avvelena la quiete che gli uomini cercano negli oggetti, dissolve la stabilità che la società cerca nel profitto. Non spegne nella malinconia quel dolore che prende quando ci si sente inadatti a qualsiasi stato conosciuto. Racconta agli uomini “adattati” quel residuo di speranza che viene dal non-adattamento.
L’altrove è la vera ossessione che anima il poeta.

 

Le ciglia vibratili del poeta

Fragilità e precarietà. Instabilità e vibrazione. Ecco alcuni riferimenti per queste strutture verbali che si ergono nello spazio con il marchio della fuggevolezza e della perdita, della crescita e del declino, del fiorire e dell’appassire. Anche la sola spinta di un soffio può far oscillare, rabbrividire, espandere e contrarre queste forme filamentose del dire.
Annota Parmenide: «Indifferente è per me da quale parte incomincio; infatti ritornerò lì di nuovo». In realtà, agli occhi di colui che cade, perfettamente insensato appare l’agitarsi dell’uomo. Registra Stanescu: «Alla fine, le parole / hanno dovuto assomigliare a me».
Il poeta: Benn lo paragona a certi organismi primitivi che possono stabilire un rapporto rudimentale con l’ambiente solo attraverso le ciglia vibratili di cui è interamente rivestito il loro corpo.
La vita del poeta non spiega l’opera, ma tra loro vita e opera comunicano.
La verità è che quell’opera-da-fare esigeva quella vita e quel lavorìo di percezione delle ciglia vibratili. In questo senso il poeta assale la vita e porta a termine l’opera. Si tratta di porre con tutti i sensi i propri interrogativi.

 

L’ombra del vero

Allontanarsi dalle forme che l’occhio vede è l’infrazione a cui il poeta comunemente si abbandona, osando rovesciare il tavolo delle forme note.
Per questo la poesia sempre di più parla di sé. E non di qualcosa che sia estraneo.
La poesia non guarda, ma si guarda. Non scava altrove, ma nella propria carne. Non interroga, ma s’interroga. Le pupille della grande poesia contemporanea sono rovesciate verso l’interno.
Il poeta fa esperienza di ciò che non saprà mai: l’ombra del vero. Non c’è pace nella ricerca, ma solo tregua. E dopo ogni tregua la ricerca ha bisogno di uno sguardo ulteriore: per far comprendere che la realtà non è a un solo strato. E che ammetterne almeno un secondo, dopo quello gremito da oggetti, vuol dire aver compiuto il primo passo dentro un vasto orizzonte.
Una poesia che s’imponesse ancora come sintesi non farebbe che riprodurre la falsa totalità dell’ideologia borghese. «La mia ricerca dell’unità» scrive Benn «si limita a quel foglio di carta che si trova tra le mie mani per essere lavorato». Gli fa eco Gargani: «Siamo stati così vecchi per lungo tempo che forse non è così avventato restituirci a una giovinezza senza sicurezza e senza certezza».

 

Il laboratorio del poeta

La poesia non proviene da nessun significato, né rimanda ad alcun valore. Non c’è nulla prima e dopo di essa. Essa è l’oggetto che è. Così come il poeta, non rivela nénasconde.
Con questa consapevolezza, il poeta si ritira nel suo laboratorio di parole e, votandosi al silenzio, psicanalizza le sillabe, rieduca i dittonghi, trapianta le consonanti, elimina i passaggi discorsivi, i nessi causali, le gerarchie dei rapporti sintattici, riduce e condensa il tempo della comunicazione; e tende a costruire un tempo finito dello spazio poetico entro il quale la carica della parola si brucia interamente in un vero e proprio processo di entropia.
Si può parlare di annodamento di frasi in sospensione, di nuda geometria offerta a una pagina che la occupa per consumarla.
Queste architetture verbali si dispongono alla periferia di una descrizione e alla soglia di soluzioni astratte. Divergono per strade che poi si fiancheggeranno nel matrimonio del cielo con la terra. L’opera genera un fuoco perfezionatore e divorante, che viene a stagliarsi nell’inserzione fra due espansioni vitali.

 

La parola oppositiva

Il poeta si sposta al centro del fiume dell’esperienza inventiva senza perdere di vista i richiami di ciascun argine, pur nella consapevolezza che tali presenze sono sempre provvisorie definizioni dell’esistente, delle quali comunque nessuna potrà aspirare all’assolutezza.
I reperti interiori e segreti trovano paralleli riferimenti in reperti esteriori e visibili.
La moltiplicazione di un elemento per uno spazio sempre più grande, e per un tempo che potrebbe essere anche infinito, è rigore ma anche modulazione. È a tono fondamentale unico, variato e acceso centralmente da una voce. Questo corpo, duro nella sua purezza senza sottintesi, vibra grazie a questa voce. Ha una sua movenza, una direzione di sviluppo e non soltanto il peso, sempre più gravoso, di ciò che si presenta esclusivamente come fatto ripetitivo, come falsa ricchezza, e quindi come falso sviluppo.
Questi telai ordinatissimi denunciano la povertà di un ordine obbligatoriamente accettato, imperioso, non facilmente sconnettibile.
Quella voce diventa parola oppositiva dell’oggetto segregato, ovvero del destino umano e sociale. Quella voce si raccoglie per tentare vie di forza, per dare alla casa cunicoli nei quali insinuare altre proposte, che non possono evidentemente prescindere da nuovi termini di opposizione e rivolta.
Allora la voce non viene per levigare e ingentilire, ma per interrompere e scalzare.
Questa imponente costruzione, luogo di resa delle volontà, non definitiva, è un seminio di punte foranti e segnala l’avvento di una pagina bianca da riempire di formule liberate dalla mistificazione.

 

Il poeta come organismo primitivo

I poeti raggiungono il loro dominio là dove la vita perisce. Scrive ancora Benn: «Fare arte significa, dal punto di vista dell’artista, escludere la vita, comprimendola, anzi combattendola». La scissione è certo tragica e dolorosa. Ma non è d’altra parte vero che per vedere bene una cattedrale dobbiamo rinunciare a vedere i pori delle sue pietre e allontanarci debitamente?
«Continuare assolutamente a scrivere», s’impone Kafka. Il poema che ne nascerà costituirà un mondo possibile entro un sistema di coerenze formali senza verifica sul reale. Ecco perché, insiste Benn, il poeta – questo organismo primitivo – è chiamato a dire che «nulla c’è, se mai c’è stato qualcosa, e nulla ci sarà»; è chiamato a testimoniare il dolore e l’infelicità a cui questa consapevolezza conduce.

 

Il respiro della luce

L’opera si è svincolata da una critica tendente a imporre regole geometriche per rinchiuderla dentro perfezionati paretai di concetti.
Siamo orfani del padre, abbandonati a noi stessi e ai nostri criteri interpretativi.
Abbandonata l’intenzione di dare forma compiuta a ciò che deve restare un semplice profilo, oggi la critica non è più fondazione di unità di misura e si accosta all’opera scalarmente; assecondando le molteplici interrogazioni che le parole e i segni non cessano di promuovere, impedendo ai significati e ai risultati raggiunti di solidificarsi e irrigidirsi.
Ciascuna indagine concorre a dare un contributo e tutte insieme forniscono la massima penetrazione dell’opera. In questa complessità, ogni esito critico non può che costituire un nuovo inizio, una pietra di un compatto edificio.
I testi interpretativi si fanno congegni per ripetere il respiro della luce e talvolta per rimodularlo, pur con la consapevolezza che tutto ciò che si può dire sulla poesia è altra cosa rispetto a quanto vi è in essa.
Chi scrive rimane un navigatore senza compagni.

 

XVII

La poesia è luogo per una verità che preferisce sporgersi sul breve giardino del quotidiano piuttosto che affacciarsi ai grandi balconi dell’essere.
Il poeta induce a pensare che il vero portatore dell’identificazione sia il collaterale, l’adombrato e l’inevidente. Ci fa comprendere efficacemente che certi dati fuggevoli – quali l’apparente moto del sole o la contesa tra l’arco e la vita – sanno avviarci all’approfondimento di molte delle domande che andiamo formulando nel maturare della nostra esperienza.

Flavio Ermini
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