Appunti: [ Adriano Spatola ]


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X. Solipsismo o comportamento?

L’anno di nascita della rivista Ana Etcetera è il 1958, l’anno di morte (presunta) il 1971, dieci fascicoli in una dozzina d’anni, quanto basta per controllare dal di dentro i «lavori in corso» (questa sigla appare tra le altre sulla copertina della rivista) di una metacomunicazione pretesa «quasi privata»; a scanso di equivoci sul ruolo di tale privacy nel campo della sperimentazione sulla «filosofia astratta» e sul linguaggio la linea programmatica di Ana Etcetera viene indicata anche come possibilità di «scrittura in cir­colo», «servizio di comunicazioni».

È evidente che l’accumulo di tali esche definitorie serve in primo luogo a porre il lettore di fronte a una zona d’intervento in cui ven­gono contemporaneamente messe in moto l’analisi del linguaggio e la conoscenza di sé, l’eterodossia filosofica e l’esercizio individuale del pensiero (anzi, dello «spensare»), la tipo/grafia quale ele­mento costitutivo del discorso e il sense off sense, e questa zona d’in­tervento è da considerarsi aperta tanto al rito comportamentistico quanto all’interlinguaggio.

Naturalmente, per quanto ci riguarda, porremo l’accento sulla metodologia tipo/grafica per appurarne le caratteristiche distin­tive rispetto a operazioni simili attuatesi nello stesso periodo di tempo: Ana Etcetera si propone, abbiamo visto, un’analisi del lin­guaggio, ma tale analisi dovrà essere «grafica» e cioè relativa tanto al modo di rappresentare le parole nella scrittura quanto alla scrittura stessa, da intendersi come «forma»; l’analisi grafica del linguaggio, scrive Martino Oberto, è «un metodo di lettura come diretta immagine grafica del mondo (per trascrizione) nella trascrizione: se si determina un problema di “forma” la questione lascia indifferenti — infatti se sono dati modi (o forme) diversi di una stessa cosa si tratta di pseudoproblema, in quanto siamo di fronte a una questione di indifferenza formale — cioè la scelta del tipo di scrittura è libera, arbitraria» (Ana Etcetera, n. 6, 1965). Dunque la scrittura si muove in aree di significato tra elementi terminologici e segnici messi a disposizione dell’operatore e da esso utilizzati per una «opus disorganizzata», e tale disorganizza­zione è il risultato continuamente rimandato, ma a livello meta-linguistico, della ricerca. Qui la grafia — o tipo/grafìa — serve soprattutto, mi sembra, a rendere esplicito e simbolizzato secondo convenzioni di estrema sinteticità il percorso di tale ricerca, postu­lato come infinito.

L’accumulo di esche definitorie di cui si è detto ha dunque anche un uso verso l’interno, nel momento stesso in cui si accetta l’ovvio presupposto che la definizione coincide con la formazione del con­cetto; questo uso non ha carattere regressivo, pur portando a una scrittura «solipsistica», a un linguaggio «segreto» (Oberto parla addirittura di «autismo»). Viene infatti mantenuta in funzione l’arbitrarietà della scelta della tecnica di scrittura anche come me­todo di disorganizzazione dell’informazione, senza limitazioni alla espansione semantica, ovvero alla carica semantica innescata nel metalinguaggio. E qui si può avere un’esplosione ma anche una implosione, con la scrittura alla ricerca di sé, nonostante l’avver­tenza che per metalinguaggio non si debba intendere «un lin­guaggio usato per parlare del linguaggio». Questa implosione — la scrittura alla ricerca di sé — è a ben guardare in stretta connessione con quanto afferma Wittgenstein: «Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione. Ciò che i segni tacciono lo dice la loro applicazione»  (Tractatus logico-philosophicus, 3.262). Tale «applicazione» è in Ana Etcetera coerente, dal punto di vista dell’analisi grafica del linguaggio, sulla base di una «semantografia» in cui (per particolari «condizioni di slivellamento»)  «le parole vengono usate come segni»; è evidente che il discorso non verte direttamente sulla poesia ma preferisce svolgersi a un livello in cui la manipolazione-simbolizzazione del segno, della parola, o del segno-parola, fa scattare un processo di coagulazione di signi­ficati dispersi o nascosti (dispersi nel mondo che circonda il testo, nascosti tra le pieghe del testo), un processo simile a quello che Jung chiama di «individuazione» o di « centralizzazione dell’inconscio». Sotto questa luce appare più plausibile il richiamo a un linguaggio segreto, che viene a essere per il testo, e soprattutto per il testo visuale, una raccolta di formule da sfruttare ai fini della «scrittura in circolo», come mi pare abbastanza evidente nel lavoro sia di Anna che di Martino Oberto: e forse ha ragione Ballerini quando, dopo aver indicato in questo lavoro una «estrinsecazione visuale dei processi logici» e un «rifiuto della nozione di linguaggio come mimesi», giunge ad affermare che siamo in questi ultimi anni di fronte a una «assunzione dei segni come convenzione pretelepatica». Tuttavia la recentissima posizione di Anna Oberto sta rive­landosi piuttosto indipendente rispetto alle teorie della rivista, sulla base di una «poesia al femminile» con connotazioni ideologiche prioritarie rispetto al «linguaggio al maschile». Tale priorità si configura, mi sembra, più in termini di organizzazione che di negazione: dal semplice «manifesto femminista» la Oberto è passata a «racconti visivi» realizzati insieme al figlio di pochi anni. Il segno che il bambino traccia sul foglio nel pronunciare una pa­rola (sua o suggerita) serve da punto di riferimento per una serie di elementi analogici la cui scelta è sempre frutto di una collabo­razione: a oggetti «magici» come sassi o conchiglie si aggiungono fotografie,  appunti sulle circostanze, lettere alfabetiche. Questi aspetti diaristici sono forse meno interessanti sul piano visuale che su quello concettuale, ma in ogni caso permettono utili confronti con altre dimensioni «primitive» della poesia totale, da consi­derarsi, come direbbe Jacques Lepage, kors langage. Per tornare a Ana Etcetera, su un piano meno astratto-teorico e più legato alla realizzazione pratica del testo può fornire indicazioni la nota di Ugo Carrega al poema Rapporto fra il poeta e il suo lavoro (sempre sul n. 6 della rivista): qui la pagina stampata non viene più considerata un «mezzo per moltiplicare la pagina scritta a mano» ma uno «strumento-in-sé d’espressione», in quanto «tutto ciò che è steso sulla pagina è capace di comunicazione». Il poeta ha sempre dovuto lottare contro la linearità del linguaggio, dove per linearità si deve intendere quella «fisicità» che permette di dire soltanto «una cosa alla volta» e la cui unica via d’uscita è la stratificazione tra immagini, significati, ritmi ecc. A questo elemento verbale della pagina stampata si affianca un elemento grafico basato sull’impaginazione, sul lettering e su segni creati o di riporto, mentre l’impaginazione risponde a una «volontà di chiarezza» nel disporre in un dato spazio le parole, il lettering fa sì che il carattere tipografico venga usato semanticamente; il segno creato «non è altro che un movimento della mano sul foglio a stabilire una sua traccia, presenza fisico-emotiva, o di “pensiero fulminante” nella dimensione della sua facile rapida acquisizione»; quanto al segno riportato, si tratta di «tutto quel materiale di carta stampata già esìstente che viene scelta col ritaglio e inserita nel proprio discorso come riporto di una realtà oggettiva».

Queste annotazioni possono essere interessanti perché la poetica di Ana Etcetera vi risulta notevolmente semplificata, tanto da lasciar allineare un certo numero di indicazioni che sembrano in contrasto con l’idea di una scrittura solipsistica: a parte l’intonazione pedagogica (l’impaginazione come volontà di chiarezza, e tale «anche per un impegno morale») Carrega ha, verso la realtà oggettiva e i segni di riporto, un atteggiamento certamente molto diverso da quello intuibile nell’autismo preconizzato da Oberto, ove per autismo s’intenda, alla lettera, la tendenza del pensiero o delta percezione a essere regolati dai desideri o bisogni personali piuttosto che dalla realtà oggettiva.

Tuttavia questa diversità viene in gran parte annullata dall’im­portanza assegnata da Carrega al segno creato (per il quale sarebbe forse più adatta la definizione di segno « creativo »); d’altra parte tanto il rifiuto del linguaggio lineare e della conseguente stratifi­cazione quanto il richiamo a un pensiero «fulminante» sono, in una verifica diacronica delle poetiche, apparentabili a certe fon­damentali indicazioni futuriste; ma tale ipotesi, pur confermata con plateale evidenza dall’esempio usato per il lettering (tenrOOReeee!), resta un’ipotesi di principio in quanto troppo dissimile è nei due casi la sensibilità con cui viene trattato il materiale verbale: di­ciamo allora piuttosto che Carrega non si limita a rivalutare una tensione interna al testo visivo che il futurismo sapeva sfruttare secondo un codice linguistico disgiunto da un codice materico, ma ne fa uso con un’intensità pluridimensionale che implica l’esi­stenza di plusvalori semantici attribuibili a (o deducibili da) ogni elemento del mondo nel quale viviamo, e nel quale ovviamente il linguaggio scritto o parlato rappresenta soltanto uno dei tanti modi del comunicare.

 

In Segni in uso (definiti «esercizi del verbale») Carrega si chiede, ad esempio, come in un libro «il supporto», ossia la pagina e la carta, possa non essere «impiegato semanticamente», il che pre­suppone che in ogni altro caso tale supporto possiede necessaria­mente un peso semantico di cui il poeta è costretto a tener conto se non vuole produrre un messaggio consapevole solo in parte. La domanda riguarda in effetti più specificamente ciò che avviene quando in alcune pagine la mancanza delle immagini o delle frasi promesse dalle didascalie crea immediatamente e automatica­mente una gamma di significati basati esclusivamente sul supporto. Nonostante la netta contraddizione Carrega insiste sul fatto che «la costante diversità del significato» dipende «dalla costante diversità del significante », ma quale spazio dare in questo contesto allo spazio bianco della pagina? Spazio semantico-visuale o spazio a-verbale non sono forse la stessa cosa? È interessante notare che Segni in uso si risolve in qualche falso sillogismo, come

 

camminare è un gesto

camminare è un segno

il gesto è un segno

il segno è un oggetto

camminare è un oggetto.

 

E qui naturalmente nessuno può intervenire sulla validità di questo sofisma, a proposito del quale l’autore potrebbe sempre ricordare che esso concerne in primo luogo un processo di oggettivazione pro­gressiva dei meccanismi di apprendimento relativi all’esperienza. Gli «esercizi del verbale» pretendono dunque di trasformarsi in affermazioni indimostrabili in cui il ragionamento apparente­mente logico utilizza proprio il supporto fisico per confondere la apparenza con la sostanza. Il testo può essere indifferentemente presente o assente, in quanto la sua visualità non dipende da questa presenza o da questa assenza. A proposito di Carrega scrive infatti Aldo Rossi: «Credo che sia dimostrato che fra il vedere e il leggere (un’immagine, ma anche una scrittura) il primato spetti necessa­riamente alla prima azione: ne deriva che al primo colpo d’occhio la scrittura (manuale o a stampa) è usufruita come un’imma­gine incorniciata in uno spazio precisamente delimitato (la pagi­na). Segni in uso porta alle estreme conseguenze, dandolo per scontato, questo assunto, soprattutto nella serie dei «quadri irrea­lizzabili» in cui il riferimento all’immagine elimina l’immagine stessa e la sostituisce. Aiuta a comprendere questa operazione il concetto di simbiosi sul quale si è basata la ricerca della rivinta Tool (1963-67), una pubblicazione nata da un programma «a puntate» da svolgersi, in ogni numero, su un determinato tipo di rapporto tra i vari elementi della poesia grafica. La «scrittura simbiotica» va intesa come un interlinguaggio al quale partecipano con reciproca azione segni tratti da diversi linguaggi, nell’ambito di un’analisi della pagina a stampa; tale analisi verte soprattutto sulle particolarità visuali in grado di essere riutilizzate ai fini di una comunicazione non più fisica, come ad esempio nel futurismo o nella poesia concreta, ma astratta (cioè logica o artificiale). Il richiamo a Ana Etcetera è evi­dente, anche se Tool propone un discorso essenzialmente autonomo sulla possibilità di una «lirica logica» punto di partenza per un lavoro interno alla poesia, quasi esclusivo e comunque limi­tato a un nucleo prestabilito di esperienze. Così nella scrittura simbiotica si viene coinvolti in tre «letture»; la prima «estensiva grafica», la seconda «estensiva fonetica» e la terza «semantica verbale», senza tuttavia che sia necessario adottare l’idea di simultaneità.

È vero infatti che la simultaneità delle tre letture porta a un «mas­simo della comunicazione poetica», ma è anche vero che una certa dispersione verso direzioni secondarie ramificantesi da quelle prin­cipali induce il poeta a una personalizzazione del poiein, in un «atteggiamento» di «assoluta libertà d’azione ideologica», tanto più che tool significa strumento e che «l’uso di uno strumento mo­difica chi lo usa e la necessità di parlare dello strumento che si vuole usare».

A parte le considerazioni non del tutto accettabili sulla esclusione della poesia concreta dai modelli di comunicazione artificiale, o sulla identificazione del futurismo con un modello di comunica­zione fìsica, e su questo argomento ci siamo soffermati più volte, la rivista ha indubbiamente svolto fino in fondo la ricerca che si era proposta sui sei elementi costitutivi della scrittura simbiotica; gli aspetti fonetici,  gli enunciati proposizionali, il lettering, il segno, la forma e il colore. Sempre nell’ambito di Tool, poi, la poesia di Vincenzo Accame è costituita da una serie di varianti, una serie chiusa che tuttavia si giustifica come aperta e quasi infi­nita in quanto giocata sul ruolo letterale della variante. Il linguaggio, anzi la sua lettura visuale, scatta da questo bilan­ciamento e rimanda di pagina in pagina (e le pagine sono deci­sioni sintattiche) la ripetizione di alcune parole usate, oggettivamente, come chiave d interpretazione del discorso che il libro fa su se stesso in quanto sistema di segni, ma anche, o soprattutto, dall’interno, come elementi convenzionalmente astratti, sui quali far colare poi valori semantici. Questa convenzione è identica a quella che fa della logica musicale una tessitura metafisica (certo non a caso Accame si richiama alla tecnica della «variazione») e comunque è il problema della costruzione di un testo indipendente dai suoi significati. Secondo Tomaso Kemeny, l’intento di Accame è quello di allestire il materiale verbale e grafico nello «spazio-­supporto» allo scopo di far coincidere il significato che ne deriva con l’operazione stessa, abolendo i punti di riferimento storico-metafisici esterni allo spazio-supporto, che viene cosi «reso attivo» al punto di «declamare» la sua presenza. Il testo di Accame rimane perciò al di qua della comunicazione, nel senso comune del termine, e della espressione: «la funzione connotante del linguaggio, la sua dimensione paradigmatica viene ridotta a zero» e «attra­verso la regressione della significazione alle sue origini il gesto viene congelato sulle soglie della scrittura».

 

A un certo punto le tecniche della scrittura visuale sono esplose e hanno rifiutato il discorso sul processo di formazione del testo, spostandosi verso il problema di una poesia comportamentale. Il momento di questa esplosione va collocato all’inizio degli anni settanta, se tralasciamo di considerare i fenomeni precedenti di negazione assoluta a livello di intermedia, il più clamoroso e accet­tabile dei quali è Ben Vautier (dico «accettabile» dal punto di vista di una ricerca sulla poesia totale). Ma l’incognita di questo passaggio alla poesia comportamentale consiste nel fatto che essa rispecchia, appropriandosene, sistemi analoghi di espressione ge­stuale già in atto intorno alla poesia. È il tipico rapporto di gene­ralizzazione «parallela» rovesciata, all’interno del genere, in distruzione-reinvenzione di un modello autonomo. Ormai tuttavia sappiamo che questi passaggi da un genere all’altro rientrano in una prassi accettata e anzi invocata dalla vita stessa dei media artistici. Il nuovo modo di produrre poesia mediante il comporta­mento si spiega soltanto tenendo presente un ampio retroterra in cui i singoli exploit di questo o quel «precursore» contano meno dell’effettiva formazione — a livello estetico — di uno spazio di libertà creativa globale. Se invece la poesia visuale viene considerata come una catena di montaggio funzionale a se stessa e quindi al sistema ideologico dei rapporti culturali in atto, la logica conseguenza è che il tuo rinnovamento appare possibile soltanto sul piano politico o quanto meno privilegiando in senso politico il rapporto «aperto» con il pubblico. Ma bisognerà accertare se questa funzionalità al sistema è reale, o non piuttosto un semplice espediente polemico. La tesi di Luigi Ballerini, ad riempio, è che la poesia visuale «agisca in direzione disalienante, cioè contro «i gruppi che approfittano del «processo secolare di standardizzazione immaginativa» conseguente al «fissaggio in stampi neutri di scrittura, in codici ripetibili a usura e ai quali l’individuo non può arrecare alcunché di personale». Dunque la scrittura visuale, afferma Ballerini, «postula un recupero dell’Es non a livello delle sue richieste più immediatamente vitalistiche ma in quanto si presenta come magazzino totale delle possibilità ap­percettive, provocando un reinserimento di tali possibilità nei processi di captazione del reale».

La tesi di Ballerini è soddisfacente perché basa sulla liberazione dell’Es non tanto una serie di testi visuali  (appartenenti poi a varie «scuole») quanto il procedimento stesso di produzione di tali testi. Dunque un’idea molto precisa di comportamento è con­tenuta anche e già nella scrittura visuale, e sarà opportuno tenerne conto se non si vuole, per proiettare in avanti la poesia comporta­mentale, tagliarle tutti i ponti dietro le spalle. Del resto due esempi di body poetry, come lo scriba di Claudio Parmiggiani e di Timm Ulrichs, usano il corpo come pagina, non come macchina gestuale, riequilibrando così i dati del problema. Dada di Ferrò si colloca sullo stesso piano, ma con una variante molto interessante dal punto di vista di quanto stiamo dicendo: per rendere grafica­mente pregnante il suo body poem Ferrò è costretto a «tornare in­dietro», e cioè a servirsi della pagina-oggetto, con fustellatura e così via, mentre a Parmiggiani e Ulrichs basta il medium fotogra­fico. Di un mio testo, voyage, esistono due versioni, che si integrano a vicenda e si spiegano l’una con l’altra: come poema-oggetto e come poema gestuale. Uno dei più importanti autori di poesia comportamentale, Alain Arias-Misson, è passato dall’happening alle azioni pubbliche e poi alla foto-collage, usando quest’ultima per ricapitolare e «fissare» in una nuova versione spaesante le esperienze precedenti. L’elenco di queste variazioni sul tema della difficile autonomia della poesia di comportamento rispetto alla scrittura visuale potrebbe continuare a lungo. Un’altra questione sulla quale vale la pena di soffermarsi è che la problematica della poesia comportamentale non ha sempre un significato direttamente «politico». Lo ha o lo ha avuto in certi casi, per esempio nel caso di Julien Blaine e delle sue affiches (Regardez la révolutìon en marche) incollate ad oggetti in movimento, come automobili o altri veicoli, per rendere «effettivo» e «visibile» sul piano della realtà lo slogan, con una evidenza solo a prima vista tautologica. Non lo ha e non lo ha avuto in altri casi, se non alterando sensibilmente, dilatandolo in maniera pretestuosa, l’oggetto «politico». La poesia comportamentale è anche fine a se stessa, «inutile», priva di implicazioni «positive», Può essere collettiva, ma può anche svilupparsi come momento individuale di situazione oggettìva o addirittura come momento di una tensione  soggettiva, privata (torniamo, come si vede, alla tesi di Ballerini sul recupero dell’Es), senza per questo cadere nel solipsismo, senza cioè che il soggetto del comportamento sia costretto a non ammettere una realtà esterna, diversa dalle proiezioni fantastiche pensiero o dell’immaginazione.

Ad esempio Per un trattamento completo di Vaccari è una specie dì dialogo in forma di souvenir di un viaggio ripensato e rivisuto attraverso gli scontrini degli Alberghi Diurni Gobianchi, ben noti ai viaggiatori bisognosi di una rapida doccia. Da questo punto di vista siamo di fronte a un’Odissea casalinga, cronaca di una emigrazione da provincia a provincia che sa molto di noia e di routine. Giustamente in questi casi è « la vita » a esere chiamata in causa, con la sua messinscena di cattivo gusto.

Di questo fatalismo non catastrofico Franco Vaccari è un interprete sicuro, da anni il suo interesse è rivolto principalmente a tracce triviali e a volte granguignolesche del risvolto «sotterra» dell’esistenza quotidiana. Questo atteggiamento o «componimento», non imbevuto di acque messianiche, e in fondo non innato alla malinconia crepuscolare, fa sì che Per un trattamento completo racconti soltanto se stesso, con la logica fredda della prezzatura da supermarket, senza intervento critico o volontà distruttiva dell’autore. Quanto al secondo modo di leggere il libro — a «poema-viaggio» o «poema-azione» — direi che esso risulti talmente dal lessico degli scontrini, offerto a una interpretazione filologica magari ironica come un jeu de mots un po’ voluto: «supplemento estetico» per esempio. Metafore fortuite che mordono la realtà secondo la logica del caso, testi superflui la cui innocua e pratica verità è già stata assolta prima, nel limbo delle intenzioni, e le buone intenzioni sono inattuabili non soltanto per «la vita», ma anche per «l’arte» o «la poesia». Alla fine di tutto questo Julien Blaine propone la poesia a «punti», un tentativo di raggruppare i poeti visuali intorno ad una formula abbastanza generica da rimanere estranea rispetto alle polemiche tra le varie correnti; si tratta in fondo di una formula di attesa, e lo stesso segno grafico che serve a indicare il momento (due punti tra virgolette, « : ») ha più il senso di un marchio di fabbrica che di un ismo. D’altra parte l’operazione di Blaine risente di almeno due condizionamenti: da un lato la crisi sessantottesca, dall’altro la fine di quell’atteggiamento di attiva collabora­zione tra personalità diverse e diversamente creatrici che ispirava Approches, e in parte, almeno inizialmente, altre riviste. Abbiamo quindi una decisa conversione all’anonimato e al metodo dialettico, oltre che naturalmente alla volontà di agire sulla vita quotidiana all’interno di una «data società in un dato momento». La poesia «due punti» è materialista, rifiuta la lettura del récit, la frode del libro, il mercantilismo dell’oggetto, l’alienazione dello spettacolo: ma soprattutto rifiuta di avere come soggetto il linguaggio, in quanto il suo soggetto è la critica, la moltiplicazione e la proliferazione dei linguaggi. Da questo atteggiamento nasce là rivista «Doc(k)s», alla quale sono affidate per il momento le nuove ricerche interna­zionali e totali di poesia.

(Adriano Spatola, Verso la poesia totale, Paravia, Torino 1978)

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