Paolo Ruffilli: Le stanze del cielo – una nota di Mirko Servetti

Le stanze del cielo

Paolo Ruffilli

2008, 89 p., brossura

Marsilio (collana Gli specchi della memoria)

 

Paolo Ruffilli torna, dopo l’alto esito de “La gioia e il lutto” e a sette anni da quell’evento, con “Le stanze del cielo” (Marsilio Editori – Venezia, 2008).

La nuova raccolta persegue e riplasma la struttura poematica che caratterizzò il libro precedente in una consonanza tematica bene evidenziata da Alfredo Giuliani in prefazione: “Quella stessa inclinazione a oggettivare i dati soggettivi… rende capace Ruffilli di calarsi nella soggettività degli altri, da poeta che è anche narratore. Quello che accade con le molteplici voci di La gioia e il lutto, accade anche con la mutevole voce recitante di Le stanze del cielo e con quella esaltata e sconfitta di La sete, il desiderio, l’altra sezione del nuovo libro che conduce il lettore in due territori a dir poco inconsueti per la poesia: lo spazio concentrazionario “esterno” della prigione e quello “interno” della tossicodipendenza, in entrambi i casi dietro all’ossessione della perdita della libertà.”
Pertanto Ruffilli, viene costruendo anche un percorso di decantazione della mitologia del linguaggio. L’universo si cangia in un’immagine ante – mitica dove l’Io si de – termina in una voluntas di introiettamento nelle plaghe del Desiderio. Lo ‘strappo’ dall’idillio lascia il luogo del rimpianto alla formula paratattica che si può tradurre a sua volta in formula tri – logica: “Sogna, Desidera, Realizza”. Un percorso mai del tutto immune da pericoli e agguati poiché l’approccio al Desiderio produttivo comporta l’alto rischio dello smarrimento di un’identità composta di più codici strutturati nel corso della Storia, dell’Etica e della Morale. Non a caso tutto ciò che si offre come linea di fuga ai controlli dello storicismo e dei nuclei precostituiti desta e desterà sempre ragioni di sospetto (E’ qui che, dove niente/accade, il tempo/è senza essere/mai stato,/un’attesa senza luce/e senza fine./Solo chi sta/nel cuore dell’inferno/sa cosa sia/l’eternità presente,/dannato nell’oscurità/più fonda,/un guanto rovesciato/nel suo interno.” E’ qui – pag. 31).

Dice ancora Giuliani: “A Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di vivere)… E, per misurarsi con il Male, usa i suoi mezzi di sempre: il passo felpato e breve, un partecipe distacco, la cantabilità sommessa e antilirica dal ritmo sincopato. Soprattutto non si lascia condizionare dall’apparenza dei fatti, perché la realtà è sempre diversa da quello che appare, anche dentro le celle di un carcere…”. In questi atti di ‘immobile erranza’, antitetici alla sublimazione del ‘ricordo’, Ruffilli proietta la ‘memoria’ con alternanza centrifuga privilegiando il dato magico originario e stigmatizzando il carattere evocativo della lingua. Desiderio e Fuga non sono da intendersi quale repentino di/stacco dall’oggetto vissuto in termini conflittuali (eternità – presente), ma sono da porre nella elaborazione antianalogica di cui Paolo si serve ai fini della dissipazione di un’architettura del Senso (nelle componenti espressive ed esistenziali): l’affrancamento dal possibile mythos si manifesta attraverso la rinuncia – rifiuto della metalinguistica sacrale configurata finalmente alla demitizzazione ‘linguistica’ in favore di una funzione di rapporto con la Realtà.
Ruffilli, più per aderenza alla memoria che non per analogia, adotta stilemi verbali evocati con la fisiologia dell’immaginazione.

da Le stanze del cielo

Ordine
Grate e cancelli da ogni
parte, intorno, tetri cortili
dalle altissime mura.
Ovunque regna
un ordine di cose
che qui è del tutto inusuale,
spazzato e ripulito
eppure in abbandono,
insieme ligio e duro.
L’odore di una gabbia
contro il muro:
muffa e colla, dentro,
umido e sudore.

Detenuto scelto
L’effetto è che
mi sento addosso
la fiacca del malato
e sono incerto
e lento, le giunture
piene di piombo,
stento pure a fare
da spettatore, qua,
dentro la gabbia.
Un detenuto scelto
(la sua condotta buona
è, spesso, la facciata
da marionetta
di chi nasconde
la sua disperazione)
occhi di vetro e
mani che si allungano
a caso da una parte
e dall’altra
a riordinare carte
di una improbabile
cercata verità,
nell’attesa che
le cose scritte
diventino realtà.

Prigione
Il tavolo e la sedia,
il piccolo scaffale
con pochi libri addosso
e la finestra sul cortile
dove è in corso
già la passeggiata
d’aria regolamentare:
pochi per volta
in marcia collettiva
di mezz’ora.
…che tu respiri
e mordi, inghiotti
e digerisci,
per sopravvivere
a te stesso
sordo e muto
a tutto il resto,
allo stato attuale
delle cose,
confuso e arreso
chiuso qua dentro
rifattoti animale

Evasione
Che sogno è questo
di fare un buco
tanto largo che, se vuoi,
ci puoi passare
calarti giù
da venti metri
usando corde
sottratte chissà dove
poco alla volta…
Da qui vedo una casa
là di fronte
sulla curva del paese
e un albero fiorito
che spicca per colore
sulla facciata in ombra.
Quel pesco in fiore
e il suo tornante rifiorire
che non avevo
mai considerato
mentre ero fuori
è il simbolo
di quello che mi manca
e che ho perduto.

da La sete, il desiderio
(Le stanze del cielo)

Vita tagliata
Non fu curiosità
e non fu noia
la cosa che mi spinse
e mi ha smarrito…
fu anzi la coscienza
minuziosa
di me e del mondo
a muovere e guidare
i passi ignoti
del mio precipitare.
Il mondo ed io,
corrispondenze esatte:
pietra senza labbro
e labbra senza verbo,
per quanto inseguo
e cerco.
Più che fuggire
gli sono andato
incontro,
ma niente ho mai
subito o abbandonato.
Ho sempre scelto,
e ho attaccato,
per ultimo me stesso…
né rinunciato affatto.
Ho scelto e amato,
sbagliando, sì,
e avendola aggredita,
ho guardato in faccia,
tagliata, la mia vita.

Fuga
Ma non perché
incompreso
e non amato,
debole forse
non vittima però,
estraneo a tutto
e di sicuro fuggitivo,
uno che sente
l’ebbrezza di scappare
verso il vuoto,
tra le braccia
del suo niente.
Per vivere da solo,
per vivere di lei
lasciando dietro a sé
il deserto,
l’anima in cambio
della sua luce
intermittente
in campo aperto.
Pallido evanescente
come uno spettro,
il buio negli occhi
e il suono del silenzio
dentro la mente.

Notte
O notte mia diversa
da tutte le altre
notti al mondo,
notte eternamente
luminosa
nella sua chiusa
fulminante assenza,
canto e armonia
che alita dentro
il tuo silenzio,
respiro che si tende
e gonfia all’infinito:
l’essere intero
non più diminuito,
l’abisso inabissato
riempito dal suo crollo.

Senza di lei
la sete, il desiderio:
un vuoto più profondo
di tutto il pieno
vomitato giù
fuori dal mondo.
Scavato con l’ago e
penetrato in carne,
dentro la vena
a risucchiarne il sangue
e poi di nuovo
che scivoli leggero
e che accarezzi i nervi
navigando sopra
col suo vapore lento
verso il cervello:
odore di un odore
eterno,
in piena fioritura
su cui di colpo
precipita l’inverno.

Non oggetto “letterario”, dunque, e non acquiescenza ideologico-canonica basata su manierismi laici o trascendenti, ma lotta fra opposizioni inconciliabili (il mito ‘storicistico e il mito ‘Io’) in reciproco annullamento, e che non hanno conseguentemente possibilità di sintesi.
Si delinea la morte del Tempo e del Ricordo senza timor panico di horror vacui, trascinando con sé il soggetto oltre le stantìe epigrafi sulla ‘Morte di Dio e del Padre’, oltre l’esaltazione del Rimpianto nel senso che Barthes attribuisce a Bataille, poiché il “referente” dell’Oblio, come punto assiomatico di un passato-terra di nessuno, si impone come pieno ontologico altrettanto esiziale ad un Io dissacrato ed esautorato della sua funzione di soggetto sovrano e perduto nelle sue teleologiche sovrabbondanze rappresentative.

Non vi è visione più realistica, in Ruffilli, di questo suo costruire il Reale d’alterità, di questo suo immaginare, come suggerirebbe Wittgenstein, “forme di vita azzerando la storia”.

(di Mirko Servetti su Viadellebelledonne)

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